L’ombra della luna – Piero Bigongiari

Foto di Cristina Venedict

 

Nulla, piú nulla, un suono non ti regge
assetata stasera al plenilunio,
è finita la vita oltre la tua legge,
questo vento s’immischia dentro il bruno
tuo pallore, come vano!
Si voltano le pergole, le azzurre
cenerarie dolorano:
se fuma un’ala lungo la facciata
tu perseguine l’ombra fino a dove
si spegne senza luna.

Piero Bigongiari

da “La figlia di Babilonia”, 1942, in “Stato di cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 1968

Odissea (Proemio) – Nikos Kazantzakis

Nikos Kazantzakis

 

Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente,
che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,
perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi.
È buona questa terra, ci piace, come l’uva riccia
che pende nell’aria azzurra e oscilla nel piovasco,
Dio, la beccano gli spiriti e gli uccelli del vento;
pilucchiamola anche noi, che ci rinfreschi la mente!
Tra le mie tempie che pulsano, dentro il grande tino,
pigio i grappoli turgidi, il mosto ribolle fiero,
e la mia testa ride e fuma al culmine del giorno.
È la terra che spiega le vele, o il cervello freme
e la Necessità occhi neri intona ebbra il canto?
Sopra di me il cielo ardente, sotto, il mio ventre sfiora
come una gabbianella la schiuma fresca delle onde;
le nari colme di salsedine, i flutti sulla schiena
battono e vanno rapidi, e vado anch’io con loro.
Sole, grandissimo sole, che dall’alto contempli tutto,
vedo il berretto marino del Distruttore di fortezze;
diamogli un calcio per gioco, vediamo fin dove arriva!
Vedi, il Tempo ha i suoi cicli, e il Destino ha ruote,
e la mente dell’uomo, seduta in alto, le fa girare.
Su, diamo un calcio alla terra, facciamola ruzzolare!
Sole, occhio vivido malizioso, fulgido segugio,
stana e insegui la preda che amo, e riferiscimi
quello che vedi nel mondo, dimmi cos’hai sentito;
lo passerò nella fucina segreta del mio cuore,
e piano, col riso e con il gioco, con la carezza fonda,
pietre, acqua, fuoco e terra diventeranno spirito;
l’anima dolce dalle ali di fango lascerà il corpo,
e come una fiamma serena si perderà nel sole!
Avete ben banchettato, amici, sulla festosa riva,
danze e risa, pizzichi di baci, lenti conversari,
la festa in voi si è compiuta, si è persa nella carne;
ma in me fermenta il vino e la carne si fa spirito,
dal mare sorge un canto che mi getterà al suolo;
voglio intonare una canzone, fratelli, fate spazio!
Ah, la festa è molto grande e il luogo troppo angusto,
fatemi spazio per distendermi, spazio per respirare,
per allungare le braccia e lanciare in alto i piedi,
perché la vertigine non ferisca le vostre spose e i figli.
quello che vedi nel mondo, dimmi cos’hai sentito;
lo passerò nella fucina segreta del mio cuore,
e piano, col riso e con il gioco, con la carezza fonda,
pietre, acqua, fuoco e terra diventeranno spirito;
l’anima dolce dalle ali di fango lascerà il corpo,
e come una fiamma serena si perderà nel sole!
Avete ben banchettato, amici, sulla festosa riva,
danze e risa, pizzichi di baci, lenti conversari,
la festa in voi si è compiuta, si è persa nella carne;
ma in me fermenta il vino e la carne si fa spirito,
dal mare sorge un canto che mi getterà al suolo;
voglio intonare una canzone, fratelli, fate spazio!
Ah, la festa è molto grande e il luogo troppo angusto,
fatemi spazio per distendermi, spazio per respirare,
per allungare le braccia e lanciare in alto i piedi,
perché la vertigine non ferisca le vostre spose e i figli.
è un canto altero e solitario che nel vento muore!
Bevete l’acqua amara di Lete, schiaritevi la mente,
dimenticate le vostre pene e gli ignobili profitti,
ritrovate il cuore fragile e vergine di un bimbo;
il cervello sia un ramo in fiore su cui canta l’usignolo!
Vegliardi, urlate forte, che vi rispuntino i denti,
i capelli si anneriscano, la mente impazzi ancora!
Giuro sul nostro signore Sole, sulla regina Luna:
è un sogno fallace la vecchiaia, fantasia la morte,
tutti artifici dell’anima, giocattoli della mente,
sono un meltemi soave che soffia e schiude le tempie;
il lieve sogno di un sogno che ha generato il mondo;
assoggettiamo il mondo, amici, con il nostro canto!
Compagni di viaggio, ai remi, arriva il Capitano;
madri, date il seno ai neonati perché non piangano!
Coraggio! Prestatemi ascolto, e bando alle amarezze,
narro i tormenti e le passioni del famoso Ulisse!

