Notte – Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

 

Alto eucalipto e ampia luna.
Una stella trasale nell’acqua.
Cielo bianco, argentato.
Pietre, pietre scorticate fino in cima.
Accanto, nel basso fondale, si udì
il secondo, il terzo salto di un pesce.
Immensa, estatica orfanezza – libertà.

Ghiannis Ritsos

(Traduzione di Nicola Crocetti)

(1968; da Pietre Ripetizioni Sbarre,1972: Pietre)

da “Pietre Ripetizioni Sbarre”, Crocetti Editore, 2020

∗∗∗

Νύχτα

Ψηλός εὐϰάλυπτος μ’ ἕνα φαρδύ φεγγάρι.
Ἕνα ἄστρο τρέμει στό νερό.
Οὐρανός ἄσπρος, ἀσημένιος.
Πέτρες, γδαρμένες πέτρες ὣς ἐπάνω.
Ἀϰούστηϰε πλάι στά ρηχά
δεύτερο, τρίτο πήδημα ψαριοῦ.
Ἐϰστατιϰή, μεγάλη ὀρφάνια – ἐλευθερία.

Γιάννης Ρίτσος

1968

da “Πέτρες Ἐπαναλήψεις Κιγκλίδρωμα”, 1972: ‘Πέτρες’

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Prefazione di Louis Aragon a Pietre Ripetizioni Sbarre, 1971
Grèce, ô mère des arts! terre d’idolâtrie,
De mes vœux insensés éternelle patrie…
ALFRED DE MUSSET, Les Vœux stériles
     Forse ho raggiunto l’età in cui gli occhi si sono inariditi per sempre, come fiori secchi schiacciati tra le pagine di un libro. Forse ho dimenticato… ma credo che mai dei versi, per quanto belli, per quanto commoventi fossero, mi abbiano fatto piangere. Senza dubbio, ero più sensibile alla bellezza delle parole, al gioco sonoro, che non all’emozione provata, alla tragedia dei termini. Mi è capitato in una occasione, è vero, anche se non è di questo che intendo parlare: ne fu responsabile una poesia di André Breton, e non la prima volta che la ebbi sotto gli occhi, ma nel rileggerla in seguito, quando io e il suo autore eravamo già divisi l’uno dall’altro come le foglie di uno stesso albero strappate dalla violenza del vento esterno. Si intitolava L’Union libre, e ripeto che non è di questo che voglio parlare.
Più di vent’anni fa, dunque, mi portarono, tradotti dal greco, i versi di un poeta che non conoscevo affatto: dovevo correggere il francese della traduzione. Tutt’a un tratto quella poesia mi fece venire un nodo alla gola, e lo strano fu che in seguito, quasi ogni volta che mi toccò rivedere i versi più o meno ben tradotti di questo sconosciuto, mi sono sempre sentito, come la prima volta, incapace di padroneggiare i miei occhi, di trattenere le lacrime. Ai tempi di quella prima volta Ghiannis Ritsos, di cui non sapevo nulla, era deportato nelle isole, o in prigione da qualche parte, ma, che mi crediate o no, io l’avevo dimenticato… non era per questa ragione, ve lo giuro, non era per questa ragione! Quante volte in seguito la cosa si è ripetuta? È come se questo poeta possedesse il segreto della mia anima, come se lui solo sapesse, lui solo, capite, turbarmi in questo modo. Ignoravo inoltre che fosse il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro; giuro che non lo sapevo. L’ho appreso a tappe, andando da una poesia all’altra, stavo per dire da un segreto all’altro, perché ogni volta era il turbamento di una rivelazione quello che provavo. La rivelazione di un uomo, e quella di un Paese, le profondità di un uomo, e quelle di un Paese.
La Grecia, a noi francesi, fa battere il cuore da centocinquant’anni, e cioè dalla proclamazione della sua indipendenza, e i poeti di casa nostra, dai tempi delle Orientales, l’hanno sognata come la sognano oggi, oggi che da essa ci giungono, malgrado tutto, le voci della libertà. E senza dubbio non siamo soli: era forse solo Victor Hugo quando c’era Byron, e c’era stato Hölderlin? Ma senza dubbio il nostro amore era straniero, udiva solo il sibilo dei proiettili, si nutriva ancora soltanto dell’antica lezione dei sogni ellenici, del canto dei nomi degli dèi frammisti a quelli degli eroi, e sì, da gran tempo il nostro orecchio era ebbro dei nomi sacri di epoche trascorse, e come avremmo potuto intendere il canto greco se non identificandolo con quello di cui si erano nutrite le nostre infanzie:
La figlia di Minosse e di Pasifàe…
     E non bisogna trascurare nulla, né la traduzione di Racine, né l’ebbrezza dei nomi nei versi di André Chénier… Ma oggi il mondo è cambiato, e anche i sogni. Ho imparato più da voi, fratelli ora vicini, dai vostri cantori, che non dal grido possente dei nostri aedi giunto attraverso i secoli. Ma da nessuno ho imparato come da Ritsos, perché lui è tutta la vita di un popolo, e il suo canto, i suoi dolori.
L’arte di Ritsos va oltre le definizioni: dalle grandi poesie che negli anni Cinquanta gli valsero – era da poco uscito da un campo di concentramento – il Gran premio nazionale greco di poesia, fino a questi brevi singhiozzi degli ultimi tempi, il genere di versi che si può scrivere usando le ginocchia come tavolo nelle isole, quando queste isole si chiamano Makrònissos, Ghiaros, Leros…
