Il sesto Inno alla notte – Novalis

Friedrich Eduard Eichens, Portrait of Novalis, 1906

 

Ci accolga nel grembo la terra,
scampati dai regni del Giorno!
La rabbia cozzante dei flutti
dà il segno alla lieta partenza.
In piccola barca, è veloce
l’approdo alle sponde del Cielo.

Laudata la Notte perenne,
laudato sia il Sonno eternale!
Riarsi dal torrido Giorno,
ci ha vizzi il tenace soffrire.
L’esilio terreno ci ha stanchi:
la casa paterna, aneliamo.

Che giovano al mondo perverso,
la fede serbata e l’amore?
L’Antico? Caduto in dispregio.
Del Nuovo, incuranti noi siamo.
Sta solo, in cordoglio profondo,
colui che idolatra il passato.

I tempi, in che ardeva lo Spirito
di fiamme ardentissime chiare;
e ancor ravvisava, adorando,
l’ascoso sembiante di Dio;
e a volte, la Luce patema,
ignaro di sé, rifletteva.

I tempi, in cui ricchi di fiori
smagliavano i tronchi vetusti;
ed ogni germoglio anelava
l’Eterno, la Morte, il Dolore;
e pur nel tripudio del mondo,
un cuore schiantava d’amore.

I tempi che in giovine ardenza
Dio stesso, agli umani svelato,
la vita sua dolce immolava,
persino in straziata paura
soffrendo la morte amorosa,
per esserci in tutto fratello.

Vediamo, con ansia struggente,
ravvolger la Notte i Beati.
L’arsura implacata non trova
piú in terra la provvida fonte.
Lassú nella casa paterna
saliamo a cercarla, — dov’è.

Che cosa il ritorno ci attarda?
Riposan, da tempo, i piú cari;
e i loro sepolcri son fine
al nostro terreno patire.
Piú nulla qui resta: ché sazio
sta il cuore nel mondo deserto.

Mistero infinito, ogni vena
un brivido ebbro c’inonda.
Avverto sonar, dagli spazii,
un’eco del nostro tormento.
Struggendosi anch’essi, i Beati,
ci mandan dogliosi sospiri.

La sposa soave, la terra,
mi accolga, mi accolga Gesú!
Fa’ cuore! Già ingrigia il crepuscolo
per l’anime amanti e dolenti.
Un sogno dai ceppi ne scioglie,
ci affonda nel grembo di Dio.

Novalis

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Inni alla notte”, riduzione in versi italiani e introduzione di Vincenzo Errante, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1942

Esemplare N.759

∗∗∗

Die sechste Hymne an die Nacht

Hinunter in der Erde Schoss,
Weg aus des Lichtes Reichen,
Der Schmerzen Wut und wilder Stoss
Ist froher Abfahrt Zeichen.
Wir kommen in dem engen Kahn
Geschwind am Himmelsufer an.

Gelobt sei uns die ewge Nacht,
Gelobt der ewge Schlummer.
Wohl hat der Tag uns warm gemacht,
Und welk der lange Kummer.
Die Lust der Fremde ging uns aus,
Zum Vater wollen wir nach Haus.

Was sollen wir auf dieser Welt
Mit unsrer Lieb’ und Treue.
Das Alte wird hintangestellt,
Was soll uns dann das Neue.
0 ! einsam steht und tief betrübt
Wer heiss und fromm die Vorzeit liebt.

Die Vorzeit, wo die Sinne licht
In hohen Flammen brannten,
Des Vaters Hand und Angesicht
Die Menschen noch erkannten.
Und hohen Sinns, einfältiglich
Noch mancher seinem Urbild glich.

Die Vorzeit, wo noch blütenreich
Uralte Stämme prangten,
Und Kinder für das Himmelreich
Nach Qual und Tod verlangten.
Und wenn auch Lust und Leben sprach,
Doch manches Herz für Liebe brach.

Die Vorzeit, wo in Jugendglut
Gott selbst sich kund gegeben
Und frühem Tod in Liebesmut
Geweiht sein süsses Leben.
Und Angst und Schmerz nicht von sich trieb,
Damit er uns nur teuer blieb.

