Dorme il mio amico – André Gide

 

     Dorme il mio dolce amico sotto la tenda.
     Ed io veglio perché lui dorma.
Quando son solo è che aspetto il mio amico.
     Da lui non vado che la sera.
È questa l’ora di tutti i fuochi del Mezzogiorno;
La terra tutta discolora di sete, d’attesa e di paura;
L’ora in cui la volgarità degli impavidi vacilla,
In cui il pensiero dei saggi si confonde, —
In cui la virtù dei puri si corrompe, —
Tanto la sete è desiderio d’amore
E l’amore è sete di toccare, —
In cui tutto ciò che non è di fuoco
In questa vampa perde il suo colore.
C’è chi, a sera, sfinito da un caldo così grande, non ha più trovato il suo coraggio;
C’è chi, attraverso il deserto, ha cercato, tutta la notte, vanamente appresso al suo pensiero smarrito;

Grazie al mio amico
Senza paura attendo la dolce notte.
Quando è sera, il mio amico si sveglia;
Vado da lui, e lungamente ci consoliamo.
Accompagna i miei occhi nel giardino delle stelle.
Gli parlo dei grandi alberi del Nord
E delle fredde vasche in cui la luna,
Pastore celeste, come un amante, si bagna;
Lui mi spiega che solo le fuggevoli cose
Hanno inventato le nude parole
Mentre quelle che non devono perire
Tacciono sempre, avendo tutto il tempo di parlare —
E che la loro eternità le narra.

André Gide

(Traduzione di Roberto Rossi Precerutti)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore

∗∗∗

Mon doux…

     Mon doux ami dort sous la tente.
     C’est pour qu’il dorme que je veille.
Quand je suis seul c’est que j’attends mon ami.
     Je ne vais à lui que le soir.
C’est maintenant l’heure de tous les feux du Midi;
Toute la terre flétrit de soif et de crainte et d’attente;
C’est l’heure où la volonté des hommes vaillants s’épouvante,
Où la pensée des sages se déconcerte,
Où la vertu des purs s’altère, —
Tant la soif est désir d’amour
Et l’amour est soif de toucher, —
Où tout ce qui n’est pas de feu
Sous cette ardeur se décolore.
Il en est qui, le soir venu, n’ont plus retrouvé leur courage et que tant de chaleur a lassés;
Il en est qui, le long du désert, ont cherché,  toute la nuit après en vain leur pensée égarée; —

À cause de mon ami
J’attends la douce nuit sans crainte.
Quand le soir vient, mon ami se réveille;
Je vais à lui; nous nous consolons longuement.
Il promène mes yeux dans le jardin des étoiles.
Je lui parle des grands arbres du Nord
Et des froids bassins où la lune,
Berger du ciel, comme une amante, va se laver;
Il m’explique que les seules choses périssables
Ont inventé les seules paroles
Et que celles qui ne doivent point périr
Se taisent toujours, ayant tout le temps pour parler —
Et que leur éternité les raconte.

André Gide

da “El Hadj”, in “André Gide, Œuvres complètes”, Gallimard, 1933 – 1939

«Non ho mai capito se io fossi» – Eugenio Montale

Amedeo Modigliani, Donna con vestito scozzese, 1916, collezione privata

5

Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel blabla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.

Eugenio Montale

da “Xenia I”, in “Satura. 1962-1970”, “Lo Specchio” Mondadori, 1971

Ophélie – Arthur Rimbaud

Foto di Dorota Górecka

 

I

Sur l’onde calme et noire où dorment les étoiles
La blanche Ophélie flotte comme un grand lys,
Flotte très lentement, couchée en ses longs voiles…
– On entend dans les bois lointains des hallalis.

Voici plus de mille ans que la triste Ophélie
Passe, fantôme blanc, sur le long fleuve noir.
Voici plus de mille ans que sa douce folie
Murmure sa romance à la brise du soir.

Le vent baise ses seins et déploie en corolle
Ses grands voiles bercés mollement par les eaux;
Les saules frissonnants pleurent sur son épaule,
Sur son grand front rêveur s’inclinent les roseaux.

Les nénuphars froissés soupirent autour d’elle;
Elle éveille parfois; dans un aune qui dort,
Quelque nid, d’où s’échappe un petit frisson d’aile:
– Un chant mystérieux tombe des astres d’or.

II

Ô pâle Ophélie! belle comme la neige!
Oui, tu mourus, enfant, par un fleuve emporté!
– C’est que les vents tombant des grands monts de Norwège
T’avaient parlé tout bas de l’âpre liberté;

C’est qu’un souffle, tordant ta grande chevelure,
À ton esprit rêveur portait d’étranges bruits;
Que ton cœur écoutait le chant de la Nature
Dans les plaintes de l’arbre et les soupirs des nuits;

C’est que la voix des mers folles, immense râle,
Brisait ton sein d’enfant, trop humain et trop doux;
C’est qu’un matin d’avril, un beau cavalier pâle,
Un pauvre fou, s’assit muet à tes genoux!

Ciel! Amour! Liberté! Quel rêve, ô pauvre Folle!
Tu te fondais à lui comme une neige au feu:
Tes grandes visions étranglaient ta parole
– Et l’Infini terrible effara ton œil bleu!