Ognuno vi troverà il proprio cuore e la propria piaga. Ricordo quella poesia straordinaria sui ciprioti in lotta contro gli occupanti inglesi, un patriota nascosto in una caverna dove finirà per morire affumicato, bruciato, le parole dell’ultimo momento che l’eroe non ha potuto pronunciare, ma che hanno così poco a che fare, per la loro stessa grandezza, con la letteratura eroica… come sempre, in Ritsos, dove il patetico è nella semplicità delle cose… ma non la preferisco certo, per esempio, a La Sonata al chiaro di luna, che è soltanto il sussurro di un’esistenza comune; e poi ci sono tutte le poesie che parlano di una casa, di un essere umano di cui non c’è altro da raccontare che la vita. Come sono orgoglioso di averle conosciute un po’ prima di tutti gli altri, da un capo all’altro dell’Europa, come se il dio-toro me le avesse portate sulla sua schiena possente! Sono qui, davanti ai pochi libri di suoi versi pubblicati in questo Paese, e attraverso i quali altri Paesi hanno saputo che c’è ancora in Grecia un canto nato per durare secoli… sono qui, davanti a questi pezzi di carta, a questi manoscritti, a queste lettere, come se non esistesse niente di più prezioso al mondo, come se la scrittura trasparente e pura, che sembra smentire sempre l’impassibilità del volto, la bellezza delle statue, non fosse velata dal gocciare delle lacrime. A una a una. Senza clamore. Come una lunga, ammirevole modulazione del silenzio…
     In questi ultimi anni abbiamo provato paura, un’orribile paura per lui, per Ritsos, che io ho forse il diritto, pur senza averlo mai conosciuto, di chiamare mio amico, così come ci vantiamo, così come ci permettiamo di amare un fratello sconosciuto che abbiamo solo sentito, qualche volta, passare cantando nella notte. Le poesie di questo periodo sono raccolte in questo libro, al quale non altro titolo si è voluto dare che la giustapposizione dei titoli delle tre parti che lo compongono: Pietre Ripetizioni Sbarre… In quest’ultima, a mio avviso, più che mai prima il canto di Ritsos è stato colto nella sua essenza originaria, e più che mai trasferito nella nostra essenza, nel nostro canto. Dalla Francia abbiamo lanciato un appello, con voce più alta forse e più forte di quelle levatesi da altri Paesi, associando nell’invocazione ai nostri i nomi di un Arthur Rubinstein e di un Rostropovič. In questo momento Ritsos, deportato prima a Leros, e tenuto poi prigioniero a Samo nella casa di sua moglie, che è medico, è già stato trasportato ad Atene, come noi chiedevamo, per curarsi del male di cui soffre da molto tempo, ed è libero, o per lo meno libero di muoversi in quella città che gli è vietato lasciare, ma dove tuttavia può ricevere tutte le cure necessarie e salvarsi. È anche vero però che ogni sua poesia che ci giunge è un miracolo, e che noi temiamo che un giorno il tempo dei miracoli finisca. Il fatto che in Francia si sia ritenuto necessario pubblicare ogni poesia con il testo greco a fronte, che qui si sia voluto far dono ai lettori di questa musica per gli occhi, testimonia sia di un antico amore dei francesi per la Grecia, nostra sorella maggiore, per l’arte, il canto, la poesia di questo Paese, sia della grandezza di un poeta per merito del quale essa rimane, in tutte le vicissitudini dei tempi e delle sfortune umane, ciò che fu, che è, e che saremo insieme.
     Bisognerebbe considerare il triplice titolo: Pietre Ripetizioni Sbarre per potersi fare un’idea dei due anni di creazione in condizioni singolari, così come si apre una porta dopo l’altra sul segreto delle camere di una stessa casa. Pietre… ossessione delle statue morte, dei pavimenti, delle colonne spezzate. Io lo intendo così, questo silenzio in cui l’erba cresce e diventa secca, ma più come un silenzio di uomini che di rovine. Una vita al di là della vita, come quella di colui che sarei troppo crudele con me stesso a riconoscere:
prima di dormire e al risveglio, continuava
regolarmente a lavarsi i denti col vecchio spazzolino spelacchiato.
     Oh, nulla è più terribile a dirsi, e ben presto noi non saremo nemmeno queste pietre, queste macerie di ciò che fummo. Viene ora la seconda stazione della Via Crucis, la lunga tappa nella quale i passi sono chiamati Ripetizioni, e di cui sento perfettamente l’eco prodotta nel salire; voglio anzi dire di che cosa sono l’eco: dell’altra Grecia, di quella antica, dove tutto diventa amara immagine del presente, anche se noi (dice lui) non siamo prole divina, ma figli di mortali:
Non ci sentiamo affatto
inferiori, non abbassiamo gli occhi. Nostre uniche pergamene
tre parole: Makrònissos, Ghiaros e Leros. E se maldestri
dovessero sembrarvi un giorno i nostri versi, ricordate solo che furono scritti
sotto il naso delle guardie, la baionetta puntata sempre alle costole.
     C’è bisogno di commentare queste parole, questa scusa per la fuga nel passato? Ho conosciuto tempi simili, in cui non avevamo l’aria di parlare della nostra vita, come contrabbandieri che (sotto il naso delle guardie) giudici presuntuosi disprezzavano senza accorgersi del cuore che batteva dietro le parole. Ripetizioni… il tempo è passato, non si avverte più il dolore, qui non si sente più battere neanche il cuore… ah. Allora viene la terza tappa, e bisogna ben mostrare le Sbarre perché domani, più tardi, si riconosca, dalle sbarre, la prigione.
Louis Aragon, Gallimard, Paris, 1971