Nikos Kazantzakis

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Odissea”, Crocetti Editore, 2020

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UN SEGUITO MODERNO DI OMERO¹
La lingua greca è bella
come la Elena di Omero.
N. KAZANTZAKIS
L’Odissea di Nikos Kazantzakis è la prosecuzione ideale dell’epos omerico. È un’opera fluviale, proteiforme, poliedrica, straordinariamente complessa e visionaria, che l’autore cretese considerava il suo opus magnum, e nella quale profuse tutte le sue energie fisiche e intellettuali.
È animata da un fuoco e da una passione ideali che ricordano la Commedia dantesca (che Kazantzakis ha integralmente tradotto in greco), il Kalevala e Il Signore degli anelli. È un viaggio negli abissi dell’anima umana e del suo bisogno di conoscenza, un omaggio ai grandi personaggi della storia, dal Cristo al Buddha, a grandi filosofi come Nietzsche e Bergson, che di Kazantzakis furono maestri. Ma è soprattutto un monumento immortale alla lingua greca, alla sua storia e civiltà trimillenarie, alla sua poesia, mitologia e filosofia, alle sue ballate e ai canti popolari. È un inno alla vita e un’esortazione al perseguimento e alla conquista della libertà assoluta, individuale e collettiva. È, infine, un’Arca di Noè linguistica dei suoi dialetti, delle sue tradizioni, delle parole dei pastori, dei contadini e dei pescatori di Creta e delle isole dell’Egeo, di anziani analfabeti che usano ancora i termini di Omero.
Anche se molto di ciò va fatalmente perso nella traduzione, resta il disegno ambizioso e fantastico di un autore tra i maggiori dell’età moderna, con il suo sorprendente miscuglio di elementi: utopia visionaria, passione per l’avventura, per l’esplorazione e la conoscenza, per la lotta contro la tirannia e le idee illiberali e oscurantiste, in nome di un mondo più giusto e dell’affrancamento dalla schiavitù e dalla paura della morte; il tutto pervaso da un fortissimo empito lirico, da un robusto afflato spirituale e dalla ricerca inesausta e ossessiva di Dio.
Kazantzakis vi lavorò per tredici anni e mezzo, dal 1925 al 1938, riscrivendola sette volte, fino a darle la forma definitiva cui ambiva: il numero “sacro” di 33.333 versi – quasi tre volte l’Odissea di Omero – suddivisi in 24 canti, uno per ciascuna lettera dell’alfabeto greco. Il numero tre è per lui “sacro” sia per il suo legame con la terzina dantesca, sia perché è lo schema triadico della filosofia hegeliana: tesi, antitesi, sintesi.
Il metro è il decaeptasillabo giambico, inusitato per la letteratura neogreca, che per tradizione predilige il verso politico, o decapentasillabo. Kazantzakis optò per questo nuovo metro perché convinto che rendesse al meglio l’esametro di Omero e perché rispondeva “alla fluttuazione del suo sangue”. Farà la stessa scelta quando, anni dopo, tradurrà entrambi i poemi omerici assieme al filologo Ioannis Kakridìs.
Le innovazioni di Kazantzakis non si limitano alla metrica: egli utilizza una serie di forme ortografiche, sintattiche e lessicali rivoluzionarie per la Grecia dei primi decenni del secolo scorso. Per esempio, sostituisce la complicata accentazione del greco, risalente all’epoca bizantina, con un unico accento tonico (la medesima scelta verrà fatta ufficialmente in tutta la Grecia nel 1982, con l’adozione del sistema monotonico oggi in uso) e fa parlare il suo Ulisse, che nelle opere letterarie si esprimeva fino ad allora nella katharèvusa (la lingua dotta dei letterati), in un greco popolare, la dimotikì, la lingua demotica, per la quale Kazantzakis nutriva un amore che sconfinava nell’ossessione. Per comprendere la radicalità di tali scelte, basterà ricordare che sulla questione della lingua in Grecia non solo si erano accapigliati a lungo studiosi e intellettuali, ma i fautori delle due lingue avevano dato vita a moti di piazza in cui era scorso il sangue, e illustri docenti erano stati deposti dalle cattedre.
Per parare le critiche di chi avrebbe potuto accusarlo (e molti lo fecero) di voler sfidare Omero, l’autore cretese intitola il suo poema ΟΔΥΣΕΙΑ (con un solo sigma), anziché ΟΔΥΣΣΕΙΑ. E per dimostrare di non avere alcuna intenzione emulatrice o di sfida, introduce subito un cambiamento rispetto al poema omerico: trascura quasi completamente Penelope, la cui immagine nella mente dell’eroe è offuscata dai diciannove anni di lontananza, e stabilisce nuovi rapporti tra Ulisse e il figlio Telemaco, il padre Laerte (del quale descrive la morte) e il suo stesso popolo, che gli si rivolta contro. Abbandona quasi del tutto anche gli dèi dell’Olimpo a beneficio di una nuova divinità ideale, e passa a occuparsi dei problemi del mondo moderno, avviando un’angosciosa analisi delle grandi questioni esistenziali dell’uomo.
L’Ulisse di Kazantzakis è radicalmente diverso non solo da quello omerico, ma da tutte le numerose trasposizioni letterarie successive. Il poeta cretese spoglia il suo eroe della veste epica e guerresca, e lo trasforma in un asceta visionario, votato alla ricerca utopica, donchisciottesca, della conoscenza e dell’“acqua immortale”, cioè della fonte dell’eterna giovinezza. Il primo traduttore dell’Οδύσεια, il grecista americano Kimon Friar, lo ha definito “un avatar dell’eroe centrifugo dell’Inferno di Dante” così come si è evoluto dalla tradizione che “da Dante conduce, attraverso Tennyson e Pascoli, ai giorni nostri”. Un avatar assetato di sapere, per il quale – come afferma l’Ulisse dantesco – né la dolcezza per il figlio né la pietà per il vecchio padre né il legittimo amore per Penelope poterono vincere l’ardore di scoprire i paesi e le virtù delle genti.
Riprendendo anche l’idea espressa da Kavafis nella celebre poesia Itaca, secondo cui l’esperienza più inestimabile dell’uomo non è l’approdo finale alla sua meta ma il viaggio stesso, Kazantzakis, nel XVI canto del suo poema, tesse un inusitato “elogio dell’infedeltà”, e fa esclamare al suo Ulisse: “Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!”.
L’Ulisse di Kazantzakis, infine, assomma in sé molte caratteristiche del suo creatore: è il suo ritratto filosofico, politico, morale e psicologico, un suo alter ego, quasi una sua metempsicosi.
Nicola Crocetti, dall’introduzione a “Nikos Kazantzakis, Odissea”, Crocetti Editore, 2020 

