Canzone minore – Federico García Lorca

 

Hanno gocce di rugiada
le ali dell’usignolo,
gocce chiare di luna
rapprese d’illusione.
 
Il marmo della fonte
raccoglie il bacio dello zampillo,
sogno di umili stelle.
 
Tutte le bambine dei giardini
quando passo
mi dicono addio. Anche
le campane mi dicono addio.
Nel crepuscolo gli alberi
si baciano. Ed io
piango lungo il viale,
grottesco e senza rimedio,
triste come Cyrano
e Don Chisciotte,
redentore
di impossibili infiniti
al ritmo dell’orologio.
Vedo gigli appassire
a contatto della mia voce
macchiata di luce sanguigna,
e nella mia lirica canzone
indosso abiti da pagliaccio
impolverato. L’amore
vago e bello si è nascosto
sotto un ragno. E il sole
come un altro ragno mi nasconde
con le sue zampe d’oro.
Mai raggiungerò la buona sorte,
perché son come l’Amore stesso,
con frecce di pianto
nella faretra del cuore.
 
Darò tutto agli altri
e piangerò la mia passione
come un bambino abbandonato
in un racconto sbiadito.

Federico García Lorca

Granada, dicembre 1918

(Traduzione di Claudio Rendina )

da “Poesie (Libro de poemas)”, Newton Compton, Roma, 1970

∗∗∗

Canción menor

Tienen gotas de rocío
las alas del ruiseñor,
gotas claras de la luna
cuajadas por su ilusión.

Tiene el mármol de la fuente
el beso del surtidor,
sueño de estrellas humildes.

Las niñas de los jardines
me dicen todas adiós
cuando paso. Las campanas
también me dicen adiós.
Y los árboles se besan
en el crepúsculo. Yo
voy llorando por la calle,
grotesco y sin solución,
con tristeza de Cyrano
y de Quijote,
redentor
de imposibles infinitos
con el ritmo del reloj.
Y veo secarse los lirios
al contacto de mi voz
manchada de luz sangrienta,
y en mi lírica canción
llevo galas de payaso
empolvado. El amor
bello y lindo se ha escondido
bajo una araña. El sol
como otra araña me oculta
con sus patas de oro. No
conseguiré mi ventura,
pues soy como el mismo Amor,
cuyas flechas son de llanto,
y el carcaj el corazón.

Daré todo a los demás
y lloraré mi pasión
como niño abandonado
en cuento que se borró.

Federico García Lorca

Granada, diciembre  de 1918

da “Libro de poemas”, Maroto, Madrid, 1921

La lama del tempo – Marcello Comitini

Salvatore Fiume, Pomeriggio col toro, 1958

 

La casa di campagna dalle mille finestre spalancate
come occhi misteriosi sulla mia memoria
scintilla nell’alba d’una fredda
primavera tra le colline e il mare.
Le stanze vuote si riempiono nella notte
dei muggiti dei tori da macello che salgono dal buio
delle stalle come i lamenti di ciclopi ciechi.
Con i martelli sordi degli zoccoli
battono contro le mie tempie
calpestano il sonno che custodisce i volti amati
quelli misteriosi delle sconosciute che m’incrociano
giorno dopo giorno con i loro sguardi.
Lungo il cortile sfilano angosciati
raschiano il selciato con il ferro rugginoso
dei ricordi e nello sguardo che trema di paura
una lacrima brilla consapevole
che nulla di me e di loro andrà perduto.
Vedo con gli occhi misteriosi della casa
seppellire i morti nell’autunno e senza sosta
scendere la pioggia sulle ombre della mia memoria.
Dall’ultima aiuola al sole del cortile
colgo di soppiatto qualche fiore
lo depongo in silenzio sul selciato
fuggo come un colpevole dalla casa deserta.
Una macchia passa lontana dai miei occhi
come una nuvola senza carne né sangue
che disegna il pallore della mia fanciullezza.
Varco la soglia degli innumerevoli casali
comparsi nel tempo per tutta la campagna
come bocche colorate.
Nei bagliori della mia memoria ostile
ritrovo l’angolo assolato del cortile
non i fiori deposti sul selciato
né i visi seppelliti all’ombra della quercia
credendo di sottrarli alla lama del tempo.

Marcello Comitini

da “Quarto Giorno: poesie”, Edizioni Caffè Tergeste, 2018

AMAZON – Marcello Comitini, Quarto Giorno: poesie, Edizioni Caffè Tergeste, 2018
FELTRINELLI – Marcello Comitini, Quarto Giorno: poesie, Edizioni Caffè Tergeste, 2018

«Io non ho udito i racconti di Ossian» – Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Eva Besnyö, Gypsy boy, Hungary, 1931

 

Io non ho udito i racconti di Ossian,
non ho gustato quell’antico vino;
e la luna sanguigna della Scozia
perché mai vedo, e perché una radura?

Il richiamarsi di un corvo e di un’arpa
io mi fingo nel lugubre silenzio;
e dei guerrieri ondeggiano le sciarpe
al chiar di luna, gonfiate dal vento.