Prefazione di Louis Aragon a Pietre Ripetizioni Sbarre, 1971

Grèce, ô mère des arts! terre d’idolâtrie,
De mes vœux insensés éternelle patrie…
ALFRED DE MUSSET, Les Vœux stériles


Forse ho raggiunto l’età in cui gli occhi si sono inariditi per sempre, come fiori secchi schiacciati tra le pagine di un libro. Forse ho dimenticato… ma credo che mai dei versi, per quanto belli, per quanto commoventi fossero, mi abbiano fatto piangere. Senza dubbio, ero più sensibile alla bellezza delle parole, al gioco sonoro, che non all’emozione provata, alla tragedia dei termini. Mi è capitato in una occasione, è vero, anche se non è di questo che intendo parlare: ne fu responsabile una poesia di André Breton, e non la prima volta che la ebbi sotto gli occhi, ma nel rileggerla in seguito, quando io e il suo autore eravamo già divisi l’uno dall’altro come le foglie di uno stesso albero strappate dalla violenza del vento esterno. Si intitolava
L’Union libree ripeto che non è di questo che voglio parlare.
Più di vent’anni fa, dunque, mi portarono, tradotti dal greco, i versi di un poeta che non conoscevo affatto: dovevo correggere il francese della traduzione. Tutt’a un tratto quella poesia mi fece venire un nodo alla gola, e lo strano fu che in seguito, quasi ogni volta che mi toccò rivedere i versi più o meno ben tradotti di questo sconosciuto, mi sono sempre sentito, come la prima volta, incapace di padroneggiare i miei occhi, di trattenere le lacrime. Ai tempi di quella prima volta Ghiannis Ritsos, di cui non sapevo nulla, era deportato nelle isole, o in prigione da qualche parte, ma, che mi crediate o no,
io l’avevo dimenticato… non era per questa ragione, ve lo giuro, non era per questa ragione! Quante volte in seguito la cosa si è ripetuta? È come se questo poeta possedesse il segreto della mia anima, come se lui solo sapesse, lui solo, capite, turbarmi in questo modo. Ignoravo inoltre che fosse il più grande poeta vivente di questo tempo che è il nostro; giuro che non lo sapevo. L’ho appreso a tappe, andando da una poesia all’altra, stavo per dire da un segreto all’altro, perché ogni volta era il turbamento di una rivelazione quello che provavo. La rivelazione di un uomo, e quella di un Paese, le profondità di un uomo, e quelle di un Paese.
La Grecia, a noi francesi, fa battere il cuore da centocinquant’anni, e cioè dalla proclamazione della sua indipendenza, e i poeti di casa nostra, dai tempi delle
Orientales, l’hanno sognata come la sognano oggi, oggi che da essa ci giungono, malgrado tutto, le voci della libertà. E senza dubbio non siamo soli: era forse solo Victor Hugo quando c’era Byron, e c’era stato Hölderlin? Ma senza dubbio il nostro amore era straniero, udiva solo il sibilo dei proiettili, si nutriva ancora soltanto dell’antica lezione dei sogni ellenici, del canto dei nomi degli dèi frammisti a quelli degli eroi, e sì, da gran tempo il nostro orecchio era ebbro dei nomi sacri di epoche trascorse, e come avremmo potuto intendere il canto greco se non identificandolo con quello di cui si erano nutrite le nostre infanzie:

La figlia di Minosse e di Pasifàe…

   E non bisogna trascurare nulla, né la traduzione di Racine, né l’ebbrezza dei nomi nei versi di André Chénier… Ma oggi il mondo è cambiato, e anche i sogni. Ho imparato più da voi, fratelli ora vicini, dai vostri cantori, che non dal grido possente dei nostri aedi giunto attraverso i secoli. Ma da nessuno ho imparato come da Ritsos, perché lui è tutta la vita di un popolo, e il suo canto, i suoi dolori.
L’arte di Ritsos va oltre le definizioni: dalle grandi poesie che negli anni Cinquanta gli valsero – era da poco uscito da un campo di concentramento – il Gran premio nazionale greco di poesia, fino a questi brevi singhiozzi degli ultimi tempi, il genere di versi che si può scrivere usando le ginocchia come tavolo nelle isole, quando queste isole si chiamano Makrònissos, Ghiaros, Leros…

   Ognuno vi troverà il proprio cuore e la propria piaga. Ricordo quella poesia straordinaria sui ciprioti in lotta contro gli occupanti inglesi, un patriota nascosto in una caverna dove finirà per morire affumicato, bruciato, le parole dell’ultimo momento che l’eroe non ha potuto pronunciare, ma che hanno così poco a che fare, per la loro stessa grandezza, con la letteratura eroica… come sempre, in Ritsos, dove il patetico è nella semplicità delle cose… ma non la preferisco certo, per esempio, a La Sonata al chiaro di luna, che è soltanto il sussurro di un’esistenza comune; e poi ci sono tutte le poesie che parlano di una casa, di un essere umano di cui non c’è altro da raccontare che la vita. Come sono orgoglioso di averle conosciute un po’ prima di tutti gli altri, da un capo all’altro dell’Europa, come se il dio-toro me le avesse portate sulla sua schiena possente! Sono qui, davanti ai pochi libri di suoi versi pubblicati in questo Paese, e attraverso i quali altri Paesi hanno saputo che c’è ancora in Grecia un canto nato per durare secoli… sono qui, davanti a questi pezzi di carta, a questi manoscritti, a queste lettere, come se non esistesse niente di più prezioso al mondo, come se la scrittura trasparente e pura, che sembra smentire sempre l’impassibilità del volto, la bellezza delle statue, non fosse velata dal gocciare delle lacrime. A una a una. Senza clamore. Come una lunga, ammirevole modulazione del silenzio…

   In questi ultimi anni abbiamo provato paura, un’orribile paura per lui, per Ritsos, che io ho forse il diritto, pur senza averlo mai conosciuto, di chiamare mio amico, così come ci vantiamo, così come ci permettiamo di amare un fratello sconosciuto che abbiamo solo sentito, qualche volta, passare cantando nella notte. Le poesie di questo periodo sono raccolte in questo libro, al quale non altro titolo si è voluto dare che la giustapposizione dei titoli delle tre parti che lo compongono: Pietre Ripetizioni Sbarre… In quest’ultima, a mio avviso, più che mai prima il canto di Ritsos è stato colto nella sua essenza originaria, e più che mai trasferito nella nostra essenza, nel nostro canto. Dalla Francia abbiamo lanciato un appello, con voce più alta forse e più forte di quelle levatesi da altri Paesi, associando nell’invocazione ai nostri i nomi di un Arthur Rubinstein e di un Rostropovič. In questo momento Ritsos, deportato prima a Leros, e tenuto poi prigioniero a Samo nella casa di sua moglie, che è medico, è già stato trasportato ad Atene, come noi chiedevamo, per curarsi del male di cui soffre da molto tempo, ed è libero, o per lo meno libero di muoversi in quella città che gli è vietato lasciare, ma dove tuttavia può ricevere tutte le cure necessarie e salvarsi. È anche vero però che ogni sua poesia che ci giunge è un miracolo, e che noi temiamo che un giorno il tempo dei miracoli finisca. Il fatto che in Francia si sia ritenuto necessario pubblicare ogni poesia con il testo greco a fronte, che qui si sia voluto far dono ai lettori di questa musica per gli occhi, testimonia sia di un antico amore dei francesi per la Grecia, nostra sorella maggiore, per l’arte, il canto, la poesia di questo Paese, sia della grandezza di un poeta per merito del quale essa rimane, in tutte le vicissitudini dei tempi e delle sfortune umane, ciò che fu, che è, e che saremo insieme.

   Bisognerebbe considerare il triplice titolo: Pietre Ripetizioni Sbarre per potersi fare un’idea dei due anni di creazione in condizioni singolari, così come si apre una porta dopo l’altra sul segreto delle camere di una stessa casa. Pietre… ossessione delle statue morte, dei pavimenti, delle colonne spezzate. Io lo intendo così, questo silenzio in cui l’erba cresce e diventa secca, ma più come un silenzio di uomini che di rovine. Una vita al di là della vita, come quella di colui che sarei troppo crudele con me stesso a riconoscere:

prima di dormire e al risveglio, continuava
regolarmente a lavarsi i denti col vecchio spazzolino spelacchiato.