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¹Devo molta parte delle informazioni contenute in questa introduzione al testo isagogico di Kimon Friar contenuto nella sua traduzione dell’Odissea (The Odyssey. A Modern Sequel, Simon and Schuster, New York 1958) e al volume di Pandelìs Prevelakis, Kαζαντζάκης. Ο ποιητής και το ποίημα της Οδύσσειας (Kazantzakis. Il poeta e il poema dell’Odissea, Estìa, Athina 1958). Negli anni in cui traduceva l’Odissea, Kimon Friar collaborò lungamente con Kazantzakis, che gli chiarì il significato di tutti i lemmi athisàvrista (non repertati), ed è stato perciò una fonte preziosa per me come per tutti gli altri traduttori dell’Odissea. Pandelìs Prevelakis è stato uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Kazantzakis, oltre che il suo più accreditato biografo. (Nicola Crocetti)

Il seme – Marcello Comitini

Caspar David Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, 1819, Dresda, Gemäldegalerie

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da quali nascosti
solchi della mente
saliranno le mie parole
se non ho avventure
da narrare
se ho vissuto solo
nel silenzio
se l’amore mi ha lasciato
tanto
ancora da sperare.

Parlerò alla luna
quando nella notte bagna
il tempo dei ricordi.
E nel tramonto al sole
quando brucia le speranze.

