La strada della sete – Pierluigi Cappello

Foto di Danilo De Marco

 

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.
Dante, Inferno, XXVI, 142

Sarà stato domani o l’altro ieri: mi sono sentito vecchissimo.
Stavo seduto su di una sedia impagliata, vicino alla finestra,
stava con me la desolazione della stanza vuota con nessuno.
Non parlavo da secoli. Ed erano cresciute erbe selvagge
intorno alla mia voce, oltre la finestra.
La barba aveva messo radici al suolo, il viso era il suo frutto vizzo
e la luce faticava a spartirsi fra le erbe,
toccava le mie ciglia come l’ultimo respiro di Dio.
Quel giorno mi sono sentito talmente vecchio
da dubitare che un insignificante capriccio dell’aria
facesse delle mie dita gessose una polvere soffiata,
i resti di un’antica pergamena imperiale.
Voi, che avete camminato con me, né i vostri passi
né le vostre voci lasciano piú impronte, se non nella forma
di un vasto, risonante silenzio, nel ricordare. Allora
se c’è un tempo, questo è il tempo di raggiungervi, ho pensato,
mentre un ragno cuciva un nido nel mio orecchio.
Avevo smesso di desiderare
da prima che mi accorgessi che ogni desiderio si era spento
e c’era tanto spazio dentro di me, cosí mi sono lasciato cadere
e la fiducia mi è venuta dietro.
Ritrovarsi con il proprio corpo giovane, è cosí che mi è successo
mi sono guardato il petto ed era un petto glabro
mi sono guardato le mani e le dita non erano piú
deviate dagli anni, tormentate come rami incendiati,
ma schiette e dritte, fresche come un torrente montano.
Mi sono guardato i piedi e posavano, forti, su una pietraia.
È a quel punto che mi è parso di essere
nella metà iniziale di una galleria,
la galleria era breve, di là si scorgeva una scarpata
inondata di luce e un verdeggiare in movimento
cosí intenso, nella luce, che le foglie sembravano separarsi
l’una dall’altra, esplodere sinfoniche, lo stormo e il volo.
Da lí, da quel tremare, alte su di me, sono venute a fermare i miei passi
due figure. La prima figura era mio padre
cosí come lo ricordavo, un uomo di mezza età
raccolto, gli zigomi alti, la bocca larga
pronta alla vita, il collo di un cavallo da tiro.
Era lui ma non era lui mentre mi stava davanti
teneva negli occhi una luce senza passione, una forza
trattenuta, la fibra di un arco pronta a scattare
da prima della storia, quando si uccideva con le proprie mani
per un pascolo, una capra, un albero di ulivo.
La seconda figura era quella di un serpente
e mi investí di calore la luce che lo precedeva
e mi sentivo nudo e consegnato in quel precedere che illumina
dalle caviglie al sesso dal sesso al petto dal petto alla radice di me
spogliato anche della mia nudità. Quando mio padre
cominciò a parlare, l’aria sembrò chiamarsi alle sue labbra:
“Il tuo morire non si è ancora compiuto, morirai qui, adesso,
una seconda volta, e tanto ti sarà dato quanto tu hai inflitto in vita.
Ora scegli, me o il serpente?”.
La sua voce si depose intorno a me. Scelsi il serpente,
e la luce che mi aveva investito prese la sua forma,
il dolore fu staccarsi dal dolore.

