Alfabeti – Seamus Heaney

Foto di Robert Doisneau

I

Un’ombra che suo padre fa a mani giunte
E con pollici e dita rosicchia sulla parete
Come una testa di coniglio. Lui capisce
Che capirà di più quando andrà a scuola.

Là disegna fumo col gesso la prima settimana,
Poi disegna il bastoncino a forca che chiamano Y.
Questo è scrivere. Collo e dorso di un cigno
Fanno un 2 che ora lui sa vedere e anche dire.

Due travi e una traversina sulla lavagna
Sono la lettera che uno chiama a, e un altro ei.
Ci sono cartelloni, ci sono parole guida, un modo
Giusto di tenere la penna e un modo sbagliato.

Prima c’è da «ricopiare», e poi c’è l’«inglese»
Segnato giusto con una piccola zappa storta.
Odore d’inchiostro sale nel silenzio della classe.
Il globo alla finestra pende come un’O colorata.

II

Declinazioni cantate in aria come un hosanna
Mentre, stratificate, colonne dopo colonne,
Libro Primo degli Elementa latina,
In lui si elevano marmoree e minacciose.

Perché è stato allevato poi a una più severa scuola
Intitolata al santo patrono del bosco di querce
Dove al cambio di lezione squillava una campana
E lui lasciò il foro latino per l’ombra

Di una nuova calligrafia dove si sentiva a casa.
Erano alberi le lettere di quell’alfabeto.
Le maiuscole erano frutteti in pieno fiore,
Le righe di scrittura come rotoli di rovi nei fossi.

Qui nella sua veste ornata di nastri e a piedi nudi,
Tutta boccoli di assonanze e note boscherecce
Sogno di poeta lo passava furtiva come raggio di sole
E poi si introduceva nei tenebrosi intrichi.

E lui impara quest’altra scrittura. È lo scriba
Che nel suo campo bianco guidò un giogo di penne.
Alla porta della sua cella saettano e sfiorano i merli.
Poi l’automortificazione, il digiuno, il puro freddo.

Con regola più dura più lontano si spingeva a nord
Si piega sopra lo scrittoio e ricomincia.
La falce di Cristo è passata nella sterpaglia.
La scrittura diventa nuda e merovingia.

III

Ruotato il globo. È ritto in una O di legno.
Lui allude a Shakespeare. Lui allude a Graves.
Il tempo ha cacciato la scuola e la finestra di scuola.
Macchine sfornano balle come stampe dove covoni puntellati

Disegnavano lambda sulle stoppie al tempo del raccolto
E la faccia a delta di tutte le buche delle patate
Era spianata e coperta di terriccio contro il gelo.
Tutto è andato, con l’omega che faceva la guardia
Sopra ogni porta, il ferro di cavallo della fortuna.
Eppure, linguaggio in forma di note, assoluto nell’aria
Come le lettere di Costantino in cielo IN HOC SIGNO
Ancora ha signoria su di lui; oppure il negromante

Che appendeva alla volta del soffitto di casa sua
Una figura del mondo con i colori dentro
Così che la figura dell’universo
E «non solo singole cose» incontrassero il suo sguardo

Quando usciva all’aperto. Come dalla finestrella
L’astronauta vede tutto quello donde è scattato,
Quella sospesa, acquea, singolare, O lucente
Come un ovulo ingrandito e galleggiante –

O come i miei occhi pre-consapevolmente sgranati
Ansiosamente fissi sull’intonacatore sulla scala
Mentre pareggiava il timpano e scriveva il nostro nome
Con la punta della cazzuola, lettera dopo lettera strana.

Seamus Heaney

(Traduzione di Francesca Romana Paci)

da “La lanterna di biancospino”, Guanda, Parma, 1999

∗∗∗

Alphabets

I

A shadow his father makes with joined hands
And thumbs and fingers nibbles on the wall
Like a rabbit’s head. He understands
He will understand more when he goes to school.

