Discorso all’assente – Jiří Orten

Jiří Orten

 

Orrore. – Ma sí, ma perché, misero, gridi tanto? – Ascolta queste storie: Sognerai di essere molestato da un conduttore di tram e, subito dopo, di combattere con un capotribú negro… Questo tu sognerai. Poi, nel corso della giornata, diventerai infine (già fuori del sogno) un aiutante di mietitori, del resto hai già da lungo tempo orrore delle parole «grano», «spighe», «maturare» ecc., quando capitano nei versi. Finalmente ti troverai in un cascinale. Che cos’è quel cascinale? È il non essere a casa tua, ma altrove, dove altri sono a casa loro, con la loro virtú. Ti metti a sedere, questa gente non ti ha piú visto da qualche anno e ti considera sempre un ragazzino, che si comporta male con la mamma e nella scuola, ma tutto sommato innocuo. E adesso parlano con te! Vuoi un pezzo di questa conversazione? Ecco qui: (Si parla di un libro) Allora anche lei scribacchia? (dice il padrone) – Io taccio. – Scribacchia? Scribacchia? E cosa scribacchia? – Cosí, quel che capita. – E magari teatri, no? E poi li recita nella scuola, no? (dice la padrona). Io scrivo versi! – (Pam! Sentono questa parola per la prima volta, sorridono senza capire, e quando me ne andrò diranno che sono un tipo strano, che non faccio contenta la mamma, che sono un buono a nulla e che sarebbe meglio se facessi qualcosa di pratico).
Sorrido, ma c’è poco da ridere. Gente simile è un muro intorno all’anima e di muri siffatti ce n’è a milioni, quante sono le stelle, impenetrabili, massicci, ignari. Sbattici contro, se ne stacca una pietruzza appena, e il piccolo buco subito si riottura. Questa gente ha vissuto, ha vissuto molto piú a lungo di me, ma non ha visto, non ha sentito e non ha provato niente tranne il suo muro. – Io, anch’io, ho il mio muro, certo. Ma questo muro mi opprime almeno, almeno mi soffoca, almeno mi cade addosso. Sono un cattivo lavoratore, il mio muro è forato, pieno di buchi, è come una visione del cappottino di Rimbaud. Non è quindi orgoglio ciò di cui ti parlo. Ma amo molto i ciechi, che imparano ad andate senza il bastone bianco. Che cadano, che inciampino, ma procedano appoggiandosi a se stessi!

 Jiří Orten

22. 7. 1940.

(Traduzione di Giovanni Giudici e Vladimír Mikeš)

da “La cosa chiamata poesia”, Einaudi, Torino, 1969

∗∗∗

Řeč k nepřítomnému

Hrůza. – Což o to, ale proč tak voláš, bědný? – Poslechni si ty historky: Bude se Ti zdát, že jsi obtěžován řidičem tramvaje, a hned nato, že bojuješ s černošským náčelníkem o jeho proti smyslu se pohybující ženu (pohybovala se v sobě). Kdo zvítězí, bude broučkem jejího pohybu, totiž hrobaříkem, ale je to (říká sen) funkce pouze čestná, neplacená a také bez práce. Jsi prostě hrobařík a oni to už o tobě dobře vědí, dají ti to najevo v pozdravu. To se ti bude zdát. Pak, během dne, se konečně (už ne ve snu) staneš žňovým pomahačem, máš ostatně už dávno hrůzu ze slov obilí, klasy, zrání a p., když se vyskytnou ve verších. Konečně se dostaneš do domácnosti. Co je to domácnost? To je, když nejsi doma, ale jinde, kde je jiný doma, to je jeho ctnost. Sedneš si, ti lidé tě už několik let neviděli a považují tě stále ještě za malého chlapce, který se špatně učí, zlobí maminku i ve škole, ale celkem je neškodný. A teď’ s tebou hovoří! Chceš kousek toho rozhovoru? Tady ho máš: (Mluví se o nějaké knize z Elku). Tak vy prý taky spisujete (říká pán). – Mlčím. – Spisujete? Spisujete? A copak spisujete? – Tak, co se dá. – A to divadla, ne? A pak to hrajete ve škole, ne? (říká paní). – Já píšu verše! – (Bác! Slyší to slovo po prvé, usmívají se nechápavě, a až odejdu, budou si říkat, že jsem podivín, že nedělám mamince radost, že nic neumím a kdybych raději dělal něco praktického).
Směju se, ale není mi do smíchu. Takoví lidé jsou zeď kolem duše a takových zdí jsou miliony, je jich jako hvězd, neprostupné, pevné, nevědomé. Bij do nich, vypadne kamínek, a dírka, která vznikla, se rychle ucpe. Ti lidé žili, žili mnohem déle než já, ale nikdy nic neslyšeli a neviděli a necítili mimo svou zeď. – Já, já mám také zeď, ovšem. Ale ta zeď mne aspoň tlačí, aspoň mne dusí, aspoň na mne padá. Jsem špatný dělník, moje zeď je děravá, má díry, je vidinou jako Rimbaudův svrchníček. – Nuže, není to pýcha, co ti tu povídám. Ale miluji velmi slepce, kteří se učí chodit bez bílé hole. Ať padají, ať klopýtají, ale chodí, podepřeni sami o sebe!