III

– Et le Poète dit qu’aux rayons des étoiles
Tu viens chercher, la nuit, les fleurs que tu cueillis;
Et qu’il a vu sur l’eau, couchée en ses longs voiles,
La blanche Ophélie flotter, comme un grand lys.

Arthur Rimbaud

da “Œuvres complètes”, a cura di Antoine Adam, “Bibliothèque de la Pléiade”, Paris, 1972

∗∗∗

Ofelia

I

Sull’onda calma e nera dove le stelle dormono
Fluttua la bianca Ofelia come un gran giglio, fluttua
Lentissima, distesa sopra i suoi lunghi veli…
– S’odono da lontano, nei boschi, gli hallalì.

Da mille anni e più la dolorosa Ofelia
Passa, fantasma bianco, sul lungo fiume nero;
Da mille anni e più la sua dolce follia
Mormora una romanza al vento della sera.

La brezza le bacia il seno e distende a corolla
Gli ampi veli, dolcemente cullati dalle acque;
Le piange sull’omero il brivido dei salici,
S’inclinano sulla fronte sognante le giuncaie.

Sgualcite, le ninfee le sospirano intorno;
Ella ridesta a volte, nell’ontano che dorme,
Un nido, da cui sfrùscia un batter d’ali:
– Un canto misterioso scende dagli astri d’oro.

II

Pallida Ofelia! Come neve bella!
In verde età moristi, trascinata da un fiume!
– Calati dai grandi monti di Norvegia, i venti
Ti avevano parlato di un’aspra libertà;

Poi che un soffio, attorcendoti la chioma folta,
All’animo sognante recava strane voci;
E il tuo cuore ascoltava la Natura cantare
Nei sospiri della notte, nei lamenti dell’albero;

Poi che il grido dei mari dementi, immenso rantolo,
Frantumava il tuo seno, fanciulla, umano troppo, e dolce;
Poi che un mattino d’aprile, un bel cavaliere pallido
Sedette, taciturno e folle, ai tuoi ginocchi!

Cielo! Libertà! Amore! Sogno, povera Folle!
Là ti scioglievi come neve al fuoco:
Le tue grandi visioni ti facevano muta
– E il tremendo Infinito atterrì il tuo sguardo azzurro!

III

– Ed il poeta racconta che al raggio delle stelle
Vieni , la notte, a prendere i fiori che cogliesti;
E che ha visto sull’acqua, distesa fra i lunghi veli,
Fluttuare bianca come un gran giglio Ofelia.

Arthur Rimbaud

(Traduzione di Diana Grange Fiori)

da “Arthur Rimbaud, Opere”, “I Meridiani” Mondadori, 1975

∗∗∗

Ofelia

I

Sull’acqua calma e nera dove dormon le stelle
Come un gran giglio ondeggia Ofelia bianca e sola,
Ondeggia lentamente, stesa nei lunghi veli…
— Nelle selve lontane s’ode un grido di caccia.

Sono piú di mill’anni che la dolente Ofelia
Passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Sono piú di mill’anni che dolce e mentecatta
Mormora una romanza nella brezza serale.

Il vento bacia il seno e dispiega in corolla
I grandi veli molli che la corrente culla;
Rabbrividendo, i salici piangon sulla sua spalla,
Sull’ampia fronte in sogno pende flessuoso il giunco.

Sfiorate, le ninfee le sospirano intorno;
Ella desta, talora, nel sonno di un ontano,
Un nido donde s’alza un breve fremer d’ala:
— Un canto misterioso scende dagli astri d’oro.

II

Pallida Ofelia, tu, bella come la neve,
Moristi ancor fanciulla e il fiume ti rapí!
— I venti delle vette alte della Norvegia
Ti avevano parlato dell’aspra libertà;

E un soffio, sconvolgendo l’ampia tua chioma bionda,
All’anima sognante strani fruscii recava;
Il tuo cuore ascoltava il canto delle cose
Nei gemiti degli alberi, nei sospiri notturni;

L’urlo dei mari in furia, come un immenso rantolo,
Squassava il sen fanciullo, troppo mite ed umano;
E un mattino d’aprile un bel cavalier pallido,
Povero mentecatto, muto ai tuoi piè sedette.

Cielo! Amor! Libertà! Che sogno, o dolce Pazza!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al fuoco:
Le tue grandi visioni ti strozzavan la voce,
— L’Infinito terribile smarrí il tuo sguardo azzurro!

III

Ed il Poeta dice che ai raggi delle stelle
Vieni a cercar, la notte, i fiori che cogliesti,
E che ha visto sull’onda, stesa nei lunghi veli,
La mesta Ofelia andare, bianca come un gran giglio.

Arthur Rimbaud

(Traduzione di Ivos Margoni)

da “Arthur Rimbaud, Opere”, Feltrinelli, Milano, 1964

∗∗∗

Ofelia

I

Sull’acqua calma e nera, dove dormono le stelle,
come un gran giglio ondeggia la bianca Ofelia,
ondeggia lentamente, stesa fra i lunghi veli…
– Dalle selve lontane s’odono grida di caccia.