   Oh, nulla è più terribile a dirsi, e ben presto noi non saremo nemmeno queste pietre, queste macerie di ciò che fummo. Viene ora la seconda stazione della Via Crucis, la lunga tappa nella quale i passi sono chiamati Ripetizioni, e di cui sento perfettamente l’eco prodotta nel salire; voglio anzi dire di che cosa sono l’eco: dell’altra Grecia, di quella antica, dove tutto diventa amara immagine del presente, anche se noi (dice lui) non siamo prole divina, ma figli di mortali:

Non ci sentiamo affatto
inferiori, non abbassiamo gli occhi. Nostre uniche pergamene
tre parole: Makrònissos, Ghiaros e Leros. E se maldestri
dovessero sembrarvi un giorno i nostri versi, ricordate solo che furono scritti
sotto il naso delle guardie, la baionetta puntata sempre alle costole.

   C’è bisogno di commentare queste parole, questa scusa per la fuga nel passato? Ho conosciuto tempi simili, in cui non avevamo l’aria di parlare della nostra vita, come contrabbandieri che (sotto il naso delle guardie) giudici presuntuosi disprezzavano senza accorgersi del cuore che batteva dietro le parole. Ripetizioni… il tempo è passato, non si avverte più il dolore, qui non si sente più battere neanche il cuore… ah. Allora viene la terza tappa, e bisogna ben mostrare le Sbarre perché domani, più tardi, si riconosca, dalle sbarre, la prigione.

Louis Aragon

© Per la prefazione di Louis Aragon, Gallimard, Paris 1971

da “Pietre Ripetizioni Sbarre”, Crocetti Editore, 2020

Titolo dell’opera originale: Πέτρες Eπαναλήψεις Kιγχλίδωμα © Ery Ritsou, 1970

Molto tardi nella notte, Postfazione di Chrisa Prokopaki

 

La poesia è
il negativo del silenzio.
Un giorno
nell’acido delle parole compare
il suo viso.
Nessuna lacrima negli occhi.
I tre diamanti
brillano immobili
confitti nel suo petto.
(GHIANNIS RITSOS, da Poesie di carta)

Un uomo si allontana lentamente, si congeda dal mondo – un mondo che sapeva scoprire ogni giorno, assorbire con tutti i suoi sensi, riscrivere daccapo. Prega le cose che gli parlino di nuovo, tenta di strappare loro qualcosa, un argomento di vita, di abbandonarsi alla consolante menzogna, di invertire la situazione. E poi, di nuovo, rifiuta le illusioni, obbedendo alla propria “inutile lucidità”. Getta nel fuoco a una a una tutte le maschere della consolazione che aveva cambiato nel corso della vita, quelle “maschere splendenti / che hanno nascosto visi disperati, hanno nascosto / le congiure del tempo, della morte”.
Indugia – una tregua con l’“Invisibile” che lo tallona. Ottiene ben poco: lo sguardo di una statua di gesso, di una “nuvoletta timida”, il riflesso di “un bicchiere di vetro solitario su un tavolino all’aperto”, ed è pronto a festeggiare la sua momentanea conquista. Ha imparato a inchiodare l’istantaneo, a consacrare l’effimero: “Dunque, rinviamo di nuovo; incoroniamo / sul vetro incrinato questa piccola farfalla”.
Ma le cose virano al grigio, si oscurano sempre più, rovinano in frantumi, gli amici partono anch’essi a uno a uno, i significati e le parole si svuotano, invecchiano. E quando qualcosa lo fa trasalire di nuovo in un gioioso mattino o negli abbaglianti “giardini meridiani” con i “bei corpi nudi, giovani, abbronzati”, sente di essere un “intruso” in “questa festa popolare”. Allora la bellezza diviene quanto di più doloroso. La vita ritorna con la primavera: “arrivi di turisti, di uccelli, di amori. / E io – disse –, / io parto, parto”. Esiste, nella sua semplicità, espressione più straziante di questa eterna querimonia umana?

