Una sola volta – Anne Sexton

Rollie McKenna, Anne Sexton

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una sola volta compresi lo scopo della vita.
Accadde a Boston, inaspettatamente.
Camminavo lungo il Charles
e vidi le luci duplicarsi, tutte
con il cuore al neon e vibrante,
spalancando la bocca come cantanti dopera;
e contai le stelle, le mie piccole veterane,
cicatrici fiorite, e capii che stavo portando
il mio amore sulla sponda verde notturna, e in lacrime
aprii il cuore alle auto dirette a est e a ovest
e feci passare un ponticello alla mia verità
e la condussi a casa in fretta col suo fascino
e fino allalba accumulai queste costanti
per scoprire poi che se nerano andate. 


Anne Sexton

(Traduzione di Edoardo Zuccato)

da “Poesie d’amore, 1969”, in “L’estrosa abbondanza”, Crocetti Editore, 1997

∗∗∗

Just Once

Just once I knew what life was for.
In Boston, quite suddenly, I understood;
walked there along the Charles River,
watched the lights copying themselves,
all neoned and strobe-hearted, opening
their mouths as wide as opera singers;
counted the stars, my little campaigners,
my scar daisies, and knew that I walked my love
on the night green side of it and cried
my heart to the eastbound cars and cried
my heart to the westbound cars and took
my truth across a small humped bridge
and hurried my truth, the charm of it, home
and hoarded these constants into morning
only to find them gone.

Anne Sexton

da “Love Poems, 1969”, in “Anne Sexton, The Complete Poems”, Boston, Houghton Mifflin, 1981 

Soltanto non sarebbe – Erich Fried

Foto di Ralph Gibson

 

La vita
sarebbe
forse piú semplice
se io
non ti avessi mai incontrata

Meno sconforto
ogni volta
che dobbiamo separarci
meno paura
della prossima separazione
e di quella che ancora verrà

E anche meno
di quella nostalgia impotente
che quando non ci sei
pretende l’impossibile
e subito
fra un istante
e che poi
giacché non è possibile
si sgomenta
e respira a fatica

La vita
sarebbe forse
piú semplice
se io
non ti avessi incontrata
Soltanto non sarebbe
la mia vita

Erich Fried

(Traduzione di Andrea Casalegno)

da “È quel che è. Poesie d’amore di paura di collera”, Einaudi, Torino, 1988

∗∗∗

Nur nicht 

Das Leben
wäre
vielleicht einfacher
wenn ich dich
gar nicht getroffen hätte

Weniger Trauer
jedes Mal
wenn wir uns trennen müssen
weniger Angst
vor der nächsten10
und übernächsten Trennung

Und auch nicht soviel
von dieser machtlosen Sehnsucht
wenn du nicht da bist
die nur das Unmögliche will
und das sofort
im nächsten Augenblick
und die dann
weil es nicht sein kann
betroffen ist
und schwer atmet

Das Leben
wäre vielleicht
einfacher
wenn ich dich
nicht getroffen hätte
Es ware nur nicht
mein Leben

Erich Fried

da “Es ist was es ist. Liebesgedichte Angstgedichte Zorngedichte”, Verlag Klaus Wagenbach, Berlin, 1983

Chi sei? – Vladimír Holan

Foto di Nina Ai-Artyan

 

Non so se si dice ancora alle donne colombella mia,
non t’ho mai chiesto se eri felice,
miracolosa, non t’importa e giungi nella mia adorazione,
senza che io debba mentire, esser geloso o meritarmi l’amore,
fendibile, ti stringi alla mia tagliente miseria e ti ci butti intera
senza che io mi senta colpevole,
mangi e bevi con me tutti i miei confusi odii
che hai illuminato con la tua veggente semplicità,
mi commuovi, senza che mi senta migliore di quel che sono,
così come ci sentiamo durante una fantasia
composta per duecento pianoforti,
libera, dài libertà e non posso volere di più,
non posso volere di più —
eppure quest’angoscia tormentosa in me,
quest’angoscia per qualcuno che mai conoscerò!

Essere solo è molto, troppo per un sosia,
ma con te a mancarmi eri sempre e ancora tu…

Vladimír Holan

(Traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová. Versi italiani di Marco Ceriani)

dalla raccolta “In progresso”, (1943 -1948), in Vladimír Holan, Addio?”, Arcipelago Edizioni, 2014

∗∗∗

Kdo jsi?