Mit banger Sehnsucht sehn wir sie
In dunkle Nacht gehüllet;
In dieser Zeitlichkeit wird nie
Der heisse Durst gestillet.
Wir müssen nach der Heimat gehn,
Um diese heilge Zeit zu sehn.

Was hält noch unsre Rückkehr auf?
Die Liebsten ruhn schon lange.
Ihr Grab schliesst unsern Lebenslauf,
Nun wird uns weh und bange.
Zu suchen haben wir nichts mehr —
Das Herz ist satt — die Welt ist leer.

Unendlich und geheimnisvoll
Durchströmt uns süsser Schauer.
Mir däucht, aus tiefen Fernen scholl
Ein Echo unsrer Trauer.
Die Lieben sehnen sich wohl auch
Und sandten uns der Sehnsucht Hauch.

Hinunter zu der süssen Braut,
Zu Jesus, dem Geliebten.
Getrost, die Abenddämmrung graut
Den Liebenden, Betrübten.
Ein Traum bricht unsre Banden los
Und senkt uns in des Vaters Schoss.

Novalis

da “Hymnen an die Nacht”, Athenäum-Fassung, 1800

«Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere» – Cristina Campo

 

Ora rivoglio bianche tutte le mie lettere,
inaudito il mio nome, la mia grazia richiusa;
ch’io mi distenda sul quadrante dei giorni,
riconduca la vita a mezzanotte.

E la mia valle rosata dagli uliveti
e la città intricata dei miei amori
siano richiuse come breve palmo,
il mio palmo segnato da tutte le mie morti.

O Medio Oriente disteso dalla sua voce,
voglio destarmi sulla via di Damasco –
né mai lo sguardo aver levato a un cielo
altro dal suo, da tanta gioia in croce.

Cristina Campo

da “Passo d’addio”, “All’Insegna del pesce d’oro”, Scheiwiller, Milano, 1956

Storia di un giorno – Louise Glück

Immagine dal web

1.

Sono stata svegliata stamattina come al solito
dalle sottili lame di luce che passano attraverso le persiane
cosicché il mio primo pensiero fu che la natura della luce
era incompletezza —

Immaginavo la luce così com’era prima che le persiane la fermassero —
quanto frustrata dovesse essere, come una mente
offuscata da troppe droghe.

2.

Mi sono ritrovata subito
al mio tavolo angusto; alla mia destra,
i resti di un piccolo pasto.

Il linguaggio mi riempiva la testa, euforia selvaggia
alternata a profonda disperazione —

Ma se l’essenza del tempo è il cambiamento,
come può qualcosa diventare niente?
Questa è stata la domanda che mi sono posta.

3.

Per tutta la notte rimasi seduta al mio tavolo a meditare
finché la mia testa si fece così pesante e vuota
che sono stata costretta a sdraiarmi.
Ma non mi sono sdraiata. Invece, ho appoggiato la testa sulle braccia
che avevo incrociato davanti a me sul legno nudo.
Come una neonata in un nido, la mia testa
giaceva sulle mie braccia.

Era la stagione secca.
Ho sentito l’orologio suonare, tre, poi quattro –

A questo punto ho iniziato a camminare per la stanza
e poco dopo fuori per le strade
le cui curve e tornanti mi erano familiari
per altre notti come questa. Ho camminato torno torno
imitando istintivamente le lancette dell’orologio.
Le mie scarpe, quando guardavo in basso, erano ricoperte di polvere.

Ormai la luna e le stelle erano svanite.
Ma l’orologio brillava ancora nel campanile della chiesa —

4.

Così sono tornata a casa.
Sono rimasta a lungo
Sul pianerottolo dove finivano le scale,
rifiutandomi di aprire la porta.

Il sole stava sorgendo.
L’aria era diventata pesante,
non perché avesse maggiore sostanza
ma perché non c’era più niente da respirare.

Ho chiuso gli occhi.
Ero combattuta tra una struttura di opposizioni
e una struttura narrativa

5.

La stanza era come l’avevo lasciata.
C’era il letto nell’angolo.
C’era il tavolo sotto la finestra.