“La tua prima parola e l’ultima / l’hanno detta l’amore e la rivoluzione. / Tutto il tuo silenzio l’ha detto la poesia”. Ma il binomio amore-rivoluzione non è più affatto scontato. I sogni che davano senso alla vita e alleviavano la pena della sorte individuale, anzi talvolta, nelle grandi ore, l’annullavano, giacché il loro bagliore rischiarava il futuro, queste visioni sono svanite. Il poeta ricorda quelli che “cantavano e ballavano davanti ai fucili”. Nella memoria delle “paure vinte” si augura di vincere anche il nemico attuale, quello silenzioso e invisibile: “Dunque, devono preparare il loro ultimo vestito / con calma e dignità, – scarpe nere, calze nere, / abito nero e un garofano rosso all’occhiello”.
Intanto, “Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie e i ricordi degli eroi”, dirà altrove. Per lui diventano ricordi tormentosi. Il passato si popola di spettri. “I perseguitati”, “braccati, hanno traversato molti deserti, molte paure, / hanno dormito in caverne ferine sentendo tutta notte i lupi”, nella speranza di una gloria. Infine, “è rimasta solo una maschera tutta d’oro, / e nessun viso dietro quella maschera”. Vengono poi quegli scalatori tornati, dopo la fallita ascensione, con una coperta lacera e un cappello rosso, mentre la bandiera della casa l’ha mangiata “il grande toro”. E di nuovo gli scalatori, che trasportano “il bel portabandiera / avvolto in una coperta rossa”. Ovunque questo rosso, a rimarcare lo sfacelo – così come le bandiere di un tempo, consunte, riposte “nelle grotte antiche” o nel baule “assieme ai vestiti di carnevale, senza naftalina; / li avranno mangiati le tarme”. (Che travestimenti, direbbe, che belle menzogne!) E ancora, i giornali, molti giornali, inutili, “li abbiamo letti / l’anno scorso e l’altr’anno e cinquant’anni fa, e forse / tra duecent’anni gli stessi leggeranno”. Praticamente inesistenti, dunque, anche le più remote prospettive.

Tutti i simboli, con la carica particolare che avevano nell’opera di Ritsos, crollano. Il dialogo con le sue poesie precedenti prosegue, a indicare la fine delle illusioni o la fine irrevocabile. A volte per mezzo del mito antico, così com’egli stesso lo aveva utilizzato: il cavallo di Troia, “cavo, / lo abitano scarafaggi e ragni; non inganna / più nemici né amici”. Elena si accinge a pettinarsi, “e lo specchio / era invecchiato molto, e i capelli le erano caduti”. Altrove, Elena è ritornata da anni, dice, a Sparta: “Ci ha lasciato qui / certi suoi pepli lisi e trasparenti, e alcune / boccette di profumo vuote, di cristallo. Con quelle cose / ci siamo ingannati a lungo con ricordi insistenti, / e abbiamo ingannato anche gli altri”. E, cosa più grave, è svanita anche Itaca, “e Penelope, davanti al suo telaio, / morta”.
Altre volte ancora, il poeta dialoga coi versi della sua personale mitologia. Fanno irruzione frammenti del prodigio che realizzavano i suoi decolli poetici o il risalto della sacra quotidianità. La scala, quella “che salirono le sette vecchie / e sotto le loro camicie da notte spuntarono ali segrete” (riferimento al suo corale
Le vecchie e il mare), ora è crollata al suolo, “diventa terra, diventa erba / la divorano formiche e vermi”. Lo commuove per un istante il ricordo dei mangiatori di patate (dell’omonimo quadro di Van Gogh, ch’egli “descrive” nella sua raccolta Segnali di fuoco), con i vapori che salivano dalle patate calde. “Eppure, sopra i vetri appannati, / tracciò con il dito / uno ZERO”.
I riferimenti di Ritsos ai propri testi hanno peso ideologico e interesse letterario. Ma ne acquistano uno maggiore se si constata che il poeta ha nutrito a tal punto con il suo sangue le creazioni della propria fantasia, che le tratta ormai come esseri viventi; le frequenta, saltando agevolmente da una realtà all’altra, così che i ricordi poetici si integrano nell’autobiografia. Esseri e cose li sente ora logorarsi insieme con le sue sensazioni, benché essi fossero gli unici che aveva creduto immortali. L’identificazione tra vita e opera, così come il distacco dell’una dall’altra, generano un conflitto drammatico e permanente.

“Le congiure del tempo, della morte”, un tema che percorre la sua poesia, si intrecciano quasi sempre o si trovano in un rapporto di analogia con le esperienze traumatiche delle lotte sociali e con le sorti della Sinistra. La vanità esistenziale riecheggia anche il destino di Sisifo della prassi storica. Nell’atmosfera asfittica della dittatura militare (1967-1974), la scomparsa di persone care, la morte che pareva incombere sullo stesso poeta, così come gli stridori assordanti nel campo socialista, completano l’incubo. La parola, talvolta severamente elegiaca, talaltra sarcastica, altre volte ancora stoicamente probativa, si sforza di ammansire il desiderio di rinuncia, di resistere alla disperazione.
Seguì allora, è vero, un periodo d’imprevista euforia e di grande fioritura poetica; una sorta di trasgressione dello spazio e del tempo, con opere visionarie come quelle che compongono la raccolta
Epinici. Un periodo segnato contemporaneamente dall’affrancamento personale nei confronti dei tabù sociali e ideologici; affrancamento che si manifesta in un’esplosione di sensualità e di panerotismo e in una certa licenziosità espressiva, in particolare nelle opere in prosa.
Ma queste ultime raccolte, scritte poco tempo dopo, attestano forse un’inversione di 180 gradi rispetto a quelle immediatamente precedenti, ma costituiscono nondimeno la prosecuzione di opere come
Quarta dimensione e delle sillogi di poesie brevi. Tratto distintivo comune è il carattere di confessione esplicita. Tutte queste poesie, nonostante le differenze formali e l’impiego alterno della prima e della terza persona singolare o plurale, possono intendersi come un unico poema diaristico in prima persona; un’opera intimistica, con le sue inflessioni e i cambi di registro, con gli impeti e le tensioni di un uomo che lotta corpo a corpo con la morte. E la cosa più sorprendente è proprio il contemporaneo e incessante rendiconto di questa lotta, con dolore controllato, “con calma e dignità”. Infine, cosa tutt’altro che semplice, la penna è ferma e non cede alle concessioni e alle facilità che relegherebbero in secondo piano l’emozione puramente estetica. Sentimento, riflessione e discorso, strettamente articolati, si flettono o resistono, lasciando intravedere attraverso i vuoti e le reticenze quanto di più oscuro.

