«Per qualche tempo ancora proverò meraviglia» – Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

 

Per qualche tempo ancora proverò meraviglia
del mondo, dei bambini, della neve,
ma come una strada è aperto il mio sorriso,
non docile, non servo…

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

9-13 dicembre 1936

(Traduzione di Remo Faccani)

da “Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Ottanta Poesie”, Einaudi, Torino, 2009

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«Подивлюсь на мир еще немного»

Подивлюсь на мир еще немного,
На детей и на снега,
Но улыбка неподдельна, как дорога,
Непослушна, не слуга…

Осип Эмильевич Мандельштам

10-13 декабря 1936

da “Sobranie socinenij”, a cura di P. Nerler, A. Nikitaev, Ju. Frejdin, S. Vasilenko, Moskva, 1993-1994

Canti lungo la fuga VI – Ingeborg Bachmann

Marc Chagall, Dans la nuit, 1943

VI

Istruiti nell’amore
per diecimila libri
colti per il tramandarsi
di gesti immutabili
e giuramenti stolti –

ma solo qui
iniziati all’amore –

quando la lava discese
e il suo alito ci colse
al piede del monte,
quando infine il cratere sfinito
più non trattenne la chiave
per questi corpi serrati –

Entrammo in spazi incantati
e illuminammo il buio
con la punta delle dita.

Ingeborg Bachmann

(Traduzione di Luigi Reitani)

da “Invocazione all’Orsa Maggiore”, Milano, SE Edizioni, 2002

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Lieder auf der Flucht

Dura legge d’Amor! ma, ben che obliqua,
Servar convensi; però ch’ella aggiunge
Di cielo in terra, universale, antiqua.
Petrarca, « I Trionfi »
VI

Unterrichtet in der Liebe
durch zehntausend Bücher,
belehrt durch die Weitergabe
wenig veränderbarer Gesten
und törichter Schwüre –

eingeweiht in die Liebe
aber erst hier –

als die Lava herabfuhr
und ihr Hauch uns traf
am Fuß des Berges,
als zuletzt der erschöpfte Krater
den Schlüssel preisgab
für diese verschlossenen Körper –

Wir traten ein in verwunschene Räume
und leuchteten das Dunkel aus
mit den Fingerspitzen.

Ingeborg Bachmann

da “Anrufung des Großen Bären”, München, 1956

«Si ricorda di te l’umida terra» – Edna St. Vincent Millay

Foto di Arianna Marchesani

 

Si ricorda di te l’umida terra
di primavera, con tutti i suoi fiori,
le strade polverose, i cardi, e il lento
crescere della tonda luna, e tutte
le gole che cantarono d’estate,
le ali in partenza, i nidi, i rami spogli,
i venti che soffiarono a ogni tempo
e le tempeste di quattro stagioni.
Tu non vai piú  col tuo passo di gloria
sui sentieri dell’alba e della bruma,
non vegli al vento, non ascolti il palpito
d’invisibili ali alte nell’aria.
Qualcosa in piú che giovane e gentile
eri tu: l’anno intero ti ricorda.

Edna St. Vincent Millay

(Traduzione di Silvio Raffo)

da “Sonetti”, in “L’amore non è cieco”, Crocetti Editore, 1991

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«Mindful of you the sodden earth in spring»

Mindful of you the sodden earth in spring,
And all the flowers that in the springtime grow;
And dusty roads, and thistles, and the slow
Rising of the round moon; all throats that sing
The summer through, and each departing wing,
And all the nests that the bared branches show;
And all winds that in any weather blow,
And all the storms that the four seasons bring.
You go no more on your exultant feet
Up paths that only mist and morning knew;
Or watch the wind, or listen to the beat
Of a bird’s wings too high in air to view,—
But you were something more than young and sweet
And fair,—and the long year remembers you.

Edna St. Vincent Millay

da “Renascence and other poems”, Harper & Brothers, 1917

Segreti – Konstandinos P. Kavafis

Konstandinos P. Kavafis

 

Da quanto ho fatto e da quanto ho detto
non cerchino di capire chi ero.
Erano un ostacolo e modificavano
il mio modo di agire e di vivere.
Erano un ostacolo che spesso mi bloccava
quando stavo per parlare.
Dalle mie azioni meno evidenti
e dai miei scritti più segreti –
da questi soltanto riusciranno a capirmi.
Ma forse tanti sforzi e tante cure
per conoscermi non valgono la pena.
In futuro – in una società migliore –
qualcun altro fatto come me
certo ci sarà e agirà liberamente.

Konstandinos P. Kavafis

(Traduzione di Paola Maria Minucci)

da “Konstandinos P. Kavafis, Tutte le poesie” a cura di Paola Maria Minucci, Donzelli Editore, 2019

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Κρυμμένα

Ἀπ’ ὅσα ἔϰαμα ϰι ἀπ’ ὅσα εἶπα
νά μή ζητήσουνε νά βροῦν ποιός ἤμουν.
Ἐμπόδιο στέϰονταν ϰαί μεταμόρφωνε
τές πράξεις ϰαί τόν τρόπο τῆς ζωῆς μου.
Ἐμπόδιο στέϰονταν ϰαί σταματοῦσε με
πολλές φορές πού πήγαινα νά πῶ.
Οἱ πιό ἀπαρατήρητές μου πράξεις
ϰαί τά γραψίματά μου τά πιό σϰεπασμένα —
ἀπό ἐϰεῖ μονάχα θά μέ νιώσουν.
Ἀλλά ἴσως δέν ἀξίζει νά ϰαταβληθεῖ
τόση φροντίς ϰαί τόσος ϰόπος νά μέ μάθουν.
Κατόπι — στήν τελειοτέρα ϰοινωνία —
ϰανένας ἄλλος ϰαμωμένος σάν ἐμένα
βέβαια θά φανεῖ ϰ’ ἐλεύθερα θά ϰάμει.

