Da lontano – Pierluigi Cappello

Foto di Maria Cecilia Camozzi

 

Qualche volta, piano piano, quando la notte
si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio
e non c’è piú posto per le parole
e a poco a poco ci si raddensa una dolcezza intorno
come una perla intorno al singolo grano di sabbia,
una lettera alla volta pronunciamo un nome amato
per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo
nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato.

Pierluigi Cappello

da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010

VI – Titos Patrikios

Foto di Izis Bidermanas

 

Io non sono quello che vedi, quello che conosci
non sono solo quello che dovresti imparare.
Devo a qualcuno ogni brandello della mia carne,
se ti tocco con la punta del dito
ti toccano milioni di persone,
se ti parla una mia parola
ti parlano milioni di persone –
riconoscerai gli altri corpi che danno forma al mio?
ritroverai le mie orme tra miriadi di altre impronte?
distinguerai i miei gesti nella marea della folla?
Io sono anche quello che fui e che piú non sono –
le mie cellule morte, le mie azioni
morte, i pensieri morti
di notte tornano a dissetarsi nel mio sangue.
Io sono quello che non sono ancora –
dentro di me martella l’impalcatura del futuro.
Sono quello che devo diventare –
intorno a me gli amici esigono, i nemici vietano.
Non cercarmi altrove
cercami soltanto qui
soltanto in me.

Titos Patrikios

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Fine dell’estate”, 1953 -1954, in “La resistenza dei fatti”, Crocetti Editore, 2007

Gazzella del ricordo d’amore – Federico Garcìa Lorca

 

VII.

Non portare via il ricordo di te.
Lascialo solo nel mio cuore,

tremito di ciliegio bianco
nel martirio di gennaio.

Mi separa dai morti
un muro di sogni brutti.

Sento pena di fresco giglio
per un cuore di gesso.

Tutta la notte, nell’orto
i miei occhi, come due cani.

Tutta la notte, mangiando
le cotogne di veleno.

Il vento a volte
è un tulipano di paura,

è un tulipano malato
l’alba d’inverno.

Un muro di sogni brutti
mi separa dai morti.

L’erba copre in silenzio
la grigia valle del tuo corpo.

Sull’arco dell’incontro
cresce la cicuta.

Ma lascia il ricordo di te,
lascialo solo nel mio cuore.

Federico García Lorca

(Traduzione di Claudio Rendina)

da “Divano del Tamarit”, 1927/1934, in “Federico García Lorca, Tutte le poesie”, Newton Compton, Roma, 1993

***

VII. Gacela del recuerdo de amor

No te lleves tu recuerdo.
Déjalo solo en mi pecho,

temblor de blanco cerezo
en el martirio de enero.

Me separa de los muertos
un muro de malos sueños.

Doy pena de lirio fresco
para un corazón de yeso.

Toda la noche, en el huerto
mis ojos, como dos perros.

Toda la noche, comiendo
los membrillos de veneno.

Algunas veces el viento
es un tulipán de miedo,

es un tulipán enfermo
la madrugada de invierno.

Un muro de malos sueños
me separa de los muertos.

La hierba cubre en silencio
el valle gris de tu cuerpo.

Por el arco del encuentro
la cicuta está creciendo.

Pero deja tu recuerdo,
déjalo solo en mi pecho.

Federico García Lorca

da “Diván del Tamarit”, Buenos Aires, Losada, 1940

«A Pietroburgo ci incontreremo di nuovo» – Osip Ėmil’evič Mandel’štam

 

A Pietroburgo ci incontreremo di nuovo,
quasi vi avessimo sepolto il sole,
e un’assurda parola beata
pronunzieremo per la prima volta.
Nel nero velluto della notte sovietica,
nel velluto del vuoto universale
cantano sempre i cari occhi di donne beate,
sempre fioriscono fiori immortali.

Come una gatta selvaggia s’inarca la capitale,
sul ponte sta una pattuglia,
solo un maligno motore fuggirà nella nebbia,
urlando come un cuculo.
Non mi occorre il lasciapassare notturno,
non ho paura delle sentinelle:
per un’assurda parola beata
pregherò nella notte sovietica.

Sento un leggero fruscío teatrale
e l’ah d’una fanciulla,
e un mucchio enorme di rose immortali
Ciprigna stringe fra le braccia.
Ci scaldiamo a un falò dalla noia,
forse i secoli trascorreranno,
e le care mani di donne beate
raccoglieranno la lieve cenere.

In qualche luogo le rosse aiuole d’una platea,
sfarzosamente rigonfi gli stipi dei palchi,
la bambola a molla di un ufficiale:
non per le anime nere né per i gretti santoni…
Ebbene, spegni le nostre candele
nel nero velluto del vuoto universale,
cantano sempre le sode spalle di donne beate,
ma il notturno sole tu non lo spegnerai.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam

25 novembre 1920

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino)

da “Poesia russa del novecento”, a cura di A. Maria Ripellino, Guanda Editore, Parma, 1954

«Se è vero che il gelo» – Lalla Romano

Foto di Charles March

 

Se è vero che il gelo
soppianterà il timido calore
delle nostre mani avvinte
e noi non avremo altra sorte
nella terra bagnata dalla pioggia
delle foglie d’autunno
è vero che andranno in polvere i mondi

Le ere franeranno senza rumore
come castelli di cenere
sul focolare che nessuno smuove
nella casa disabitata
solo il vento farà fremere le porte
finché imputridiranno sotto il cielo
quando anche il tetto si sarà scoperchiato

Questo e non altro rimarrà della casa
e l’Eterno sarà detto l’Assente

Lalla Romano

da “Da una ruvida mano”, in “Lalla Romano, Opere”, “I Meridiani” Mondadori, 1991