«Sii dolce con me. Sii gentile.» – Mariangela Gualtieri

Auguste Rodin, La Cathédrale, 1908, Musée Rodin, Paris

 

Sii dolce con me. Sii gentile.
È breve il tempo che resta. Poi
saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo
dell’umano. Come ora ne
abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani. Non potremo
fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare
leggere.

Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli
con me e anche con te.
Quello che siamo
è prezioso piú dell’opera blindata nei sotterranei
e affettivo e fragile. La vita ha bisogno
di un corpo per essere e tu sii dolce
con ogni corpo. Tocca leggermente
leggermente poggia il tuo piede
e abbi cura
di ogni meccanismo di volo
di ogni guizzo e volteggio
e maturazione e radice
e scorrere d’acqua e scatto
e becchettio e schiudersi o
svanire di foglie
fino al fenomeno
della fioritura,
fino al pezzo di carne sulla tavola
che è corpo mangiabile
per il mio ardore d’essere qui.
Ringraziamo. Ogni tanto.
Sia placido questo nostro esserci –
questo essere corpi scelti
per l’incastro dei compagni
d’amore.

Mariangela Gualtieri

da “Mio vero”, in “Bestia di gioia”, Einaudi, Torino, 2010

Amica luna… – Michalis Ganàs

Andrew Wyeth, Wind from the Sea, 1947

 

Amica luna, mi dico,
ciottolo d’oro sul fondo del tuo sogno,
con occhi indolenziti dall’insonnia,
amica luna, mi dico,
ma chi ascolterà questa canzone.
E poi in fondo perché cantare,
nel cavo delle mani racchiudo il vento
conosce molte vele, conosce molti addii,
non c’è il minimo interesse,
se ho bisogno di una sigaretta
la chiederò al mio amico medico.
Gli amici, sai, sono sempre più rari,
diventano avvocati, medici, professori,
un giorno ti sorprendi,
non fanno che parlare di macchine, di viaggi in Europa,
non c’è niente di male,
è soltanto un fatto nuovo, insolito.
Un giorno ti sorprendi,
guardi negli occhi di una donna, di una donna qualunque,
ti ripeti piano vecchi motivi,
«Me ne andrò l’inverno, ricurvo un po’ sulla sinistra
per il peso del tuo amore»,
ti ricordi di quanto ti è mancato il suo cuore gemello,
incidi versi, ti ripeti piano vecchi motivi,
«Mio cipresso sottile, ti sogno da tre notti»
qualche volta prova disgusto di tutto questo,
non far sprofondare la tua vita
in tanti dettagli.
Di nuovo torna la luna,
è amica – mi dico – e piena di ricordi,
calmi annottati colli natii,
nel palmo della pioggia
isole asciutte di grilli,
voci della notte fin giù al fiume
con i platani e l’affaccendarsi delle rane.
Se una volta esisterai
fecondando il ventre che ti ho preparato,
avrai canneti per molte gioie,
avrai gli occhi che ti prometto
e un cuore che m’inonderà col suo sangue.

Michalis Ganàs

(Traduzione di Paola Maria Minucci)