Eccovi, ecco il fiorire, la memoria si schiuse ai loro volti
come un uovo, i miei occhi si aprirono in tenerezza mentre
li mettevo a fuoco, Bortolo si fece avanti per primo,
aveva la grazia del vento fra i salici, la prontezza
del ragazzo infallibile con la fionda che era stato,
poi vidi mio padre dodicenne, sorridente allungava il polso
per mostrarmi l’orologio nuovo, suo padre era poco dietro di lui,
compiaciuto, alto come una fortezza, i baffi alla umbertina,
le spalle larghe come le strade d’America e poi c’era Giordano,
il misuratore, l’uomo dal quale ti saresti aspettato
disegni sulla sabbia tracciati con una verga sottile di frassino,
Roberto stava piú lontano, si teneva vicino a Gina, la mansueta,
la dissipata, con l’incertezza della lepre, lo splendore degli occhi di Alda
profetici e ciechi. La voce acuta di Rino, lo stalliere,
mi colpí in faccia come una manciata di chiodi, Cesare
mi abbracciò con quelle sue braccia solide, da muratore
e le mani dalle dita spesse, abrasive, la scena chiusa negli occhi
dell’avvocato dal profilo di falco, dai gesti ineffabili
parenti delle nuvole, e a poco a poco, quando ognuno si fu
avvicinato – chi per toccarmi, chi per stringermi, chi semplicemente
per mettere il suo sguardo nel mio e allargare un cerchio di silenzio –
la mia sorpresa si sciolse in calma e la calma in abbandono
e tutti erano in una sola felicità nel vedermi, felicemente vuoti.
“Non so se volevi venire ma io ti ho portato dentro un ricordo”
mi disse Lia, con il candore dei suoi cinque anni.
Le sue parole non si erano spente quando sparí, come sparisce
la luce del lampo, e con lei scomparvero tutti, nessun volto
rimase a guardarmi e come quando la forza dell’acqua rifluisce
lasciandosi dietro soltanto detriti e spezzoni, a me venne lasciata
una solitudine nuda come un sasso, che mi riempiva gli occhi.

Concentrai la mia desolazione nel primo urlo,
dopo che mi ero lasciato cadere sulle ginocchia, il secondo urlo
tagliò l’aria con la forza del ferro che apre una pancia,
poi urlai finché potei, e ogni volta l’eco che tornava a me
misurava l’intensità della mia separazione, urlai finché
l’eco non tornò piú e l’urlo non fu altro che un soffio, il gorgogliare
di un animale colpito, la gola attraversata da un pasto di lame.
Quando puntai sulle palme per alzarmi, il costato
scricchiolò come un canestro e l’impassibilità sovrana
di chi non ha piú niente dietro di sé scese su di me:
con meditata lentezza, mi guardai attorno, per capire
dove mi trovavo. Una profonda bassura, circolare,
chiusa ai margini da una scarpata di massi e pietrisco rossastri
era il luogo che aveva trattenuto le mie urla, un posto che sembrava
bruciato dall’interno dove pietre, polvere, colore
erano una cosa sola con il caldo che mi premeva le tempie,
che riempiva i polmoni, che faceva di me un organismo
indifferente, obbediente al suo funzionamento primordiale: sangue,
circolazione, respiro. Presi una direzione qualsiasi, deciso
a salire un punto qualsiasi della scarpata, lo feci conquistandone
le asperità metro per metro, sdrucciolando, sbucciandomi le ginocchia,
ricadendo e risalendo, con l’ostinazione di un insetto dentro un bicchiere
e quando superai l’orlo, mi apparve la vastità di un deserto,
raccolto nel suo silenzio; il suolo era di un giallo quasi bianco,
salino, segnato da una ragnatela di crepe che accompagnavano
il mio sguardo verso l’orizzonte: era come se lembo dopo lembo
si fosse lacerato da sé, per fare posto all’acqua che non c’era.
Il riverbero del sole allo zenit era accecante, bruciava le congiuntive.
Strinsi le palpebre per vedere meglio dove il cielo si separava dalla terra
ma la linea d’orizzonte era piú intuita che reale, piú un passaggio
lento, sfumato dal quasi bianco del suolo al bianco del cielo,
opaco per il calore. Ecco che cos’è essenziale, una linea
che non c’è ma c’è, di una semplicità che non ammette errori
il segno sul quale piegarsi per decifrare. L’enorme libertà
delle direzioni fece muovere i miei passi, m’inoltrai nella sete
con lo sguardo basso, un piede dopo l’altro, e mentre camminavo
commisuravo la mia biologia alla durezza del luogo.
Camminai e camminai, qualche volta mi fermavo
per scrutare il cielo, ma il sole era inchiodato al suo zenit,
ebbi l’impressione di camminare per sempre, per sempre
misurandomi, fermandomi, scrutando, finché, le fauci
in fiamme, gli occhi bruciati, i gesti sempre piú slegati
l’uno dall’altro, la mia volontà perse la presa e caddi
e lasciai che il calore del suolo mi scottasse
il petto e la guancia, sentii il sudore raccogliere la polvere.