There he draws smoke with chalk the whole first week,
Then draws the forked stick that they call a Y.
This is writing. A swan’s neck and swan’s back
Make the 2 he can see now as well as say.

Two rafters and a cross-tie on the slate
Are the letter some call ah, some call ay.
There are charts, there are headlines, there is a right
Way to hold the pen and a wrong way.

First it is ‘copying out’, and then ‘English’
Marked correct with a little leaning hoe.
Smells of inkwells rise in the classroom hush.
A globe in the window tilts like a coloured O.

II

Declensions sang on air like a hosanna
As, column after stratified column,
Book One of Elementa Latina,
Marbled and minatory, rose up in him.

For he was fostered next in a stricter school
Named for the patron saint of the oak wood
Where classes switched to the pealing of a bell
And he left the Latin forum for the shade

Of new calligraphy that felt like home.
The letters of this alphabet were trees.
The capitals were orchards in full bloom,
The lines of script like briars coiled in ditches.

Here in her snooded garment and bare feet,
All ringleted in assonance and woodnotes,
The poet’s dream stole over him like sunlight
And passed into the tenebrous thickets.

He learns this other writing. He is the scribe
Who drove a team of quills on his white field.
Round his cell door the blackbirds dart and dab.
Then self-denial, fasting, the pure cold.

By rules that hardened the farther they reached north
He bends to his desk and begins again.
Christ’s sickle has been in the undergrowth.
The script grows bare and Merovingian.

III

The globe has spun. He stands in a wooden O.
He alludes to Shakespeare. He alludes to Graves.
Time has bulldozed the school and school window.
Balers drop bales like printouts where stooked sheaves

Made lambdas on the stubble once at harvest
And the delta face of each potato pit
Was patted straight and moulded against frost.
All gone, with the omega that kept

Watch above each door, the good luck horse-shoe.
Yet shape-note language, absolute on air
As Constantine’s sky-lettered IN HOC SIGNO
Can still command him; or the necromancer

Who would hang from the domed ceiling of his house
A figure of the world with colours in it
So that the figure of the universe
And ‘not just single things’ would meet his sight

When he walked abroad. As from his small window
The astronaut sees all he has sprung from,
The risen, aqueous, singular, lucent O
Like a magnified and buoyant ovum –

Or like my own wide pre-reflective stare
All agog at the plasterer on his ladder
Skimming our gable and writing our name there
With his trowel point, letter by strange letter.

Seamus Heaney

da “The Haw Lantern”, Faber and Faber Limited, London, 1987

«È tardi per i sogni, spunta l’alba» – Angelo Maria Ripellino

Řevnice

 

È tardi per i sogni, spunta l’alba,
si spegne il gocciolìo della fontana;
come su un flauto l’acqua si lamenta,
ora che il freddo la muta in cristallo.
Ritorno oggi dinanzi alla capanna.
Le lanterne cinesi erano buffe,
come cilindri ammaccati da un grassone,
la notte che leggemmo «Rudoarmějci».
E alle ore quattro, coi piedi nell’erba,
correva il treno dalla gola roca
sul terrapieno bianco di rugiada.
Lunga notte e frescura del fiume
e scintillìo di stelle su Řevnice,
uccelli pigri, erba gelosa, amore.

Angelo Maria Ripellino

da “Versi inediti e rari”, in “Poesie prime e ultime”, Torino, Aragno, 2006

Ms., datato listopav [novembre] 1947. In «Idra», n. 1, 1990, p. 114

da «Ogni giorno, dal cielo alla notte» – Pierluigi Cappello

Foto di Danilo De Marco

Cassacco, anno zero

[…]