da “La Grecia, sai…”, Donzelli Poesia, 2004

∗∗∗

Καλό φεγγάρι…

Καλό φεγγάρι λέω,
χρυσό χαλίϰι στό βυθό του ὀνείρου σου,
μέ μάτια πού πονοῦν ἀπ’ τήν ἀγρύπνια,
ϰαλό φεγγάρι λέω,
μά ποιός θ’ ἀϰούσει τοῦτο τό τραγούδι.
Καλά ϰαλά γιατί νά τραγουδῶ,
μέσα στίς χοῦφτες μου ϰρατῶ τόν ἄνεμο,
ξέρει πολλά πανιά, ξέρει πολλά μαντίλια,
δέν ἔχει διάφορο ϰανένα,
ἄν χρειαστῶ τσιγάρα,
θά δανειστῶ ἀπ’ τό γιατρό τό φίλο μου.
Οἱ φίλοι ξέρεις λιγοστεύουν,
γίνονται διϰηγόροι, γιατροί, ϰαθηγητές,
ξαφνιάζεσαι μιά μέρα,
ἀρχίζουν νά μιλᾶνε γι’ αὐτοϰίνητα, ταξίδια στήν Εὐρώπη,
αὐτά δέν εἶναι ἄσχημα,
μονάχα ἀσυνήθιστα, πρωτάϰουστα.
Ξαφνιάζεσαι μιά μέρα,
ϰοιτάζεις μές στά μάτια μιᾶς γυναίϰας, ὅποιας γυναίϰας,
λές σιγανά παλιούς σϰοπούς,
«Θά φύγω τό χειμώνα γέρνοντας λίγο ἀριστερά
ἀπό τό βάρος τῆς ἀγάπης σου»,
θυμᾶσαι πόσο σοῦ ’λειψε ἡ δίδυμη ϰαρδιά της,
χαράζεις στίχους, λές σιγανά παλιούς σϰοπούς,
«Λιγνό μου ϰυπαρίσσι, σ’ ὀνειρευόμουνα τρεῖς νύχτες»,
ϰάποτε νά τά σιχαθεῖς ἐτοῦτα,
νά μή βουλιάξεις τή ζωή σου
νά μή βουλιάξεις τή ζωή σου
μέσα σέ τόσες λεπτομέρειες.
Πάλι γυρίζει τό φεγγάρι,
ϰαλό τό λέω ϰαί γεμάτο μνῆμες,
ἥσυχοι νυχτωμένοι λόφοι τῆς πατρίδας,
μές στήν παλάμη τῆς βροχῆς
στεγνές νησίδες τριζονιῶν,
φωνές τῆς νύχτας ὥς ϰάτω στό ποτάμι
μέ τά πλατάνια ϰαί τό νοιϰοϰυριό τῶν βατραχάδων.
Ἄν ϰάποτε ὑπάρξεις
ϰαρπίζοντας τή μήτρα πού σοῦ ἑτοίμασα,
θά ’χεις ϰαλάμια γιά πολλές χαρές,
θά ’χεις τά μάτια πού σοῦ τάζω
ϰαί μιά ϰαρδιά πού θά μέ πνίξει μέ τό αἷμα της.

Μιχάλης Γκανάς 

da “Ἀϰάθιστος Δεῖπνος”, 1978

«Ogni notte, tornando dalla vita» – Cesare Pavese

Foto di Man Ray

     

     Ogni notte, tornando dalla vita,
dinanzi a questo tavolo
prendo una sigaretta
e fumo solitario la mia anima.

     La sento spasimare tra le dita
e consumarsi ardendo.
Mi sale innanzi agli occhi con fatica
in un fumo spettrale
e mi ravvolge tutto,
a poco a poco, d’una febbre stanca.
I rumori e i colori della vita
non la toccano piú:
sola in se stessa è tutta macerata
di triste sazietà
per colori e rumori.

     Nella stanza è una luce violenta
ma piena di penombre.
     Fuori, il silenzio eterno della notte.

Eppure nella fredda solitudine
la mia anima stanca
ha tanta forza ancora
che si raccoglie in sé
e brucia d’un’acredine convulsa.
     Mi si contrae fra mano,
poi, distrutta, si fonde e si dissolve
in una nebbia pallida
che non è piú se stessa
ma si contorce tanto.

      Cosí ogni notte, e non mi vale scampo,
in un silenzio altissimo,
io brucio solitario la mia anima.

Cesare Pavese

[14 maggio 1928]

da “Prima di «Lavorare stanca» (1923-1930)”, in “Cesare Pavese, Le poesie”, Einaudi, Torino, 1998

Ode barbara X – Nasos Vaghenàs

Andrew Wyeth, Moon Madness, 1982

 

Calda luna, immensa sommossa, madre delle tenebre,
ferma in una fredda punta di novembre.
Tu che stordisci gli amanti sotto gli alberi
sotto il fitto fogliame li rapisci

con passione selvaggia.

E cosa non illumini: finestre, ferite, impiccati,
roulotte, tradimenti, camion posteggiati,
donne tristi, cieli, oleandri e tutte quelle
cose che nascono la notte e tutte quelle
che muoiono al mattino.

Solitaria, superba, immacolata, incorruttibile, dannata,
imperscrutabile, indecifrabile, infinita, armonica.
Sono esattamente ciò che sei dentro di me.
Sono il tuo amante su questo pianeta.
Ti seguo nudo.

So che non hai detto l’ultima parola.
So che non esiste nulla piú profondo di te.
Insonne provvedi alla qualità della notte.
Assorbi ogni tristezza. Purifichi
ogni peccato.

