«Quanto vorrei, oh quanto» – Osip Ėmil’evič Mandel’štam

Foto di Jonas Hafner

 

Quanto vorrei, oh quanto
– non visto, non sentito –
volare dietro a un raggio
là dove non esisto.

E tu nel cerchio irradia –
non c’è altra beatitudine –
e da una stella impara
che significhi luce.

Ciò che ti voglio dire
è che sto bisbigliando
e sottovoce affido
te, mia bambina, a un raggio.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

23 marzo – primi di maggio del 1937

(Traduzione di Remo Faccani)

da “Osip Ėmil’evič Mandel’štam, Ottanta poesie”, Einaudi, Torino, 2009

Metro: tripodia giambica; quartine a rime alterne tutte maschili; la terza e ultima strofa non solo riprende – nei versi dispari – le stesse parole che suggellano i vv. 1 e 3 della strofa iniziale, ma si presenta come un tetrastico monorimo; e questa serie di uscite in -čú sembra quasi voler richiamare alla memoria l’interiezione russa čur, ancora viva fra l’altro nei giochi infantili – e derivata da un vecchio scongiuro con cui si vietava di toccare un oggetto, di compiere determinate azioni.
La poesia riflette il desiderio, l’ansia o il sogno di un legame fra terra e cielo; anche se, inevitabilmente, «il raggio e la luce (delle stelle) riprendono vita, rinascono soltanto nella parola del poeta» (MG, p. 675).
v. 12: «mia bambina» (ditja); espressione affettuosa rivolta da Mandel´štam alla moglie. (Remo Faccani)

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