Son più di mille anni che la triste Ofelia
passa, bianco fantasma, sul lungo fiume nero.
Son più di mille anni che la sua dolce follia
mormora una romanza alla brezza della sera.

Il vento bacia i suoi seni e dischiude a corolla
i grandi veli cullati mollemente dalle acque;
i salici frusciando piangono sulla sua spalla,
sull’ampia fronte sognante si chinano le canne.

Le ninfee sfiorate le sospirano intorno;
ella risveglia a volte, nel sonno di un ontano,
un nido da cui sfugge un piccolo fremer d’ali:
– un canto misterioso scende dagli astri d’oro.

II

O pallida Ofelia, bella come la neve!
Tu moristi fanciulla, da un fiume rapita!
– I venti che precipitano dai monti di Norvegia
ti avevano parlato dell’aspra libertà;

e un soffio, sconvolgendo le tue folte chiome,
all’animo sognante portava strani fruscii;
il tuo cuore ascoltava il canto della Natura
nei gemiti delle fronde, nei sospiri delle notti;

l’urlo dei mari in furia, come un immenso rantolo,
spezzava il tuo seno acerbo, troppo dolce ed umano;
ed un mattin d’aprile, un bel cavaliere pallido,
un povero folle, si sedette muto ai tuoi ginocchi!

Cielo! Amore! Libertà! Qual sogno, mia povera folle!
Tu ti scioglievi a lui come la neve al sole:
le tue grandi visioni ti strozzavan la parola
– e l’Infinito tremendo smarrì il tuo sguardo azzurro!

III

– Ed il poeta dice che ai raggi delle stelle
vieni a cercar, di notte, i fiori che cogliesti;
e d’aver visto sull’acqua, distesa fra i lunghi veli,
la bianca Ofelia ondeggiare come un gran giglio.

Arthur Rimbaud

(Traduzione di Laura Mazza)

da “Arthur Rimbaud, Tutte le poesie”, Newton Compton, 1972

Granisce nel suo apice oro-brace – Mario Luzi

Roberto Nespola, Perugia, agosto 2020

 

Granisce nel suo apice oro-brace
lei maturità
di fruge allo zenith dell’anno;
                                                                        flagra,
azzurro e suoi barbagli,
luglio, la gremita pigna
a picco sulla voragine.
                                                                         Siamo,
coro di cicale,
                                                              presi
noi pure in quell’ardore,
ci tiene
                                           la celestiale fabbrica
impaniati nel suo miele,
racchiusi nei suoi stampi.
Forse
nemmeno lo vorremmo, eppure
ci informa di sé, di sé ci brucia
estate la consustaziata carne,
ci mette nelle arterie luce,
ne espelle opacità,
tossici –
                                          o nuda
creatura che divampi
e canti il tuo plenario assenso
a non sai che – lo sa
però il tuo canto, lo reca in sé.

Mario Luzi

da “Sotto specie umana”, Garzanti, 1999

Marianne – Paul Celan

Foto di Paul Apal’kin

 

Non c’è lillà nella tua chioma, il tuo volto è di vetro specchiante.
La nuvola migra di occhio in occhio, come Sodoma va a Babele:
trapassa la torre come fosse fogliame e infuria sul roveto sulfureo.

Poi guizza un lampo attorno alla tua bocca – quel precipizio con i resti del violino.
Uno conduce con denti di neve l’archetto: oh quanto più vago risuona il canneto!

Amore, anche tu sei il canneto e noi tutti la pioggia;
un vino senza pari il tuo corpo, e a bere siamo in dieci;
una barca tra le messi il tuo cuore, noi la spingiamo remando dentro la notte;
una piccola brocca d’azzurro, così ci sovrasti danzando leggera, e noi ci si addorme…

La centuria è schierata dinanzi alla tenda, e noi bevendo ti portiamo a sepoltura.
Ora tintinnando rimbalza sull’impiantito del mondo il duro tallero dei sogni.

Paul Celan

(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

da “Papavero e memoria”, in “Paul Celan, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

***

Marianne

Fliederlos ist dein Haar, dein Antlitz aus Spiegelglas.
Von Auge zu Aug zieht die Wolke, wie Sodom nach Babel:
wie Blattwerk zerpflückt sie den Turm und tobt um das Schwefelgesträuch.

Dann zuckt dir ein Blitz um den Mund – jene Schlucht mit den Resten der Geige.
Mit schneeigen Zähnen führt einer den Bogen: O schöner tönte das Schilf!

Geliebte, auch du bist das Schilf und wir alle der Regen;
ein Wein ohnegleichen dein Leib, und wir bechern zu zehnt;
ein Kahn im Getreide dein Herz, wir rudern ihn nachtwärts;
ein Krüglein Bläue, so hüpfest du leicht über uns, und wir schlafen…

Vorm Zelt zieht die Hundertschaft auf, und wir tragen dich zechend zu Grabe.
Nun klingt auf den Fliesen der Welt der harte Taler der Träume.

Paul Celan

da “Mohn und Gedächtnis”, Deutsche Verlags Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952