A faccia in giú, gli occhi chiusi, premetti i polpastrelli al suolo
e il suolo non era piú polvere e calore ma qualcosa di solido e fresco
e quella freschezza passò per la guancia e il petto
si versò tutta nel mio corpo, allora aprii gli occhi, sollevai la testa,
piano, come l’erba dopo che è stata calpestata, mi accorsi di giacere
su di un lastricato: a due passi, ancora fuori fuoco, c’era l’ombra
di una pergola e, piú in là, una fontana; mi trascinai verso l’ombra
sotto il pergolato, mi voltai e mi abbandonai a quel benessere
come quando ci si lascia galleggiare, sostenuti dalla confidenza
dell’acqua. Non so quanto rimasi lí, nell’abbandono. Rialzarmi
fu qualcosa di liquido, armonico, andai verso la fontana e bevvi
o mi parve di bere, il grigio delle pietre e il verde intenso della pergola
passarono per la mia pelle, chinai la testa sotto la fontana
come per un battesimo, l’acqua si infilò nel nero dei capelli
ne sentii le dita fresche passare fra le scapole, correre il mio corpo
riempire il campo arso che ero stato. Come se io fossi
un’infanzia: lei mi apparve cosí, e sembrava lí, da sempre.
Con la presa che hanno in noi i nostri gesti piú consueti
impossibili da descrivere e da separare da noi stessi.
Posso dire dei suoi capelli, che avevano la consistenza della luce
e sottili e lunghi erano un corpo solo con l’aria o della linea
delle braccia che le accompagnava i fianchi con la dolcezza
di un soffio su uno specchio d’acqua, o del turchese
innaturale dello sguardo, un turchese che soltanto i bambini
possono immaginare uguale, se non hanno mai visto il mare;
ma la sorpresa che mi schiuse alla commozione come un frutto
quando mi accorsi della sua ombra, è difficile da dire:
era una sorpresa che non era una sorpresa, era l’evidenza
delle cose ovvie quando all’improvviso si aprono
e ti aggrediscono e afferrano il tuo sguardo, lo riportano
alla prima nudità. “Hai un’ombra, il tuo corpo sembra avere peso,
sei viva in questa terra di morti, da dove vieni e chi ti ha portata
qui?”, le domandai, arreso. E, alla domanda, l’indulgenza
e la compassione segnarono il suo volto di un sorriso che mi avvolse.
“Vengo da una distanza che non puoi commensurare.
L’esponente si accartoccerebbe sotto il peso del numero
espresso e poiché la tua mente è piccola e la distanza è grande
non pensarla mai, dovresti farti cosí vasto da scomparire
se la pensassi”. Il cielo era sotto di noi quando me lo disse.

“Egli si sentí svanire”.

Pierluigi Cappello

da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010

Cercami – Vladislav Felicianovič Chodasevič

Foto di Christian Coigny

 

Cercami nella luce diafana di primavera.
Io, battito di ali impercettibili,
e suono, respiro, luminello sul parquet,
io più lieve ancora: lui è qui, io non sono più.

Credi, eterna amica, non c’è fra noi distacco!
Ascolta, sono qui. Mi sfiorano
le tue vive, trepide mani,
tese nel bagliore fluente del giorno.

Fermati. Chiudi come per caso
gli occhi. Un ultimo sforzo per me:
e alla punta delle dita tremanti, segreto,
brucerò forse in aura di fiamma.

Vladislav Felicianovič Chodasevič

20 dicembre 1917 – 3 gennaio 1918

(Traduzione di Caterina Graziadei)

Da Per la via del grano

da “Non è tempo di essere”, Bompiani, 2019

∗∗∗

Da ПУТЁМ ЗЕРНА

Ищи меня

Ищи меня в сквозном весеннем свете.
Я весь — как взмах неощутимых крыл,
Я звук, я вздох, я зайчик на паркете,
Я легче зайчика: он — вот, он есть, я был.

Но, вечный друг, меж нами нет разлуки!
Услышь, я здесь. Касаются меня
Твои живые, трепетные руки,
Простертые в текучий пламень дня.

