Garcilaso 1991 – Luis García Montero

Scultura di Peter Demetz

 

La mia anima vi ha ritagliato a sua misura,
dice ora la poesia,
con parole che furono scritte in un tempo
di amori cortigiani.
E in questa stanza del XX secolo,
ormai alla fine,
preparando la lezione di domani,
ritornano le parole senza rumore di cavalli,
senza vestiti di corte,
senza regge.
Vicino a Baghdad ferito dal fuoco,
la mia anima ti ha ritagliato a sua misura.

Tutto cessa all’improvviso e ti immagino
nella città, la tua auto, i tuoi jeans,
la legge delle tue età,
e ho paura di amarti falsamente,
perché non so vivere se non nella scommessa,
infuocato da fiamme che ardono senza bruciarci
e che sono realtà,
benché gli occhi guardino la distanza
nei televisori.

Attraverso i secoli,
saltando al di sopra di tutte le catastrofi,
al di sopra di titoli e date,
le parole ritornano al mondo dei vivi,
domandano della loro casa.
So bene che non è eterna la poesia,
ma sa cambiare insieme a noi,
apparire vestita con jeans,
appoggiarsi sull’uomo che si inventa un amore
e che soffre d’amore
quando è solo.

Luis García Montero

(Traduzione di Alessandro Ghignoli)

da “Tempo di camere separate”, Le Lettere, 2000

***

Garcilaso 1991 

Mi alma os ha cortado a su medida,
dice ahora el poema,
con palabras que fueron escritas en un tiempo
de amores cortesanos.
Y en esta habitación del siglo XX,
muy a finales ya,
preparando la clase de mañana,
regresan las palabras sin rumor de caballos,
sin vestidos de corte,
sin palacios.
Junto a Bagdad herido por el fuego,
mi alma te ha cortado a su medida.

Todo cesa de pronto y te imagino
en la ciudad, tu coche, tus vaqueros,
la ley de tus edades,
y tengo miedo de quererte en falso,
porque no sé vivir sino en la apuesta,
abrasado por llamas que arden sin quemarnos
y que son realidad,
aunque los ojos miren la distancia
en los televisores.

A través de los siglos,
saltando por encima de todas las catástrofes,
por encima de títulos y fechas,
las palabras retornan al mundo de los seres vivos,
preguntan por su casa.

Ya sé que no es eterna la poesía,
pero sabe cambiar junto a nosotros,
aparecer vestida con vaqueros,
apoyarse en el hombre que se inventa un amor
y que sufre de amor
cuando está solo.

Luis García Montero

da “Habitaciones separadas”, Visor, 1994, Madrid

Dall’immagine tesa – Clemente Rebora

Herbert List, Hamburg, Germany, 1932

 

Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Clemente Rebora

da “Diario intimo”, Interlinea, Novara, 2006

Un aquilone per Aibhín – Seamus Heaney

Maura Sullivan, Alexandra in the garden

da “L’aquilone” di Giovanni Pascoli  (1855–1912)

Aria d’altra vita e tempo e luogo,
aria celestina, sostiene
un’ala bianca che batte alta contro la brezza,

e sì, è un aquilone! Come quando un pomeriggio
ci muovemmo in gruppi tutti noi
tra siepi di rovo e la nuda albaspina,

di nuovo in posizione, mi fermo di fronte
alla collina di Anahorish per scrutare il turchino,
torno in quel campo per lanciare la nostra caudata cometa.

E ora sbalza, vira, affonda di sbieco, pencola,
si rialza, segue il vento sino a quando
s’innalza tra le nostre grida da sotto.

S’innalza e la mia mano è come un fuso
che si svolge, l’aquilone un fiore dallo stelo sottile
in ascesa, e porta lontano, più e più lontano, più in alto

il petto anelo e i piedi piantati
e la pupilla che guarda e il cuore di chi lo fa volare
sinché il filo si spezza e – separato, giubilante –

l’aquilone spicca il volo, solo, aperto colpo d’ala.

Seamus Heaney

(Traduzione di Luca Guerneri)

da “Catena umana”, “Lo Specchio” Mondadori, 2011

∗∗∗

A Kite for Aibhín

after ‘L’Aquilone’ by Giovanni Pascoli (1855–1912)

Air from another life and time and place,
Pale blue heavenly air is supporting
A white wing beating high against the breeze,

And yes, it is a kite! As when one afternoon
All of us there trooped out
Among the briar hedges and stripped thorn,

I take my stand again, halt opposite
Anahorish Hill to scan the blue,
Back in that field to launch our long-tailed comet.

And now it hovers, tugs, veers, dives askew,
Lifts itself, goes with the wind until
It rises to loud cheers from us below.

Rises, and my hand is like a spindle
Unspooling, the kite a thin-stemmed flower
Climbing and carrying, carrying farther, higher

The longing in the breast and planted feet
And gazing face and heart of the kite flier
Until string breaks and – separate, elate –

The kite takes off, itself alone, a windfall.

Seamus Heaney

da “Human Chain”, Faber and Faber Ltd, 2010

«Non so se sei vivo» – Anna Andreevna Achmatova

69

Non so se sei vivo
o sei perduto per sempre,
se posso ancora cercarti nel mondo
o ti debbo piangere mestamente
come morto nei pensieri della sera.
Ti ho dato tutto: la quotidiana preghiera
e l’illanguidente febbre dell’insonnia,
lo stormo bianco dei miei versi
e l’azzurro incendio degli occhi.
Nessuno mi è stato più intimo di te,
nessuno mi ha reso più triste,
nemmeno chi mi ha tradita fino al tormento,
nemmeno chi mi ha lusingata e poi dimenticata.

Anna Andreevna Achmatova

Slepnevo, estate 1915

(Traduzione di Gene Immediato)

da “Lo Stormo Bianco”, Edizioni San Paolo, 1995

∗∗∗

69

Я не знаю, ты жив или умер, –
На земле тебя можно искать
Или только в вечерней думе
По усопшем светло горевать.

Все тебе: и молитва дневная,
И бессонницы млеющий жар,
И стихов моих белая стая,
И очей моих синий пожар.

Мне никто сокровенней не был,
Так меня никто не томил,
Даже тот, кто на муку предал,
Даже тот, кто ласкал и забыл.

Анна Андреевна Ахматова

Слепнево, Лето, 1915

da “Анна Ахматова, Белая стая”, Петроград, 1917

Col mondo del potere… – Osip Ėmil’evič Mandel’štam

 

Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili:
temevo le ostriche, e alle guardie lanciavo occhiate di sottecchi;
nemmeno d’una briciola d’anima gli sono debitore
benché a lungo sulle immagini altrui mi sia accanito.

Aggrottandomi con sciocco sussiego in una mitra di castoro
non sono stato sotto il portico egizio della banca,
e sulla Neva di limone, al fruscio di cento rubli
per me mai, mai la zingara ha danzato.

Fiutando supplizi futuri, dal mugghiare di eventi sediziosi
mi rifugiavo dalle Nereidi del Mar Nero;
e le bellezze d’allora, le tenere europee,
quanta pena, dispetto e dolore m’han dato!

E allora, perché questa città continua a imporsi
ai miei pensieri e sentimenti secondo l’uso antico?
Resa sfrontata dagli incendi e i geli
è arrogante, maledetta, vacua, giovanile!

Forse perché bambino ho visto su un quadretto
Lady Godiva con la rossiccia chioma sciolta
dico ancora a me stesso sottovoce:
Lady Godiva, addio… Godiva, non ricordo.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Gennaio 1931

(Traduzione di Serena Vitale)

da “Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Poesie”, Garzanti, 1972