Jiří Orten

22.7.1940.

da “Deníky Jiřího Ortena”, Československý spisovatel, Praha, 1958

Turbamento – Lucian Blaga

Mimmo Jodice, Elena, 1966

 

Brucia il prato nel sonno. Dalle ciglia dei giunchi
s’allontanano lacrime di fuoco:
le lucciole.

Tra disegni di nubi, sulla costa
s’alza la luna.

Mani autunnali allunga su di te la mia notte
e nel cuore il sorriso ti porto dalla spuma
lucente delle verdi lucciole.
La tua bocca è uva diaccia.

Solo l’orlo sottile della luna
sarebbe così freddo
— se potessi baciarlo —
come le labbra tue.

Mi sei vicina.

Nel buio sento un palpito di palpebre.

Lucian Blaga

(Traduzione di Sauro Albisani)

da “I poemi della luce”, Garzanti Editore, 1989

∗∗∗

Înfrigurare

Livada s-a încins în somn. Din genele-i de stufuri
strîng lacrimi de văpaie:
licurici.

Pe coastă-n vreji de nouri
creşte luna.

Mîni tomnatice întinde noaptea mea spre tine
şi din spuma de lumin a licuricilor verzui
ţi-adun în inimă surîsul.
Gura ta e strugure-ngheţat.

Numai marginea subţire-a lunii
ar mai fi aşa de rece
— de-aş putea să i-o sărut —
ca buza ta.

Îmi eşti aproape.

Prin noapte simt o pîlpîire de pleoape.

Lucian Blaga

da “Păşii profetului”, Editura institutului de arte grafice „Ardealul“, Cluj, 1920

«Ti ho sempre soltanto veduta» – Cesare Pavese

Foto di Paul Apal’kin

   

       Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti piú belli.
     Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo piú pace
al suo brivido atroce.
     E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
     Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
     Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
     Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti piú belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.

Cesare Pavese

[27 dicembre 1927]

da “Prima di «Lavorare stanca», 1923-1930”, in “Cesare Pavese, Le poesie”, Einaudi, Torino, 1998

Ode barbara XIII – Nasos Vaghenàs

Minor White, Moon and Wall Encrustations, Pultneyville, New York, 1964

 

Miei vecchi amori. Visibili
ore di un secolo che non vuole morire.
Si rompono continuamente lune intorno a me.
La luce che m’illumina di certo verrà
da stelle spente.

Tutta la notte sradico sentimenti
dal mio petto che resta sempre verde.
Erbacce con radici d’eternità.
Mi stordisce il rumore del tempo.
Scendo

in una notte più profonda di quella vera
con una duplice tenebra negli angoli
e caligini d’usi passati.
Camminando lentamente, attento
a non svegliarvi.

Nasos Vaghenàs

(Traduzione di Filippomaria Pontani)

(da Odi barbare, 1992)

da “Poeti greci del Novecento”, “I Meridiani” Mondadori, 2010

∗∗∗

ΧIII

Παλιοί μου ἔρωτες. Ὁρατές
ὦρες ἑνός αἰώνα πού δέν λέει νά ξψυχησει.
Φεγγάρια γύρω μου σπᾶνε συνεχῶς.
Τό φῶς πού μέ φωτίζει σίγουρα θά ’ναι
ἀπό σβησμένα ἄστρα. 