Помедли так. Закрой, как бы случайно,
Глаза. Еще одно усилье для меня —
И на концах дрожащих пальцев, тайно,
Быть может, вспыхну кисточкой огня.

Владислав Фелицианович Ходасевич

20 декабря 1917 — 3 января 1918

da “Putëm zerna” [Per la via del grano], Moskva, Tvorčestvo, 1920

Sessant’anni dopo – Derek Walcott

John Loengard, Hand of Georgia O’Keeffe

27

Dalla mia sedia a rotelle nella lounge della Virgin a Vieuxfort,
ho visto, seduta sulla sua sedia a rotelle, la sua bellezza
curva come un fiore sgualcito, colei che in quanto
fuoco della mia giovinezza pensavo avrebbe assolto
il suo compito di restare aurea e bella e giovane per sempre,
mentre io invecchiavo. Era vecchia, col triplo mento, il suo sorriso
irresistibile irretito fra le rughe, ma per un istante
ho sentito tornare la febbre mentre, seduti, storpi,
odiavamo il tempo e la falsità dei convenevoli.
Onde minuscole si frangono ancora sul porticciolo di pietra
dove un barcaiolo mi lasciava nella pace arancione
del crepuscolo, mezzo secolo fa, forse più felice
perché eretto, lei timida come un daino, io perseguendo
una consumazione impossibile; chi ci conosceva sapeva
che non saremmo mai stati insieme, quantomeno non in piedi.
Ora i coltelli silenziosi dell’interfono ci trafiggono.

Derek Walcott

(Traduzione di Matteo Campagnoli)

da “Egrette bianche”, Adelphi Edizioni, 2015

∗∗∗

27.

Sixty Years After

In my wheelchair in the Virgin lounge at Vieuxfort,
I saw, sitting in her own wheelchair, her beauty
hunched like a crumpled flower, the one whom I thought
as the fire of my young life would do her duty
to be golden and beautiful and young forever
even as I aged. She was treble-chinned, old, her devastating
smile was netted in wrinkles, but I felt the fever
briefly returning as we sat there, crippled, hating
time and the lie of general pleasantries.
Small waves still break against the small stone pier
where a boatman left me in the orange peace
of dusk, a half-century ago, maybe happier
being erect, she like a deer in her shyness, I stalking
an impossible consummation; those who knew us
knew we would never be together, at least not walking.
Now the silent knives from the intercom went through us.

Derek Walcott

da “White Egrets”, New York: Farrar, Straus & Giroux, 2010

«Dove ti sei perduta» – Chandra Livia Candiani

Foto di Patty Maher

 

Dove ti sei perduta
da quale dove non torni,
assediata
bruci senza origine.
Questo fuoco
deve trovare le sue parole
pronunciare condizioni
di smarrimento dire:
«Sei l’unica me che ho
torna a casa».

Chandra Livia Candiani

da “La domanda della sete”, 2016-2020, Einaudi, Torino, 2020

È la notte di san Lorenzo… – Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

 

È la notte di san Lorenzo. Prima
che cadano le stelle scavalchiamo
il muretto del centro sportivo.
L’acqua della piscina è ancora mossa;
imita nei suoi guizzi le vicine
luci del campo da calcio; riflette
i nostri visi oltre il bordo, curiosi
del fondale laccato.

“Guarda”, mi dici alzando la tua Tennent’s
verso la luna, “è come se a momenti
tutti i passati a noi qui ritornassero;
l’acqua si muove, si sta preparando
a ridarceli tutti”. Getti via
la bottiglia ormai vuota. Ci sediamo.
Ignoravamo che una volta nudi
saremmo nudi rimasti per sempre.

C’è qualcuno vicino a noi, ma l’ombra
lo nasconde. Sappiamo a cosa i corpi
servono gli uni agli altri, ché vent’anni
sono bastati a questo.
Abbiamo smesso di parlare; adesso
ascoltiamo soltanto.

                                  Le presenze
non ci temono più; così continuano
i loro giochi a bassa voce, quasi
chiedessero a noi di imitarle.

Gabriele Galloni

da “L’estate del mondo”, Marco Saya Edizioni, 2019