C’era la luce che sbatteva contro la finestra
finché non ho alzato le persiane
a quel punto si è redistribuita
come tremolio tra gli alberi ombrosi.

Louise Glück

(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
ALTRE POESIE DI LOUISE GLÜCK TRADOTTE DA MARCELLO COMITINI

∗∗∗

The story of a day

1.

I was awakened this morning as usual
by the narrow bars of light coming through the blinds
so that my first thought was that the nature of light
was incompleteness—

I pictured the light as it existed before the blinds stopped it—
how thwarted it must be, like a mind
dulled by too many drugs.

2.

I soon found myself
at my narrow table; to my right,
the remains of a small meal.

Language was filling my head, wild exhilaration
alternated with profound despair—

But if the essence of time is change,
how can anything become nothing?
This was the question I asked myself.

3.

Long into the night I sat brooding at my table
until my head was so heavy and empty
I was compelled to lie down.
But I did not lie down. Instead, I rested my head on my arms
which I had crossed in front of me on the bare wood.
Like a fledgling in a nest, my head
lay on my arms.

It was the dry season.
I heard the clock tolling, three, then four—

I began at this point to pace the room
and shortly afterward the streets outside
whose turns and windings were familiar to me
from nights like this. Around and around I walked,
instinctively imitating the hands of the clock.
My shoes, when I looked down, were covered with dust.

By now the moon and stars had faded.
But the clock was still glowing in the church tower—

4.

Thus I returned home.
I stood a long time
on the stoop where the stairs ended,
refusing to unlock the door.

The sun was rising.
The air had become heavy,
not because it had greater substance
but because there was nothing left to breathe.

I closed my eyes.
I was torn between a structure of oppositions
and a narrative structure—

5.

The room was as I left it.
There was the bed in the corner.
There was the table under the window.

There was the light battering itself against the window
until I raised the blinds
at which point it was redistributed
as flickering among the shade trees.

Louise Glück

da “Faithful and Virtuous Night”, Farrar, Straus and Giroux, 2014

«Ho dato gli occhi al buio» – Gëzim Hajdari

Dirk Wüstenhagen

 

Ho dato gli occhi al buio
per trovare la luce.

Ho donato il volto al giorno
per cercare la parola.

Ho versato la sete nell’abisso
per assetarmi di cielo.

Ho offerto le mani alle catene
per salvare il fuoco.

Gëzim Hajdari

da “Antologia della pioggia”, Edizioni Ensemble, Roma, 2018

∗∗∗

«Ia dhashë sytë errësirës»

Ia dhashë sytë errësirës
për të gjetur dritën.

Ia fala fytyrën ditës
për të kërkuar fjalën.

Ia dhurova etjen honit
për të pirë qiellin.

Ia sakrifikova duart zinxhirëve
për të shpëtuar ardhmërinë.

Gëzim Hajdari

da “Antologjia e shiut”, Naim Frashëri, Tirana, 1990

A una Madonna – Charles Baudelaire

Dipinto di Valeri Tsenov

 

LVII.

ex-voto di gusto spagnolo

Voglio innalzarti, o Madonna, mia amante,
un altare nascosto in fondo al mio sconforto
e scavare nell’angolo più buio del mio cuore,
lontano da desideri e da sguardi di scherno,
una nicchia smaltata d’oro e d’azzurro
in cui ti ergerai come Statua stupita.
Con cesellati versi, intrecciati di puro metallo
costellati abilmente di rime di cristallo,
tesserò per il tuo capo un’enorme Corona,
e dalla mia Gelosia, o mortale Madonna,
saprò modellarti un Mantello dal taglio
barbarico, pesante, foderato di sospetto,
rigido come una garitta, che chiude le tue grazie,
non orlato di Perle ma di tutte le mie Lacrime!
Per Abito avrai il mio Desiderio fremente,
il mio Desiderio sinuoso che s’innalza e si abbassa,
che dondola sulle cime, s’acquieta nelle valli,
ti riveste d’un bacio le membra bianche e rosa.
Del mio Rispetto per te farò due belle Scarpe
di raso per i tuoi piedi divini umiliati.
Imprigionandoli in un tenero abbraccio,
come stampo fedele ne serberanno l’orma.
Se non posso, malgrado l’arte mia diligente,
una Luna d’argento intagliare per sgabello,
metterò il Serpente che mi morde le viscere
sotto i tuoi talloni perché tu lo possa schiacciare,
Regina vittoriosa, redentrice feconda,
e beffare questo mostro gonfio d’odio e di sputi.
Vedrai i miei Pensieri, disposti come Ceri
all’altare fiorito della Regina delle Vergini,
costellare di riflessi l’azzurro del soffitto,
guardarti fissamente con pupille di fuoco.
E poiché tutto in me ti ama e ti ammira,
tutto si farà Mirra, Benzoino, Olibano, Incenso,
e senza sosta a te, vetta bianca e innevata,
in Vapore salirà il mio Spirito burrascoso.