Certi giorni sono dei nodi. Capaci di contenere forze lanciate in direzioni opposte. Pariglie di cavalli in corsa l’una verso la luce, l’altra verso le tenebre. Dentro il loro scorrere lungo le ore c’è la violenza del fulmine e la ferita del tronco fulminato, aperto in due metà. Il 17 novembre dell’anno scorso è stato uno di quei giorni. Eppure tutto si era aperto in un modo quasi sereno, nonostante il profilo obliquo della montagna fosse scuro di pioggia, il risveglio brusco come sempre e dall’asta di alluminio pendesse il tubicino diretto in vena a nutrirmi di antibiotici. Sì, nonostante la testa opaca, il 17 novembre avrebbe dovuto essere una data da cerchiare sul calendario. Dopo sei anni di caccia, in tutte le librerie era in uscita la mia ultima raccolta di versi. Un libro appena nato ha i piedini di un rosa quasi trasparente, le dita delle mani sono lance che segnano il futuro, portano le fossette al posto delle nocche. Ogni parola trova concretezza nel suo nascere inerme e senza riparo, perché la poesia è il silenzio che si fa lettera e precipita sulle pagine, è la lettera che coglie la sfuggente occasione di dare un ordine, fosse pure precario, a una parte, fosse pure minuscola, dell’universo. E, dentro questo ordine, uomini come me, che, con tutta l’ingenuità a loro disposizione, rincorrono la corsa di quei suoni, possono dire: ho fatto quel che sono, per un istante ho fatto quel che sono. Un uomo. Allora, momenti così fragili andrebbero festeggiati puntando i calici dritti contro il cielo, magari anche con un po’ di solennità e un ben custodito sussulto di commozione. Il mio brindisi l’ho celebrato chiudendo gli occhi, malgrado il gracchiare dei campanelli attivati in corsia, lo scorrere cavo di un letto trasportato chissà dove al piano superiore e la controllata agitazione del reparto in piena attività, ho immaginato le parole inseguite per anni farsi figura concreta nei corrieri bagnati dalla pioggia che entravano, forse in quel momento, nelle librerie. E uno dei corrieri avrebbe aperto una porta, lasciando dietro di sé lo zuppo e la congestione della città, avrebbe armeggiato con il carrello, tenendo a bada il bilico del carico salvato dalla pioggia e poi avrebbe incontrato, senza farsene toccare, la quiete e la soffusa sicurezza che danno, a chi le ama, pareti e scaffalature gremite di libri. Avrebbe fatto firmare delle bolle di accompagnamento, preso nuovi accordi; uscendo si sarebbe riunito al maltempo e fra gli schizzi degli pneumatici avrebbe raggiunto l’umidità del suo furgoncino, ma dentro quella quiete appena lasciata, dentro quella libreria, dentro quegli scatoloni, il mio libro avrebbe levato i suoi primi vagiti, avrebbe aperto gli occhi per la prima volta, liberato dal buio. E allora, per sopramercato e perché fantasticare dicono non costi niente, ho pensato anche che non ero io ad avere compiuto qualcosa, ma che ero stato portato a compimento. Il brindisi si era da poco concluso su queste note, quando due infermiere in uniforme azzurrina vennero a prelevarmi e mi portarono in radiologia.

[…]

Pierluigi Cappello

da “Ogni giorno, dal cielo alla notte”, in “Un prato in pendio”, Rizzoli, 2018

«Un uccello vola, cade una piuma» – Cees Nooteboom

Roberto Nespola, Parco della Caffarella, Roma, marzo 2019

12.

Un uccello vola, cade una piuma.
Evento, la bilancia dell’universo
si inclina. Un pesce continua a nuotare,
l’acqua si increspa, cos’è ora l’equilibrio

del mondo? La scala è sulla
bilancia, non sul mondo, la domanda
si moltiplica. Ognuno è se stesso
prima di pensare.

Ma, e poi? Le poesie non devono avere
punti interrogativi, devono domare
la follia, non negarla, devono
evocare la loro forma da pensieri vuoti

fino a convertirsi in essi.

