Una rosa – Pierluigi Cappello

Foto di Maria Cecilia Camozzi

 

Che cos’è quella rosa sul tavolo
ferma nella sua freschezza come un lago alpino
alta nel suo silenzio piú del fragore
dei quotidiani affastellati lí accanto
piú del disordine dei notiziari,
la concitazione delle chiavi di casa.
Che cos’è questa parola verdeggiante d’amore
se non il suolo dove lasciarsi cadere
la penombra di un bosco da attraversare
e la mano che si apre e prende la mia
e mi conduce a me.

Pierluigi Cappello

da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010 

Uno scialle di lacrime – Piero Bigongiari

Foto di Patty Maher

 

Una carne bianchissima là fiorisce nel deserto,
un pianto oscuro trina lo scialle dell’amore,
nessun vaso lacrimale vuole accoglierne la pendula
sedulità, solo la sabbia, vicino all’orcio vuoto, può imprimersene.

Ma tu di che cosa t’impressioni, orma che hai l’aspetto concavo
d’un volo volato via, ali seguitano a sciogliersi in colore
attorno ai tuoi occhi asciutti, e il deserto di chi fu ricusato
solo elitre battagliere abitano, specchi rotti del multiplo affacciarsi

dell’identico a se stesso. L’amore, l’amore trovato nell’ultima carica
della bambola, è qui che cammina, senz’altra carica che quella che lo lancia
dal confine ricurvo dell’universo, dal quasar morente
a questo spazio piccolissimo che devi riassumere tu indicandomi.

Piero Bigongiari

20 novembre ’74

da “Io sono in casa? Non so”, in “Moses, Frammenti del poema”, “Lo Specchio” Mondadori, 1979

Versi – Giorgio Caproni

Mario Giacomelli, L’approdo, 1953

A l’accent familier
nous devinons le spectre.

La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo, e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d’un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l’occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!… Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t’aggrediscono – l’acume
t’aprono in petto, e il fruscío, delle vele.

T’aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle molli cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma – entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell’ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi cui nebulosa e sfatta casca
morta la palla di mano. E se dice
il sangue che c’è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano – il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscío delle streghe!

Ti ferma in petto il richiamo d’Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico il senso, e in quell’eterno
rombo di fibre rotolanti a un’asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell’assurdo delirio – trovi i gridi
spenti in un’acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d’ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lèmure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.

Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido – Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora cosí gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’avvampo
funebre d’una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dei fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto,
d’estrema solitudine, sei giunto
piú esatto e incerto dei nostri anni bui?

Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo – possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio – al cuore dell’ottenebrato
principe d’Aquitania), oltre le magre
torri abolite l’imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l’alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce – il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.

Giorgio Caproni

1954.

da “Il «Terzo libro» e altre cose”, Einaudi, Torino, 1968

Eterna presenza – Pedro Salinas

Foto di Anka Zhuravleva

22

Non importa che non ti abbia,
né importa che non ti veda.
Prima ti abbracciavo,
prima ti guardavo,
ti cercavo tutta,
ti volevo intera.
Oggi più non chiedo
agli occhi e alle mani
le ultime prove.
Di stare al mio fianco
ti chiedevo prima;
sì, accanto a me, sì,
sì, però lì fuori.
A me già bastava
sentir le tue mani
darmi le tue mani,
sentire che ai miei occhi
tu davi presenza.
Ma adesso ti chiedo
di più, ben di più
di un bacio o uno sguardo:
di starmi più addosso
di me stesso, dentro.
Come il vento sta
donando, invisibile,
la vita alla vela.
Come sta la luce,
ferma, fissa, immobile,
facendo da centro
che non mai vacilla
al tremulo corpo
della fiamma inquieta.
Come sta la stella,
presente e sicura,
senza voce o tatto,
sul petto disteso,
sereno, del lago.
Quello che ti chiedo
è di essere l’anima
dell’anima mia,
sangue del mio sangue
dentro le mie vene.
È che tu stia dentro
di me come il cuore
mio, che io mai
vedrò, toccherò,
ma il cui palpitare
non sarà mai stanco
di darmi la vita
finché morirò.
E come lo scheletro,
segreto profondo
di me, che soltanto
mi vedrà la terra,
intanto però,
è lui che nel mondo
sostiene il mio peso
di carne e di sogno,
di gioia e di pena
misteriosamente
senza che degli occhi
lo vedano mai.
Quel che ti chiedo
è che la corporea
passeggera assenza
per noi non sia fuga,
mancanza, oblio:
ma che per me sia
possesso totale
dell’anima lontana
eterna presenza.

Pedro Salinas

(Traduzione di Valerio Nardoni)

da “Il corpo, favoloso. Lungo lamento”, Passigli Poesia, 2015

∗∗∗

Eterna presencia 

No importa que no te tenga,
no importa que no te vea.
Antes te abrazaba,
antes te miraba,
te buscaba toda,
te quería entera.
Hoy ya no les pido,
ni a manos ni a ojos,
las últimas pruebas.
Estar a mi lado
te pedía antes;
sí, junto a mí, sí,
sí, pero allí fuera.
Y me contentaba
sentir que tus manos
me daban tus manos,
sentir que a mis ojos
les dabas presencia.
Lo que ahora te pido
es más, mucho más,
que beso o mirada:
es que estés más cerca
de mí mismo, dentro.
Como el viento está
invisible, dando
su vida a la vela.
Como está la luz
quieta, fija, inmóvil,
sirviendo de centro
que nunca vacila
al trémulo cuerpo
de llama que tiembla.
Como está la estrella,
presente y segura,
sin voz y sin tacto,
en el pecho abierto,
sereno, del lago.
Lo que yo te pido
es sólo que seas
alma de mi ánima,
sangre de mi sangre
dentro de las venas.
Es que estés en mí
como el corazón
mío que jamás
veré, tocaré,
y cuyos latidos
no se cansan nunca
de darme mi vida
hasta que me muera.
Como el esqueleto,
el secreto hondo
de mi ser, que sólo
me verá la tierra,
pero que en el mundo
es el que se encarga
de llevar mi peso
de carne y de sueño,
de gozo y de pena
misteriosamente
sin que haya unos ojos
que jamás le vean.
Lo que yo te pido
es que la corpórea
pasajera ausencia
no nos sea olvido,
ni fuga, ni falta:
sino que me sea
posesión total
del alma lejana,
eterna presencia.

Pedro Salinas

da “Poemas Sueltos” (1937 – 1939), in “Largo lamento”, Alianza Editorial, 1989

Le notti calde e gli alisei – Pierluigi Cappello

 

Libro e libero sono una cosa
e non c’è distanza che non sia desiderare
non esiste fantasia che non liberi distanza,
oscurano il cielo le murate delle navi
e gli occhi vedono azzurri mai uditi
se un bambino dalle pagine dei libri
li legga stampati e chiari per la prima volta.

Cosí anch’io ho incontrato il mio Pequod
e ho visto arrampicarsi fino al cielo
le lamiere del Batavia
e ho imparato leggendo gli economici di Hemingway
che se un viaggio dura dalla seggiola di casa
alla scorza di un tiglio solitario
non c’è metro che possa misurarne
l’eternità della distanza.

Esistono baie, conforti, fiordi di sonno nascosti
mappe che sono segnate soltanto
nel calore che c’è dietro due occhi
e rade dove saldi si alzano i desideri
finché non scivolerà via dai sogni
l’impronta di quei sogni,
le notti calde e gli alisei.

Pierluigi Cappello

da “Dentro Gerico”, 1998-2002, in “Assetto di volo”, Crocetti Editore, 2006