Primordiale, primigenia, prioritaria,
multiforme, molteplice, matrice, menade.
Sillaba dell’inesprimibile, capezzolo del nulla, chimera.
Sei essenzialmente il suono del tuo nome.
Sei la parte visibile dello zero.

Nasos Vaghenàs

(Traduzione di Caterina Carpinato)

(da Odi barbare, 1992)

da “Vagabondaggi di un non viaggiatore”, Crocetti Editore, 1997

∗∗∗

Βάρβαρη ὠδή Χ

Ζεστή σελήνη, ἀπέραντη ἐπανάσταση, μητέρα τοῦ σϰότους
σταματημένη σέ μιά ϰρύα ἄϰρη τοῦ Νοεμβρίου.
Ἐσύ πού ζαλίζεις τούς ἑραστές ϰάτω ἀπ’ τά δέντρα
ϰάτω ἀπό σϰοτεινά φυλλώματα τούς συνεπαίρνεις
μέ ἄγριο πάθος.

Καί τί δέν φωτίζεις; παράθυρα, πληγές, ϰρεμασμένους
τροχόσπιτα, προδοσίες, σταματημένα φορτηγά
θλιμμένες γυναῦιες, οὐρανούς, πιϰροδάφνες
ϰι ὅλα ὅσα γεννιοῦνται τή νύχτα, ϰι ὅλα ὅσα
πεθαίνουν τό πρωί.

Φιλέρημη, περήφανη, ἀλάνθαστη, ἀδιάφθορη, ϰολασμένη
ἄχραντη, ἀνεξιχνίαστη, ἄναρχη, ἁρμονιϰή.
Εἶμαι αὐτό ἀϰριβῶς πού εἶσαι μέσα μου.
Εἶμαι ὁ ἀγαπημένος σου σ’ αὐτόν τόν πλανήτη.
Σ’ ἀϰολουθῶ γυμνός.

Ξέρω πώς δέν ἔχεις πεῖ τήν τελευταία σου λέξη.
Ξέρω πώς δέν ὑπάρχει τίποτε βαθύτερο ἀπό σένα.
Ἄγρυπνη μεριμνᾶς γιά τήν ποιότητα τῆς νύχτας.
Ἀπορροφᾶς ὅλη τή θλίψη. Ἐξαγνίζεις
ὅλα τ’ ἀνομήματα.

Προαιώνια, πρόϰοσμη, προϰαταϰλυσμιαία
πολύτροπη, πλατυτέρα, πανδαμάτειρα, παντοτινή.
Συλλαβή τοῦ ἀνείπωτου, θηλή τοῦ τίποτα, χίμαιρα.
Εἶσαι ϰυρίως ὁ ἦχος ἀπό τ’ ὄνομά σου.
Εἶσαι ἡ ὁρατή πλευρά τοῦ μηδενός.

Νάσος Βαγενᾶς

da “Βάρβαρες ὠδές”, 1992

Mito – Cesare Pavese

Mimmo Jodice, Sibari, 2000

 

Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo,
senza pena, col morto sorriso dell’uomo
che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto
arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio
non saprà piú dov’erano le spiagge d’un tempo.

Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate,
e negli occhi tumultuano ancora splendori
come ieri, e all’orecchio i fragori del sole
fatto sangue. È mutato il colore del mondo.
La montagna non tocca piú il cielo; le nubi
non s’ammassano piú come frutti; nell’acqua
non traspare piú un ciottolo. Il corpo di un uomo
pensieroso si piega, dove un dio respirava.

Il gran sole è finito, e l’odore di terra,
e la libera strada, colorata di gente
che ignorava la morte. Non si muore d’estate.
Se qualcuno spariva, c’era il giovane dio
che viveva per tutti e ignorava la morte.
Su di lui la tristezza era un’ombra di nube.
Il suo passo stupiva la terra.

                                                    Ora pesa
la stanchezza su tutte le membra dell’uomo,
senza pena: la calma stanchezza dell’alba
che apre un giorno di pioggia. Le spiagge oscurate
non conoscono il giovane, che un tempo bastava
le guardasse. Né il mare dell’aria rivive
al respiro. Si piegano le labbra dell’uomo
rassegnate, a sorridere davanti alla terra.

Cesare Pavese

[ottobre 1935]

da “Lavorare stanca”, Einaudi, Torino, 1998