Κωνσταντίνος Καβάφης

[1908]

da “Κρυμμένα ποιήματα 1877?-1923”, [Poesie segrete 1877?-1923], a cura di I. P. Savvidis, Ikaros, Atene, 1993

Come è – Mark Strand

Foto di Timothy Greenfield

Il mondo è orribile
E la gente è triste.
Wallace Stevens
         

Sto a letto.
Mi rigiro tutta notte
nel freddo indisturbato abisso
delle lenzuola senza dormire.

Il mio vicino cammina per la sua stanza,
indossa la maschera
lucente di un falco dal grande becco.
Sta alla finestra. Una piuma viola

sale dalla sommità del suo elmo.
La luce della luna
si versa come latte su di lui e il vento sciacqua le bianche
coppe vitree dei suoi occhi.

Con l’elmo in un sacchetto della spesa
siede nel parco, sventola una bandierina americana.
Non lo si sente quando si sposta
dietro alle siepi e alle piante,

sempre sui confini consunti
del paese, e punta una pistola a qualcuno come me. Mi accuccio
sotto il tavolo della cucina, e mi dico
sono un cane, chi ucciderebbe mai un cane?

La moglie del vicino torna a casa.
Entra in salotto,
si spoglia, la chioma le ricade sulla schiena.
Pare che lei guadi

lunghi fiumi placidi d’ombra.
Ha le piante dei piedi nere.
Bacia il marito sul collo
e gli infila le mani nei calzoni.

I miei vicini ballano.
Rotolano sul pavimento, lui le mette la lingua
nell’orecchio, i suoi polmoni
esalano il fetore della broda e del clima dell’inferno.

Per strada c’è gente che si sdraia
ginocchia all’aria, con occhi
colmi di lacrime, ceneri
che penetrano nelle orecchie.

I vestiti gli vengono strappati
di dosso. Hanno le facce estenuate.
Cavalieri gli galoppano intorno, spiegando perché
dovrebbero morire.

La moglie del vicino mi chiama, la bocca schiacciata
contro il muro alle spalle del mio letto.
Dice: «Mio marito è morto».
Io mi giro sul fianco,

sperando che non abbia mentito.
Le pareti e il soffitto di camera mia sono grigi −
il colore della luna visto dalle finestre di un lavasecco.
Chiudo gli occhi.

Mi vedo a galla
sul mar morto del mio letto, risucchiato via,
e chiedo aiuto, ma l’urlo vago
mi si strozza in gola.

Mi vedo nel parco
a cavallo, circondato dal buio,
che conduco gli eserciti di pace.
Le zampe di ferro del cavallo non si flettono.

Lascio le redini. Dove finiranno i disordini?
Flotte di taxi si fermano
nella nebbia, i passeggeri
si addormentano. Della benzina cola

da un tubo di scappamento tricolore.
Chiudendo a chiave le porte,
le persone che escono dagli uffici si stringono l’un l’altra,
raccontando sempre daccapo la stessa storia.

Tutti quelli che si sono venduti vogliono ricomprarsi.
Non si fa nulla. La sera
consuma le loro membra
come una carestia.

Tutto si offusca.
Il futuro non è più quello di una volta.
Le tombe sono pronte. I morti
erediteranno i morti.

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “Il futuro non è più quello di una volta”, minimum fax, Roma, 2006

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The Way It Is 

The world is ugly
And the people are sad.
Wallace Stevens

I lie in bed.
I toss all night
in the cold unruffled deep
of my sheets and cannot sleep.

My neighbor marches in his room,
wearing the sleek
mask of a hawk with a large beak.
He stands by the window. A violet plume

rises from his helmet’s dome.
The moon’s light
spills over him like milk and the wind rinses the white
glass bowls of his eyes.

His helmet in a shopping bag,
he sits in the park, waving a small American flag.
He cannot be heard as he moves
behind trees and hedges,

always at the frayed edges
of town, pulling a gun on someone like me. I crouch
under the kitchen table, telling myself
I am a dog, who would kill a dog?

My neighbor’s wife comes home.
She walks into the living room,
takes off her clothes, her hair falls down her back.
She seems to wade

through long flat rivers of shade.
The soles of her feet are black.
She kisses her husband’s neck
and puts her hands inside his pants.

My neighbors dance.
They roll on the floor, his tongue
is in her ear, his lungs
reek with the swill and weather of hell.

Out on the street people are lying down
with their knees in the air, tears
fill their eyes, ashes
cover their ears.

Their clothes are torn
from their backs. Their faces are worn.
Horsemen are riding around them, telling them why
they should die.

My neighbor’s wife calls to me, her mouth is pressed
against the wall behind my bed.
She says, «My husband’s dead.»
I turn over on my side,

hoping she has not lied.
The walls and ceiling of my room are gray —
the moon’s color through the windows of a laundromat.
I close my eyes.

I see myself float
on the dead sea of my bed, falling away,
calling for help, but the vague scream
sticks in my throat.

I see myself in the park
on horseback, surrounded by dark,
leading the armies of peace.
The iron legs of the horse do not bend.

I drop the reins. Where will the turmoil end?
Fleets of taxis stall
in the fog, passengers fall
asleep. Gas pours

from a tricolored stack.
Locking their doors,
people from offices huddle together,
telling the same story over and over.

Everyone who has sold himself wants to buy himself back.
Nothing is done. The night
eats into their limbs
like a blight.

Everything dims.
The future is not what it used to be.
The graves are ready. The dead
shall inherit the dead.

Mark Strand

da “Darker: poems”, Atheneum, 1970