Cees Nooteboom

(Traduzione di Fulvio Ferrari)

da “L’occhio del monaco”, Einaudi, Torino, 2019

∗∗∗

12.

Een vogel vliegt, er valt een veer.
Gebeurtenis, de weegschaal van het heelal
kiept om. Een vis zwemt verder,
het water rimpelt, wat is nu de balans

van de wereld? Het merk staat op de
weegschaal, niet op de wereld, de vraag
wordt vermeerderd. Iedereen is zichzelf
voor hij denkt.

Maar dan? Gedichten moeten zonder
vraagteken, ze moeten de waanzin
temmen, niet ontkennen, ze moeten
hun vorm betoveren uit lege gedachtes

tot ze die zijn.

Cees Nooteboom

da “Monniksoog”, Karaat, 2016 

Allegramente – Jiří Orten

a Lída Matouškova

Non è successo niente. Tu, Dio, m’hai perduto,
che non devi sognare perché hai tutto.
Ingenuo, stupido Lot, che non si era voltato!
Coraggio che ha coraggio da sé si taglia il sudario.

Sono un po’ stanco. Cercami finché posso
ancora esser trovato, come la cosa che cresce
nel circolo, nel cerchio degli infiniti vertici,
come un letto che è assurdo (perché Procuste non c’è).

Perché non c’è Procuste. Tutto questo è esistito
forse, ma non piú ora! (In cielo dimora il non essere?)
Il matto tarlo si trapana nella sua opera
dall’altra parte, fuori; sarà già oltre la bibbia.

Non la mia morte, ma dico uno stupore che si spegne,
dico solo una pietra, greve sulla parola,
pietra di tomba, pietra come tante,
che si sgretola e muore, a essere pronunziata.

Allegramente siamo stati pronunziati.
Suonare, sussurrare, tacere, tremare – ma a dove?
L’andare è morto. Morta la meta. Solo uno scimmiottare
vive, che ormai da tanto ci sa a memoria.

Oh, non dico di me, ma dico un futuro di ruderi
che si seppelliranno. E notte che si fa giorno.
Dico il braccio di Dio, ormai diventato una frusta.
Dico la sua salvezza, di cui restiamo incerti.

Jiří Orten

5.1.1940.

(Traduzione di Giovanni Giudici e Vladimír Mikeš)

da “La cosa chiamata poesia”, Einaudi, Torino, 1969

∗∗∗

Vesele, vesele    

                                                                                Lídě Matouškové

Nic nestalo se přec. Ty jsi mne, Bože, ztratil,
ty, který nesmíš snít, protože všechno máš.
Bláhový, směšný Lot, který se neobrátil!
Odvážná odvaha si stříhá na rubáš.

Jsem trochu znavený. Hledej mne, dokud mohu
být ještě nalezen, jak to, co zarůstá
do kola, do kruhu, který má plno rohů,
jak lože bez smyslu (neb není Prokrusta).

Neb není Prokrusta! To všechno možná bylo
a není, není již! (Co není, v nebi dlí? )
Ztřeštěný červotoč si navrtává dílo
na druhou stranu, ven; už bude za biblí!

Ó nejde o mou smrt. Jde o úžas, jenž hyne,
jde jenom o kámen, jenž těžkne nad slovem,
o kámen náhrobní, o kámen jako jiné,
který se rozpadá a mře, byv vysloven.

Vesele, vesele jsme byli vysloveni.
Kam znít? Kam šeptati? Kam zmlknout? Kam se chvět?
Směr mrtev. Mrtev cíl. Žije jen opičení
a to nás dovede už dávno nazpamět.

Ó nejde o mne přec. Jde o budoucnost trosek,
jež sebe zasypou. Jde o noc, co se dní.
O ruku Boží jde, jež přešla do rákosek
O jeho spásu jde, nad níž jsme bezradni.

Jiří Orten

da “Deníky Jiřího Ortena”, Československý spisovatel, Praha, 1958