Ὅλη τή νύχτα ξεριζώνω αἰσθήματα
ἀπό τό στῆθος μου πού μένει πάντα πράσινο.
Ξερόχορτα μέ ρίζες αἰωνιότητας.
Μέ ζαλίζει ὁ θόρυβος τοῦ χρόνου.
Κατεβαίνω

σέ μιά νύχτα πιό βαθειά ϰι ἀπό τήν πραγματιϰή
μέ διπλό σϰοτάδι στίς γωνιές
ϰαί ὁμίχλες περασμένων, χρήσεων.
Περπατώντας ἀργά, προσεχτιϰά
μή σᾶς ξυπνήσω.

Νάσος Βαγενάς

da “Βάρβαρες ὠδές”, 1992

All’Oceano – Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz

Dipinto di Montague Dawson

I

Ti offro, Oceano, la mia anima, tua amante,
Affinché l’acqua, il cielo e la mia sete di bellezza
Si fondano, lontano dal rumore delle sterili tormente,
In un sublime accordo di perfetta immensità.

La mia anima è l’eco di tutte le preghiere
Così come la tua voce unica è il coro dei tuoi flutti,
E il bagliore del suo sogno acceca le luci
Delle sabbie cangianti che nei tuoi singulti bagnano.

Qui non senti più, altera Solitudine,
Dei volgari destini il riso odioso.
La tua gioia, amore mio, è l’umano dolore,
La tua tristezza, vita mia, è l’estasi divina.

Allo specchio dello spazio e dell’eternità
Vedo infine sorridere il placido sogno
Promesso alla mia fatica dove perfino l’orgoglio abdica
Calpestando le tombe senza croci delle vanità.

Lo sai, per te ho un’immensa tenerezza
Che nell’anima e nel cuore mio deserto si lamenta
Di poter benedire, nella culla del Silenzio,
Solo il sonno del cielo e il dolore dei mari.

Lo sai, i miei rimpianti, i miei sforzi, i desideri miei,
Sono voli di neri uccelli, presagio di naufragi,
E il grido d’addio delle vedovanze eterne
Nell’anima mia si mescola al rintocco a morto dei ricordi.

Lo sai, le mie gioie sono sere stellate
Dove uomini traditi abbarbicati alle carene
Tendono le braccia vinte al richiamo delle sirene
La cui canzone è cara al cuore degli esuli.

Lo sai, sulla spiaggia dove vegliano i pensieri
L’onda cancella il mio nome e rigetta in relitti
Gli avventurosi vascelli dalle vele infuocate,
Portatori di illusioni dalla sorgente inaridita.

Lo sai, il mio fervore è il tesoro affondato
La cui favola arride ai sogni di ricchezza
Mentre è solo il barbaglio dell’onda sotto la luna
O il rosso bengala di una nave alla deriva.

Lo sai, il mio amore per i Futuri caritatevoli
È solitario come un marinaio di vedetta
Che i lamenti della nostalgia e del vento
Cullano a lungo nelle notti spaventevoli.

Importa forse ai cercatori di novelle sponde
Il grido di morte della loro avventura ferita?
Il vento che scolpisce l’oceano saprà tessere
Grandi sudari di schiuma e scavare sepolcri.

II

– Com’è bella la tua voce sullo sfondo del mio sogno
Notte glauca del mare sotto l’azzurro fremente!
Il taglio dei tuoi flutti brilla come i gladi
Che ben presto gli schiavi poderosi leveranno!

Quel giorno mi animerà un più ardente cantico
Di ebrezza e di rivolta al largo dell’amore,
Anima infine dispiegata a vessillo eroico
Agli armoniosi venti del ritorno.

Se conosci il mio cuore, immensità vibrante,
Sai che nulla di certo né d’intatto trova scampo,
Salvo l’anelito a morire circondato da uomini liberi
Nel sudario troppo grande della mia stessa pietà.

Quel giorno avremo, tu propizie tramontane
Per vascelli portatori di fraterni consigli,
Io canti più possenti, messi di sacrifici,
Grandi venti di libertà su insegne lacere.

Tu levighi il granito sotto l’onda marina;
Ma i flutti dell’oblio non cancelleranno mai
Malgrado il duro e ostinato lavorio avverso
Il segno oscuro inciso sulla roccia della mia fronte.

E allora accoglimi, vecchio cantore di leggende,
Re barbaro dal mantello di sole e di vento,
Col gesto che risponde ai portatori di offerte,
Giacché il bardo è sublime e vive il sogno suo.