Nevím, říká-li se ještě ženám moje holubičko,
nikdy jsem se tě neptal, jsi-li šťastna,
zázračná, nedbáš a přicházíš do mého zbožňování,
aniž bych musil lhát, žárlit či zasloužit si lásku,
štěpná, tiskneš se k mé ostré bídě a dáváš se jí celá,
aniž bych se cítil provinilcem,
jíš a piješ se mnou všechny mé nenávistné zmatky,
které jsi prozářila svojí vidoucí prostotou,
dojímáš mne, aniž bych se cítil lepším, než jsem,
jako to pociťujeme při fantazii
složené pro dvě stě klavírů,
svobodná, osvobozuješ, a nemohu chtít víc,
nemohu chtít víc —
a přece ta mučivá úzkost ve mně,
ta úzkost o někoho, jehož nikdy nepoznám!

Být sám je příliš mnoho na dvojníka,
ale s tebou jsi mi vždycky ještě chyběla ty…

Vladimír Holan

da “Na postupu: verše z let 1943-1948”, Československý spisovatel, 1964

Vorrei scrivere – Angelo Maria Ripellino

Foto di Henri Cartier-Bresson

 

Vorrei scrivere un poema che somigliasse
a una grande città, tutto strade e cortili,
un plesso di viuzze, viadotti, angiporti e crocicchi,
un poema da potervi passeggiare
con giardini da cogliervi fiori,
con piazze in cui i vecchi bevessero il sole.
Un poema da sfilarvi con la musica,
da appendervi bandiere, un labirinto
di insegne e di vetrine. E ad ogni strada
vorrei dare il cognome d’un coleottero.
Un poema con piccole case costruite
di mollica e smeraldi, con luoghi
di cui una guida spiegasse la storia
a torpide frotte di ottusi turisti.
Questo (direbbe) è un verso-cattedrale
dalle vetrate di sontuose immagini,
e questo è un vicolo cieco, in cui il poeta
ha raccolto le briciole e i residui.
E queste le muffe di logore sillabe,
i ruderi d’un fraseggiare barocco,
gli orpelli, le spoglie, le scaltre finzioni,
di cui vorrebbe adesso liberarsi,
per essere semplice come l’amore.

Angelo Maria Ripellino

da “Versi inediti e rari”, in “Poesie prime e ultime”, Torino, Aragno, 2006

Vorrei scrivere. In «Tempo presente», n.9-10, settembre-ottobre 1960, p. 661.

Una sera, vicino alla città – Piero Bigongiari

Gino De Dominicis, video di Gerry Schum

Nel sole della sera, sconosciuto
a sé e agli altri andava il fanciullo:
non era muto e non parlava: era
vicino alla città – perduta o ritrovata? –,
i rovi aumentavano e gli sterpi
sotto il suo passo incerto, l’occhio fisso.
«Che cosa trovi che non cerchi mentre
coi raggi occidui del sole ti inerpichi
sulle sue mura?»
 

                        Sono anch’esse cerchi
sull’acqua come quando affonda il sasso
gettato sulla calma dello specchio
dal fanciullo nella sua età giocosa,
ma non è più trastullo
ciò che la vita ora gli dice: «Osa!».

E mentre credi di inoltrarti e fai
solecchio con la mano per scrutare
più a fondo tutto intorno l’orizzonte,
vi affondi, ma si allarga intorno a te
il grande abbraccio circolare. Guarda,
guarda ancora una volta nell’oscura
vanità della porta se c’è ancora
chi ti attende, mentre intanto scende
dalle mura anche il sole a poco a poco.

Non entrerà al tuo posto che un uomo
oscuro verso una figura che,
luminosa nel buio, non attende
altro che il farsi lentamente notte.
È oscuro a se stesso, dalle bende
cinto, risuscitato dalla morte.
Gli è a lato solo il profumo di un fiore.

Ciò che è stato, ormai più non sarà.
Della vita aveva sbocconcellato
solo qualcosa che chi chiama amore
ora ne va cercando anche le briciole,
quasi raggi di sole penetrati
tra crepa e crepa entro quelle alte mura.

Il sole che si era fatto cullare
dalle onde amare del Tirreno insieme
al corpo solare del fanciullo, ora
anche il sole ha paura, si nasconde
o vuole penetrare più a fondo
nell’avventura inclita del mondo?

Piero Bigongiari

28 luglio 1991

da “Tra favola e storia”, in “Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996