Infine per completare il tuo ruolo di Maria
e mescolare insieme l’amore e la barbarie,
nera voluttà! dai sette Peccati capitali,
io carnefice pieno di rimorsi, forgerò ben affilati
sette Coltelli e come un giocoliere insensibile,
prendendo a bersaglio il più profondo del tuo amore
tutti li pianterò nel tuo Cuore palpitante,
nel tuo Cuore che singhiozza, nel tuo Cuore grondante!

Charles Baudelaire

(Traduzione di Marcello Comitini)

da “Spleen e Ideale”, in “I fiori del male 1857-1861”, Edizioni Caffè Tergeste, Roma, 2017

I fiori del male 1857-1861, Edizioni Caffè Tergeste, Roma, 2017

***

LVII. À une Madone

Ex-voto dans le goût espagnol

Je veux bâtir pour toi, Madone, ma maîtresse,
Un autel souterrain au fond de ma détresse,
Et creuser dans le coin le plus noir de mon cœur,
Loin du désir mondain et du regard moqueur,
Une niche, d’azur et d’or tout émaillée,
Où tu te dresseras, Statue émerveillée.
Avec mes Vers polis, treillis d’un pur métal
Savamment constellé de rimes de cristal,
Je ferai pour ta tête une énorme Couronne;
Et dans ma Jalousie, ô mortelle Madone,
Je saurai te tailler un Manteau, de façon
Barbare, roide et lourd, et doublé de soupçon,
Qui, comme une guérite, enfermera tes charmes;
Non de Perles brodé, mais de toutes mes Larmes!
Ta Robe, ce sera mon Désir, frémissant,
Onduleux, mon Désir qui monte et qui descend,
Aux pointes se balance, aux vallons se repose,
Et revêt d’un baiser tout ton corps blanc et rose.
Je te ferai de mon Respect de beaux Souliers
De satin, par tes pieds divins humiliés,
Qui, les emprisonnant dans une molle étreinte,
Comme un moule fidèle en garderont l’empreinte.
Si je ne puis, malgré tout mon art diligent,
Pour Marchepied tailler une Lune d’argent,
Je mettrai le Serpent qui me mord les entrailles
Sous tes talons, afin que tu foules et railles,
Reine victorieuse et féconde en rachats,
Ce monstre tout gonflé de haine et de crachats.
Tu verras mes Pensers, rangés comme les Cierges
Devant l’autel fleuri de la Reine des Vierges,
Étoilant de reflets le plafond peint en bleu,
Te regarder toujours avec des yeux de feu;
Et comme tout en moi te chérit et t’admire,
Tout se fera Benjoin, Encens, Oliban, Myrrhe,
Et sans cesse vers toi, sommet blanc et neigeux,
En Vapeurs montera mon Esprit orageux.

Enfin, pour compléter ton rôle de Marie,
Et pour mêler l’amour avec la barbarie,
Volupté noire! des sept Péchés capitaux,
Bourreau plein de remords, je ferai sept Couteaux
Bien affilés, et, comme un jongleur insensible,
Prenant le plus profond de ton amour pour cible,
Je les planterai tous dans ton Cœur pantelant,
Dans ton Cœur sanglotant, dans ton Cœur ruisselant!

Charles Baudelaire

da “Spleen et Idéal”, in “Les Fleurs du mal”, Paris, Auguste Poulet-Malassis et de Broise, 1861