E quando suonerà il liuto dalle taglienti note
Vedrai sulle tue acque apparire gli dèi morti
E forse la tua anima di progenitore riconoscerà
La voce di Childe Harold dalle labbra del suo canto.

Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz

(Traduzione di Massimo Rizzante)

da “O.V. de L. Milosz, Sinfonia di Novembre e altre poesie”, Adelphi, Milano, 2008

∗∗∗

À l’Océan

I

Je te donne, Océan, mon âme, ton amante,
Afin que l’eau, le ciel et ma soif de beauté
Se fondent, loin du bruit des stériles tourmentes,
En un sublime accord parfait d’immensité.

Car mon âme est l’écho de toutes les prières
Comme ta voix unique est le chœur de tes flots,
Et l’éclat de son rêve aveugle les lumières
Des sables chatoyants lavés dans tes sanglots.

Ici tu n’entends plus, Solitude hautaine,
Des vulgaires destins les rires odieux.
Ta joie, ô mon amour, est la douleur humaine,
Ta tristesse, ô ma vie, est l’extase des dieux.

Du miroir de l’espace et de l’éternité
Je vois sourire enfin le songe pacifique
Promis à ma fatigue où l’orgueil même abdique
En foulant les tombeaux sans croix des vanités.

Tu sais que je t’apporte une tendresse immense
Qui se plaint dans mon âme et dans mon cœur désert
De n’avoir à bénir, au berceau du Silence,
Que le sommeil du ciel et la douleur des mers.

Tu sais que mes regrets, mes efforts, mes désirs,
Sont les vols d’oiseaux noirs qui guettent les naufrages
Et que le cri d’adieu des étemels veuvages
Se mêle dans mon âme au glas des souvenirs.

Tu sais que mes bonheurs sont les soirs étoilés
Où les hommes trahis penchés sur les carènes
Tendent leurs bras vaincus vers l’appel des sirènes
Dont la chanson est douce au cœur des exilés.

Tu sais que sur la plage où veillent mes pensées
L’onde efface mon nom et rejette en sparies
Les vaisseaux d’aventure aux voiles embrasées,
Porteurs d’illusions dont la source est tarie.

Tu sais que ma ferveur est le trésor sombré
Dont la fable sourit aux songes de fortune
Mais qui n’est que l’éclat des vagues sous la lune
Ou le rouge signal d’un navire égaré.

Tu sais que mon amour des Futurs charitables
Est solitaire ainsi qu’un veilleur de vigie
Que bercent longuement dans les nuits redoutables
Les thrènes de la bise et de la nostalgie.

Mais qu’importe aux chercheurs de rivages nouveaux
Le cri de mort de leur aventure blessée?
Le vent qui sculpte l’océan saura tisser
Les grands linceuls d’écume et creuser les tombeaux.

II

– Comme ta voix est belle au lointain de mon rêve
Nuit glauque de la mer sous l’azur frémissant!
Le tranchant de tes flots brille comme les glaives
Que lèveront bientôt les esclaves puissants!

Ce jour-là je vivrai d’un plus ardent cantique
D’ivresse et de révolte au large de l’amour,
Ame enfin déployée en bannière héroïque
Aux vents harmonieux de l’heure du retour.

Car, connaissant mon cœur, immensité qui vibres,
Tu sais qu’il n’y survit rien de sûr, rien d’ender,
Sauf l’amour de mourir entouré d’hommes libres
Dans le linceul trop grand de ma propre pitié.

Nous aurons ce jour-là, toi des bises propices
Aux navires porteurs de fraternels souhaits,
Et moi, des chants plus forts, moissons de sacrifices
Grands vents de liberté sur les drapeaux troués.

Tu polis le granit sous la vague marine;
Mais les flots de l’oubli jamais n’effaceront
Malgré leur dur labeur ennemi qui s’obstine
Le signe obscur gravé dans le roc de mon front.

Tu peux donc m’accueillir, vieux conteur de légendes,
Roi barbare au manteau de soleil et de vent,
Du geste que l’on tend vers les porteurs d’offrandes,
Car le barde est sublime et son rêve est vivant.

Et quand il frappera le luth au son tranchant
Tu verras sur tes eaux les dieux morts apparaître
Et ton âme d’aïeul reconnaîtra peut-être
La voix de Childe-Harold aux lèvres de son chant.

Oscar Vadislas de Lubicz Milosz

da “O.V. de L. Milosz, Œuvres complètes”, Vol. I, II, XII, Paris, Éditions André Silvaire, 1958