Il fiume e il tempo – Marcello Comitini

DigitalArt di Marcello Comitini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ricordo tutto della strada percorsa. Ma non ricordo come sia finito sulla sponda di questo fiume in un territorio assolutamente verde. Un verde che luccica di foglie e erbe, tanto fitte le une, tanto alte le altreinsieme a formare una stanza sconfinata con un grande balcone spalancato su un orizzonte verde che ondeggia al fiato dolce del vento.

Sto bene. Il mio abito è in perfetto ordine. Il viso sbarbato, i capelli lievemente arruffati come sempre. L’aria profuma di dolce umido muschio. Il fiume scorre lento, verde e silenzioso.  La luce èdiffusa in tutte le direzioni senza che se  ne veda la sorgente.

Non occorre che mi guardi ancora intorno. Ci siamo io e nessun altro. Tanto silenzio mi avvolge con un vago senso d’angoscia.

M’incammino senza sapere dove dirigermi. Seguo la sponda del fiume come fa il leopardo quando ha sete e cerca il punto più basso per bere. Mi guardo nello specchio sfuggente dell’acqua. Il mio abito scuro mi fa somigliare un  po’ al  leopardo.

Sono senza provviste e penso a quando avrò fame. Ho vissuto sempre in città e non sono assolutamente in grado di riconoscere che tipo di piante vivono nelle zone disabitate. Certo  mi dico –l e piante crescono anche nelle città. Viali alberati, ampi parchi e giardini, piccoli spazi verdi tra le case. Ma quella rara frutta che si vede sugli alberi non è commestibile.

Nei mercati o nelle campagne non volano i petali dei ciliegi o delle mele, tutto è regolato anche i profumi della merce sulle bancarelle e nelle cassette, i prodotti che i coltivatori mettono in mostra puoi solamente guardarli. Morderli, se li hai acquistati.

In città solo il vento si muove liberamente. Ma è un vento crudele. Urta i palazzi, ne assorbe gli umori, scende a raffiche sulle strade e i passanti abbassano la testa così per tanto tempo che dalla loro mente spariscono un qualsiasi cielo e anche le piante.

A primavera gli unici fiori sono le case, alcune memoria di antiche fioriture, altre sbocciano, giorno dopo giorno, dal cemento come le loro radici e strappano alla terra lo spazio per esistere. Non rimpiango quel modo di vivere né tutti i vantaggi che sento d’aver perduto. So che il momento che vivo è libertà. Anche dalle abitudini che pur sono un piacevole conforto.

Torno a specchiarmi nel fiume e mi assalgono lo stupore e l’orrore che potrei anch’io essere in fuga come lui.

Ma perché fuggire? La fuga non è che un modo per uscire da una situazione difficile, triste, dolorosa. Io nulla di tutto questo. Sono sposato, ho tre figli e un’amante francese. Insegno letteratura moderna all’Università di Bologna e a quella di Grenoble. Pubblico saggi letterari e scrivo poesie, che sono lette in moltissime nazioni perché tradotte in diverse lingue. Non ho più nulla da desiderare. Non mi manca nulla. Eppure il luogo in cui mi ritrovo è la dimostrazione che fuggo.

Il silenzio mi angoscia e mi spinge a interrogarmi ancora più a fondo se questa fuga non sia che il bisogno di desiderare novità inesplorate.

Come nel mito di Ulissese in mia moglie trovo Penelope e nell’amante la mia Calipso, nella mia mente cerco ogni giorno i mari da esplorare assieme a compagni-fantasma che mi permettono di lasciarmi incantare dalla melodia dell’effimeroquella a cui Ulisse è riuscito a sfuggire, quella che in fondo attraversa i miei versi.

Nei miti il mare e gli inferi sono oggetto di esplorazioneMa in questo luogo io sto vivendo il mito primordiale del  Paradiso, prima ancora che l’uomo fosse creato.

Nel Paradiso l’acqua dei fiumi scorreva come adesso?

Mi siedo ai piedi di un albero. Fra i rami rivedo la mela che Eva staccò dal ramo e quella che dicono cadde sulla fronte di Newton dando un nome al peso umano, al precipitare nel tempo.