Ma che cosa significano le ultime parole di un poeta, che, dopo aver oscillato per tanti anni tra un “sì” incerto e in ultima analisi confutabile, e un “no” che ora lo opprime e che pronuncia con un sentimento di colpa, cercando di nuovo una parola di consolazione, chiedendoci di perdonargli “quest’ultima tristezza”? Forse ci sorprendono ancora alcuni versi che davamo per scontati. Quando il poeta se ne sarà andato, “credo che resterà / un sorriso dolcissimo in questo mondo / che dirà incessantemente ‘sì’ e ancora ‘sì’ / a tutte le secolari speranze vanificate”.
Il poeta si congeda, lascia le sue ultime raccomandazioni, con la nobiltà e la segreta presunzione di chi ha sempre creduto che gli fosse stata affidata una missione preziosa. Ma la raccomandazione più preziosa è comunque la pratica stessa della parola, ch’egli esercita fino alla fine. La poesia, al di là dei rifiuti e delle affermazioni – anzi, attraverso di essi –, ha realmente detto tutto il suo silenzio. E ad essa ricorre anche ora, perfino quando dichiara la sua diffidenza, o quando definisce le poesie “sordomute”, quando constata che anch’esse invecchiano e muoiono. E torna di nuovo a “confidare” nella poesia, in questo
negativo del silenzio. La “poesia quotidiana”! Non abbiamo che da contare le poesie del tormentato biennio che precede l’aggravamento del suo stato di salute e la morte avvenuta nel novembre 1990 per verificare l’attaccamento sacrale di un uomo interamente votato alla poesia e per inchinarci davanti alla verità sancita da un suo gesto estremo, là, accanto alla bocca spalancata della sua tomba.
“Ricordatemi”, dice. La poesia “Come un epilogo” ci ricorda la raccomandazione di Brecht intitolata “Ai posteri”, poiché pone alla sua maniera il problema dell’etica dell’arte in tempi difficili. Ma nello stesso tempo compendia perfettamente l’apporto del poeta stesso all’arte. Vorrebbe partire – dice –
“ammirando e benedicendo questo mondo che lascio,
ammirando anche Colui che sale il colle nel tramonto dorato. Osservate:
Sulla manica sinistra ha una toppa quadrata purpurea.
Non si distingue chiaramente. Soprattutto quella volevo mostrarvi.
E forse soprattutto perciò varrà la pena che mi ricordiate”.

 La segnalazione delle cose più umili e insignificanti, di cui egli chiariva il senso indicandole come uniche. Questa inconcepibile moltitudine di istanti, di gesti minimi, di immagini e sensazioni fuggevoli che ha tesaurizzato per arricchire e abbellire la vita, per illuminare con il terrestre il celeste, con il dettaglio occulto le passioni e i desideri più segreti dell’uomo.
Che cosa possono dunque significare, sottolineare, le ultime parole del poeta? Forse la toppa quadrata purpurea sulla manica di Colui che sale il colle (con la sua croce, no?). Con una simile toppa purpurea sul suo vestito liso, liso dalle indicibili usure e smentite, è salito anche lui. E come il “Crocifisso esangue” (che d’altronde ha visto nello specchio), ha voluto sollevare da solo il peso della sofferenza, stringendo “avaramente nei pugni i suoi due chiodi”
“Ricordatemi”… Oh, sì. Finché gli uomini distingueranno quel bagliore nascosto nel vestito dei proscritti; ma anche finché “i tre diamanti” (quelli della nascita, dell’amore e della morte), che “brillano immobili” e che hanno illuminato la sua opera, governeranno il destino dell’uomo, la dignità di questa voce renderà più preziosa la nostra vita, e forse altrettanto degna la nostra morte.