Conservo dentro il cuore
il profumo di tanti fiori.
e tra le labbra stringo
il gelo di tante nevi.

La mia anima è un seme
nella terra del mio corpo.

Marcello Comitini

da “L’altrove della luna”, Eretica Edizioni, 2023

ERETICA EDIZIONI       
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Presentazione
    L’uomo, accecato dai bagliori delle città, stordito dalla fretta di giungere a una meta, ammutolito dai rumori e dalla molteplicità delle luci, raramente guarda in se stesso. Città, rumori e luci sono strumenti e metafore del disperdere la capacità umana del riflettere.
Ma esistono momenti in cui volgere gli occhi verso il proprio intimo diventa un imperativo per poter riprendere il cammino, per dare un senso più profondo alle proprie esperienze.
Se la molle e inafferrabile consistenza del tempo e la tenera anima soffocata dalle amarezze, o implosa di gioia, lo sollecitano a distogliere lo sguardo e pensare, l’uomo incontrerà la natura e tutto ciò che lo sovrasta o lo circonda. Ogni elemento di questa realtà rappresenterà un richiamo alla propria ricchezza interiore, un simbolo di altre immagini che sente sepolte in sé. Uccelli in volo, fugaci aerei, foglie prede del vento autunnale, nuvole in corsa verso il nulla, montagne illuminate dal sole o dalla luna.
E se il sole abbaglia, la luna attrae l’uomo come un viandante che, perduto ogni orientamento, vede una luce brillare e a questa affida la speranza di chiarire la propria condizione.
Nonostante la missione Apollo 11 dell’ormai lontano 1969 abbia segnato uno storico spartiacque per la scienza e per il modo di percepire il nostro satellite, la luna continua a rappresentare desiderio, mistero, domanda, struggimento.
La luna così diventa confidente delle gioie, delle debolezze e dei desideri dell’uomo. Fa nascere un legame profondo tra lei e l’essere umano.
È sufficiente uno sguardo interiore per ritrovare tracce di luna nei propri pensieri.
La luna illumina, in particolare sul volto degli amanti, le linee del presente e del futuro sperato. E sul volto del solitario o della donna sola, quella cicatrice d’argento che sanguina. Essa diviene per costoro impalpabile e spesso effimero legame con l’amore. O assume il ruolo di compagna silenziosa per colui o colei che sente la solitudine dell’astro come propria.
Che sorga trionfante, o splenda matrona matura del cielo, o che si distingua appena nel formicolio delle stelle o che infine tramonti malinconica, la luna possiede il fascino particolare di attrarre a sé gli sguardi anche di coloro in cui l’amore è ormai un ricordo.
Da queste riflessioni nasce il titolo della raccolta e il suo filo conduttore. L’altrove della luna è proprio il luogo, o meglio i luoghi, in cui la luna appare, anche se lontana − ma mai estranea − dal momento evocatore.
La suddivisione delle poesie in tre sezioni si assimila al ciclo della luna. A poesie che hanno come tema centrale la luna seguono altre in cui la luna è simile a un tag (o parola chiave) che riporta il pensiero a quel suo potere affascinante.
Ogni poesia infatti è un invito a trovare in se stessi i luoghi in cui la luna appare. Amore, delusioni, rimpianti, solitudine sono questi i contenitori della luna, che sia piena o solo un accenno esile come una virgola.
Marcello Comitini

L’altro – Paul Celan

 

Piú profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
piú grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
piú bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

Paul Celan

10 dicembre 1952

(Traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien)

da “Conseguito silenzio”, Einaudi, Torino, 1998

∗∗∗

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
größere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weißere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

Paul Celan

da “Die Gedichte aus dem Nachlaß”, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1997

Nessuna parola – Margherita Guidacci

Donata Wenders, Contemplation, 2006

 

Poiché non mi veniva nessuna parola
(la parola era “addio”, ma non riuscivo a dirla)
ti ho dato il mio silenzio
ed ho ascoltato il tuo,

e non è stato un vuoto, ma condivisa pienezza
e ancora gioia, mentre accettavamo,
come la terra, un nostro tempo di neve,
bianco grembo d’attesa delle future estati.

Margherita Guidacci

da “Inno alla gioia”, Nardini, Firenze, 1983