Sulla sponda del fiume mi sembra di scorgere l’ombra di Eraclito che passeggia e scrive la sentenza che nessuno potrà cancellare. La ripeto mentalmente, nella lingua di Borges che definisce il filosofo l’artificio di un uomo grigio: Nadie baja dos veces a lasaguas del mismo río.

I fiumi e il tempo. Entrambi nomi immobili che portano in sé l’acqua e le ore, misure dell’esistere, del mutamento,  annuncio silenzioso della morte.

È qui, in questo virginale verde a fianco del fiume, contro lo scorrere dell’acqua e delle oreche voglio scrivere il mio ultimo verso, quello che contiene in sé tutte le lingue, e disperatamente trattenere l’eterno.

Marcello Comitini

Il mondo – Ewa Lipska

Ewa Lipska, foto di Danuta Węgiel

 

A volte sei bello. Un vestito cosmico.
Un guardaroba celestiale di paesaggi.
Del tuo corpo si occupano gli eruditi.
Gli studiosi degli elementi.

Qualcuno prevede sempre la tua fine.
Non hai parenti stretti. A chi
lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso
forse ne avrebbero voglia.

Sei eterno? L’odore
della stagione morta lo nega.
La menzogna a volte ha ragione.

Ce la farò senza di te.
In fondo non mi hai promesso nulla.

Non so nemmeno
se è la storia che ha creato noi
o se noi abbiamo creato la storia.
Se siamo solo l’eco
di un cuore altrui.

Ewa Lipska

(Traduzione di Marina Ciccarini)

da “Il lettore di impronte digitali”, Donzelli Poesia, 2017 

∗∗∗

Świat

Czasem jesteś piękny. Kosmiczny ciuch.
Nieziemska garderoba krajobrazów.
Twoim ciałem zajmują się erudyci.
Badacze żywiołów.

Ktoś ciągle przewiduje twój koniec.
Nie masz bliskiej rodziny. Komu
to wszystko zapiszesz? Wścibskie planety
miałyby pewnie ochotę.

Jesteś wieczny? Zapach
martwego sezonu zaprzecza.
Nieprawda ma czasem rację.

Poradzę sobie bez ciebie.
W końcu niczego mi nie przyrzekałeś.

Nawet nie wiem
czy to historia nas stworzyła
czy my stworzyliśmy historię.
Czy jesteśmy tylko echem
czyjegoś innego serca.

Ewa Lipska

da “Czytnik linii papilarnych”, Wydawnictwo Literackie, Kraków, 2015

Separarsi, unirsi – Pierpaolo Annunziata

Foto tratta dal film “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, 1960

 

Prima di separarsi, un caldo sorriso,
l’abbraccio in tralice dello sguardo
dritto sui passi che si discostano.
Da lontano, soltanto la forma
afona di una parola letta sulla
bocca, nel gesto della mano.

Prima di partire, in mezzo
c’è stata la notte: morbida
stola di luna ad unire
un punto d’appoggio e la fame
dei baci. Perché prima che ci
si affondi dentro e ci si morda
il collo, per il sapore e il segno,
ci si lascia sorprendere da un diverso
parlarsi delle labbra: l’alfabeto chiuso
delle chiostre dei denti, respiro e saliva.

Prima di unirsi, prima di separarsi
il desiderio accetta anche il silenzio,
il corpo conserva una memoria che non giace
muta.

Pierpaolo Annunziata

da “Trame confesse”, «NarrativaePoesia», 2011

Desaparecidos – Mario Benedetti

Foto di Alexey Titarenko, dalla serie City of shadows

 