Un’eredità sacra mi è toccata –
gli erranti sogni d’aedi stranieri;
e i parenti e l’uggioso vicinato
nulla ci vieta di tenere in spregio.

Ché forse piú di un tesoro, scavalcando
i nipoti, raggiunge i pronipoti;
e lo scaldo può rifoggiare un canto
non suo, e come suo renderlo noto.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

1914

(Traduzione di Remo Faccani)

da “Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Ottanta Poesie”, Einaudi, Torino, 2009

Metro: pentapodia giambica; quartine a rime alterne (AbAb…)
v. 2: «vino»; il “vino dei canti”, si direbbe, – o, piú in generale, il vino di quella cultura; ma cfr. ad esempio, nel poemetto giovanile di Yeats The Wanderings of Oisin (Oisin, come si sa, è la variante irlandese di Ossian), i vv. 7-8 del “primo libro”: «…The horsemen with their floating hair, | And bowls of barley, honey, and wine…». (Remo Faccani)
∗∗∗

«Я не слыхал рассказов Оссиана,»

Я не слыхал рассказов Оссиана,
Не пробовал старинного вина;
Зачем же мне мерещится поляна,
Шотландии кровавая луна?

И перекличка ворона и арфы
Мне чудится в зловещей тишине,
И ветром развеваемые шарфы
Дружинников мелькают при луне!

Я получил блаженное наследство —
Чужих певцов блуждающие сны;
Свое родство и скучное соседство
Мы презирать заведомо вольны.

И не одно сокровище, быть может,
Минуя внуков, к правнукам уйдет,
И снова скальд чужую песню сложит
И как свою ее произнесет.

Осип Эмильевич Мандельштам

1914

da “Sobranie socinenij”, a cura di P. Nerler, A. Nikitaev, Ju. Frejdin, S. Vasilenko, Moskva, 1993-1994

Presagio – Jorge Guillén

Foto tratta da La Jetée, di Chris Marker, 1962

 

In te si fa profumo anche il destino.
Batte la vita tua non mai vissuta
dentro di me, tic tac di nessun tempo.

Che fa se il sole estraneo non illumina
queste figure da noi non sognate,
create sì, dal nostro doppio orgoglio?

Non conta. Così sono più veraci
che parvenze di luci inverosimili
negli scorci dell’obbligo e del caso.

Tutta tu convertita nel presagio
tuo, ma senza mistero!: un’irrompente
verità di assoluto ti sostiene.

Che fu di quell’enorme e così informe
pullulare di oscuro dal profondo,
sotto le solitudini stellate?

Le stelle insigni di lassù non guardano
la nostra notte che non ha segreti.
Resta tranquillo quel profondo buio.

L’oscura eternità non è già un drago
celeste! Le nostre anime conquistano
non viste una presenza tra le cose.

Jorge Guillén

(Traduzione di Eugenio Montale)

da “Amici così, per grazia di lettura”, Donzelli Poesia, 2013

∗∗∗

Presagio 

Eras ya la fragancia de tu sino.
Tu vida no vivida, pura, late
Dentro de mí, tictac de ningún tiempo.

¡Qué importa que el ajeno sol no alumbre
jamás estas figuras, sí, creadas,
Soñadas no, por nuestros dos orgullos!
No importa. Son así más verdaderas
Que el semblante de luces verosímiles
En escorzos de azar y compromiso.

Toda tú convertida en tu presagio,
Oh, pero sin misterio. Te sostiene
La unidad invasora y absoluta.

¿Qué fue de aquella enorme, tan informe,
Pululación en negro de lo hondo,
Bajo las soledades estrelladas?
Las estrellas insignes, las estrellas
No miran nuestra noche sin arcanos.
Muy tranquilo se está lo tan oscuro.

La oscura eternidad ¡oh! no es un monstruo
Celeste. Nuestras almas invisibles
Conquistan su presencia entre las cosas.

Jorge Guillén

da “Aire nuestro: Cántico, clamor, homenaje”, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1968

«Dove ci incontreremo dopo la morte?» – Angelo Maria Ripellino

Dipinto di Hamish Blakely

35.

Dove ci incontreremo dopo la morte?
Dove andremo a passeggio?
E il nostro consueto giretto serale?
E i rammarichi per i capricci dei figli?
Dove trovarti, quando avrò desiderio di te, dei tuoi occhi smeraldi,
quando avrò bisogno delle tue parole?
Dio esige l’impossibile,
Dio ci obbliga a morire.
E che sarà di tutto questo garbuglio di affetto,
di questo furore? Sin d’ora promettimi
di cercarmi nello sterminato paesaggio di sterro e di cenere,
sui legni carichi di mercanzie sepolcrali,
in quel teatro spilorcio, in quel vòrtice
e magma di larve ahimè tutte uguali,
fra quei lugubri volti. Saprai riconoscermi?

Angelo Maria Ripellino

da “Notizie dal diluvio”, Einaudi, Torino, 1969