Postfazione di Chrisa Prokopaki a «Ghiannis Ritsos, Molto tardi nella notte», Crocetti Editore, 2020

Come un epilogo – Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

 

Ricordatemi – disse. Ho percorso migliaia di chilometri
senza pane, senz’acqua, sopra pietre e spine,
per portarvi pane e acqua e rose. La bellezza
non l’ho mai tradita. Ho spartito equamente tutti i miei averi.
Non ho tenuto nulla per me. Poverissimo. Con un giglietto di campo
ho illuminato le nostre notti più feroci. Ricordatemi.
E perdonatemi quest’ultima tristezza: Vorrei
mietere ancora una volta con la falce sottile della luna
una spiga matura. Rimanere sulla soglia a guardare
masticando il grano, un chicco dopo l’altro, con gli incisivi
ammirando e benedicendo questo mondo che lascio,
ammirando anche Colui che sale il colle nel tramonto dorato. Osservate:
Sulla manica sinistra ha una toppa quadrata color porpora.
Non si distingue chiaramente. Soprattutto quella volevo mostrarvi.
E forse soprattutto perciò varrà la pena che mi ricordiate.

Ghiannis Ritsos

Karlòvasi, 30.VII.87

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “I negativi del silenzio”, 1987, in “Molto tardi nella notte”, Crocetti Editore, 2020

∗∗∗

Ἐπιλογιϰό

Νά μέ θυμόσαστε – εἶπε. Χιλιάδες χιλιόμετρα περπάτησα
χωρίς ψωμί, χωρίς νερό, πάνω σέ πέτρες ϰι ἀγϰάθια,
γιά νά σᾶς φέρω ψωμί ϰαί νερό ϰαί τριαντάφυλλα. Τήν ὀμορφιά
ποτές μου δέν τήν πρόδωσα. Ὅλο τό βιός μου τό μοίρασα δίϰαια.
Μερτιϰό ἐγώ δέν ϰράτησα. Πάμπτωχος. Μ’ ἕνα ϰρινάϰι τοῦ ἀγροῦ
τίς πιό ἄγριες νύχτες μοις φώτισα. Νά μέ θυμάστε.
Καί συχωρᾶτε μου αὐτή τήν τελευταία μου θλίψη: Θά ’θελα
ἁϰόμη μιά φορά μέ τό λεπτό δρεπανάϰι τοῦ φεγγαριοῦ νά θερίσω
ἕνα ὥριμο στάχυ. Νἀ σταθῶ στό ϰατώφλι, νά ϰοιτάω
ϰαί νά μασῶ σπυρί σπυρί τό στάρι μέ τά μπροστινά μου δόντια
θαυμάζοντας ϰι εὐλογώντας τοῦτον τόν ϰόσμο πού ἀφηνω,
θαυμάζοντας ϰι Ἐϰεῖνον πού ἀνεβαίνει τό λόφο στό πάγχρυσο λιόγερμα. Δέστε:
Στό ἀριστερό μανίϰι του ἔχει ἕνα πορφυρό τετράγωνo μπάλωμα. Αὐτό
δέν διαϰρίνεται πολύ ϰαθαρά. Κι ἤθελα αὐτό προπάντων νά σᾶς δείξω.
Κι ἴσως γι’ αὐτό προπάντων θ’ ἄξιζε νά μέ θυμάστε.

Γιάννης Ρίτσος

Καρλόβασι, 30.VII.87

da “Τά άρνητιϰα τñς σιωπñς”, 1987, in “Ἀργά, πολύ ἀργά μέσα στή νύχτα”, Κέδρος, 1991

Secondi, 82 – Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

82

Torniamo alle cose che abbandonammo,
a quelle che ci hanno abbandonato. Teniamo in mano
moltissime chiavi, che non aprono
né porte né cassetti né valigie –
le battiamo l’una sull’altra e sorridiamo
non avendo più nessuno da ingannare
tantomeno noi stessi.

Ghiannis Ritsos

Atene, 1.I.89

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Secondi”, 1988-1989, in “Molto tardi nella notte”, Crocetti Editore, 2020

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Δευτερόλεπτα

. 82 .

Ξαναγυρνᾶμε σ’ αὐτά πού ἐγϰαταλείψαμε,
σ’ ἐϰεῖνα πού μᾶς ἐγϰατέλειῴαν. Στά χέρια μας
ἕνα πλῆθος ϰλειδιά, πού δέν ἀνοίγουν
οὔτε πόρτα οὔτε συρτάρι οὔτε βαλίτσα –
χτυπᾶμε τό ’να στ’ ἄλλο ϰαί χαμογελᾶμε
μήν ἔχοντας πιά νά ξεγελάσουμε ϰανέναν
οὔτε τόν ἰδιο τόν ἑαυτό μοις.

Γιάννης Ρίτσος

                                Ἀθήνα, 1.Ι.89

da “Δευτερόλεπτα”, 1988-1989, in “Ἀργά, πολύ ἀργά μέσα στή νύχτα”, Κέδρος, 1991