La conquista del Messico – Giuseppe Conte

Michael Kenna, Teotihuacan, Study 4, Mexico, 2006

IL SOGNO DEL GIORNO DEI TRENT’ANNI

Il sole distrugge e dona, il sole
sa perdersi, ama tutto, e senza
amore, senza pietà, senza sentire
nient’altro che il proprio spargersi:

il sole sa tornare, alza i primi
fischi tra gli alberi del parco, giungerà sulle finestre
chiuse con mani di rampicante. È incurante
e silenzioso, brutale, ma è prodigo anche,

delicato. Sgretola, disfiora, incendia, ma
sa disfarsi nel collo di una campanula. Distrugge e
dona, è leggero e immenso, sa tornare –

è celibe come il mare, individuale, sterile.
Io che ho trent’anni, che non posso più
crescere, che non so tornare, scelgo
parole per essere il dio del sole –

io fiore, io pietra, io luce, per donare

il dono leggero e immenso del

poema

NANAUATZIN

Fra gli zigomi e le pupille ho notte, ho
roveti: non è mia, non è mia la
pelle che si apre in solchi, le lunghe
ciglia di cenere che volano, le

palpebre crollate: ho pozzi
sotto la nuca, la mia bocca alta
sul cranio è cratere, ha orli
che la lava raggiunge, passa.

Non sono miei i capelli
fossili, le lunghe ciglia di
cenere, il mento di conchiglie.
Nel costato i precipizi sono rocce

di quarzo, tane di serpente, pioggia
di scaglie di deserto, e i fianchi sono
sabbie che si fendono, fondali ora, pianure
e barriere d’alghe, mobili, agitate dalle

correnti

Ho braccia di golfi, dita
di promontori, le unghie ora traversano
il mare sino all’orizzonte, ho ginocchia
magre, di grotte, e mille alluci di

onde

Non amore, ricordi, pietà, nome.

Come il mare celibe, individuale, votato
al gioco della vita nella sterilità, a
consumarsi e far nascere.

Sorgo. Non c’è mondo al di là delle mie nuove
mani aperte, dei miei nuovi piedi che
corrono, sono terra, sono erba, sono
le prime palme, i primi altopiani, sono

il mattino, l’urlo del papavero selvaggio
che vuole sbocciare. Io oggi, io fiore, io
pietra, io buio, io luce.

Mi alzo nel cielo, cavalli rovani di

nuvole

TEZCATLIPOCA

Sono solo sulla piramide di Quautixicalco.
Ho suonato tutta la notte, specchio
di sabbie cieche, di nidi vuoti, di
alberi affondati tra le fredde

pietre

Ma ora nuvole come nasturzi, come
calendule si accendono oltre i cancelli
aperti dell’aria, ora si svegliano
gli uomini nelle case della città, le

prime canoe vanno per vie

d’acqua

Verranno Xochitl, Quetzal, ma l’amore
non basta a far tornare il mattino.
L’amore non sa i nomi, non sa il tempo
degli uomini, l’amore che è

distruggere, è giocare, bruciare, disfio-
rare, che è leggero e
immenso, che dona senza chiedere, che fa
fiorire e rinsecca, spacca

la corteccia e tuona, attende la
pioggia
Io suono, io pioggia, io corteccia, io
pietra, amore, Xochitl, Quetzal giocano ora, a-
more, ora ridono perché muoio: è
amore. Il fulmine fiorito alza recinti di

sguardi

Io stendo le mani aperte, sono
di sangue, sono di luce, io corro
con i miei piedi, sono terra, sono
erba, sono nasturzi, calendule che si aprono

di fuoco, i grandi cedri sui laghi, le
farfalle, le lucertole che saltano
dai cespugli di salvia, i cervi
con le zampe di canna. Sono le

palme lucide e polverose, le spiagge
accese dalle onde lunghe, le
conchiglie smosse sulla riva del mare:

Xochitl, Quetzal ridono ora, danzano, e io

muoio, faccio tornare

l’alba

IL RITORNO DI QUETZALCOATL
(Frammenti)

Gli uomini che vendono l’oro, che
costruiscono mattone su mattone le
muraglie del tempo, e i terrapieni, e le alte
ciminiere, che non sanno passare

sull’acqua e andare a ritroso: che
uccidono mentre parlano d’amore: che
vivono smemorati della vita, che hanno
i compassi negli occhi, che inceneriscono gli alberi e i

desideri

è immenso chi dona, chi sa tornare
chi è debole, chi splende e cade, chi
danza sopra gli alluci, chi scalda
vendemmie che continuano e i

nidi di sabbia dove i rubini dormono, chi
corre sui sentieri di giada e muschio sino alle
nuvole, rosai di nuvole scolpite e
cancellate dai venti, e distrugge: è il

sole

radici che nel buio di terra hanno dita
di pioggia, il sole che distrugge, e il vuoto
di vita che regge la vita dopo averla generata, l’
esplosione, il dono, l’andare a ritroso:

è immenso chi non ha, chi dona, chi
sa tornare: perché le mie parole? Perché non
l’universo dei ronzii e dei silenzi, della morte
sconosciuta? Io seme, io stame, io fiume, canoe di

luce

Esiliato sul grande mare io che ritorno
io che ascolto i canti al di là del vento e so
suonare le conchiglie, che rido, che fumo, e
porto tra i capelli neri le nuvole e le

piogge, pupille delle foglie, io che
ritorno dove non si può tornare, ai
laghi di Tenochtitlan, a cercare
sui laghi di Tenochtitlan i giardini, le querce d’

oro

Io non sono dei vostri, su una barca
dalla chiglia di serpente vengo a uccidere perché
non si possa più vincere e più uccidere,
sui campi gli squadroni si smemorino,

le bandiere diventino mantelli di
nuvole, piogge sugli altopiani. Cavalli rovani di
sguardi si alzano, e vedo i laghi, e sui
laghi ancora i fiori nei giardini di

Tenochtitlan

Giuseppe Conte

da “L’ultimo aprile bianco”, Società di Poesia, Milano, 1979

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