Sono da qualche parte / a concertarsi
a sconcertarsi / sordi
cercandosi / cercandoci
impediti dai segni e dai dubbi
a guardare i cancelli delle piazze
campanelli di porte / vecchi terrazzi
a fare ordine nei sogni negli oblii
forse convalescenti di una morte privata

nessuno ha spiegato loro con certezza
se sono già partiti oppure no
se sono manifesti o appena un tremolio
se son sopravvissuti o semplici responsi

vedono uccelli e alberi che passano
e non sanno a quale ombra appartengono

quando cominciarono a scomparire
tre cinque o sette cerimonie fa
a scomparire come senza sangue
come senza volto e senza motivo
videro dalla finestra dell’assenza
ciò che restava dietro / l’impalcatura
di abbracci cielo e fumo

quando cominciarono a scomparire
come l’oasi scompare dai miraggi
a dileguarsi senza un’ultima parola
reggevano in mano brandelli
di cose che amavano

da qualche parte sono / nube o tomba
da qualche parte stanno / ne sono certo
forse nel sud dell’anima
la bussola sarà andata persa
e ora girano sempre a domandare
dove cazzo rimane il buon umore
perché loro vengono dall’odio

Mario Benedetti

(Traduzione di Martha L. Canfield)

da “Inventario”, Le Lettere, Firenze, 2001

∗∗∗

Desaparecidos

Están en algún sitio / concertados
desconcertados / sordos
buscándose / buscándonos
bloqueados por los signos y las dudas
contemplando las verjas de las plazas
los timbres de las puertas / las viejas azoteas
ordenando sus sueños sus olvidos
quizá convalecientes de su muerte privada

nadie les ha explicado con certeza
si ya se fueron o si no
si son pancartas o temblores
sobrevivientes o responsos

ven pasar árboles y pájaros
e ignoran a qué sombra pertenecen

cuando empezaron a desaparecer
hace tres cinco siete ceremonias
a desaparecer como sin sangre
como sin rostro y sin motivo
vieron por la ventana de su ausencia
lo que quedaba atrás / ese andamiaje
de abrazos cielo y humo

cuando empezaron a desaparecer
como el oasis en los espejismos
a desaparecer sin últimas palabras
tenían en sus manos los trocitos
de cosas que querían

están en algún sitio / nube o tumba
están en algún sitio / estoy seguro
allá en el sur del alma
es posible que hayan extraviado la brújula
y hoy vaguen preguntando preguntando
dónde carajo queda el buen amor
porque vienen del odio

Mario Benedetti

da “Geografias”, Alfaguara 1984

La risposta del poeta ad Harun al Rashid – Roberto Mussapi

Foto di Patty Maher

 

Una notte in cui l’azzurro era più intenso
tra lo stormire delle fronde Harun decise
e guardando lontano, oltre le dune, gli chiese direttamente,
«Perché piangi, Omar? quando siamo in viaggio,
perché intoni le tue rime a un lamento di passero
quando guardi l’alone della luna e brillano le torce,
ed è ancora lontana la data del ritorno,
a Bassora, dove lei ti attende?
Io posso piangere, perché lei lontana mi è assente
e la sua immagine sfuma nel calore del deserto
scivolando dalle mie dita come sabbia,
e con l’immagine si dilegua la sua anima,
viva solo nel desiderio e nella distanza,
ma tu che fai vivere la tua donna nel canto,
che in questo istante la evochi nella voce e nel volto
oltre la finestra da cui guarda e ti aspetta,
oltre il succedersi delle notti nel deserto,
in una luce chiara e costante?
Tu puoi rendere presente adesso il suo respiro e il suo volto,
molto più del mago col genio della lampada,
perché tu evochi una persona vivente,
e non annulli la realtà ma la distanza,
e amore, non meraviglia genera il tuo miracolo».
«Come sbagli, mio signore,
a non sospettare che sia lo stesso
per te e per me, la separazione, intendo.
La separazione e basta, perché per il resto io sto peggio:
lei assente da te, muta, non ti frequenta,
ma solo attende il tempo del tuo ritorno.
Non è così per me, perché io ho in me la sua forma,
e la parola e le forze suscitanti,
e la tecnica di quello che tu chiami il mio miracolo,
ma anche il segreto di tutto questo,
incluso nella sua voce, materia prima,
la luce, la fonte,
così la mia arte è uno spasimo senza oggetto
una preghiera disertata dalla grazia,
forze in tensione che attendono un cenno.
A te, lontano da lei, manca una donna,
a me, se lei non c’è, manca me stesso.»

Roberto Mussapi

da “La polvere e il fuoco”, “Lo Specchio” Mondadori, 1997