Era pudico il piede – Piero Bigongiari

Orazio Gentileschi, Riposo dalla fuga in Egitto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era pudico il piede, e fu sua somma
impudicizia credere che appoggiandosi
senza malizia, balbuziente, sulla
terra patema quella fosse un luogo
di conquista alla propria tenerezza,
l’alterità di una carezza attesa
come si attende inoltrarsi una brezza
in una strana azzurrità infinita.
L’infinito apparteneva alla vita,
alla voglia infinita di vedere
e di toccare ciò che non ha senso
lasciando senza senso il suo sapere.

Poi ciò che non ha nome cominciò
a parlare chiedendo «Quale è
il tuo nome?» e aggiungendo «Perché
tu sei qui?». Il fanciullo rispose
«Sono io, ma il mio nome non è
il mio nome, e il mio luogo è altrove.
Tutto somiglia a ciò ch’io non conosco,
eppure questo è il mio posto».

                                                   Fu
la parola che come il mosto fece
diventare vino la sua ebrietà,
guardando il divino addormentato
come sotto la pergola i figli
vi sorpresero il padre inebriato
Tutto non è come sembra, ma anche
ciò che sembra altro, è quello che è.
La prole di Noè rimembra ancora
in sé la propria ebbrezza un dì paterna?

La parola vi alterna senso e contro-
senso. Parola o passo che si eterna
grazie alla stessa voluttà salvifica
della propria illusione inebriata
di andare incontro alla stessa visione,
d’essere la sua intoccabile missione,
il fendente che ti entra nella carne
per una più sottile guarigione.
Era troppo alto sulla madia il vaso
fìttile istoriato d’azzurro smalto
o era ancora vile la tua mano?
Era pudico il passo o aprico il suolo
che lo accoglieva, fosse esso il piede
dell’infante o quello del mendico
che vanno incontro allo stesso istante,
del passo erede che diviene volo
dell’angelo che crede in quel che vede.

Questa terra è la mia, già celeste
laddove il ventolino ancora freddo
dell’alba più la punge e vi disserra
coi petali dei fiori anche le palpebre
dei suoi dolori ancora assonnati.
Anche laddove mancano le tracce
i prati calpestati e le bisacce
dei pellegrini poggiate alle porte
chiuse ti dicono che i confini
ambigui tra il qui e il suo altrove
sono già superati. Troppo esigui
sono i rapporti tra i mèzzi e i fini,
ma già mézzi di lacrime
sono i suoi miracolosi acquitrini.
Non aspettare l’urlo delle sirene
dei battelli che salpano lì intorno
dai porti oleosi di Livorno.

Ma tu prega per me se la tua fede
si chiama ancora amore, ancora crede.
È in un’ombra che dura nella mente
la luce che arrovella il mio destino,
una perla perduta nel cammino
che ad altro, sempre ad altro, acconsente
di essere il diverso nel medesimo
nel grido sussurrato «Apriti, Sesamo».

Piero Bigongiari

1°-14 settembre 1997

da “Il silenzio del poema: poesie 1996-1997”, Genova, Marietti, 2003

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