Vecchiaia – Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

 

Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie.
Molti avevano preso parte a quella storia –
uomini, animali, bambini, fiumi, alberi,
ragazzi e ragazze con motociclette, due papere bianche,
il matto silenzioso con una cicca e una galletta;
ed era un mezzogiorno estivo d’oro e sventolavano
le piume della gallina sgozzata luccicando in aria,
e la zia Evanghelìa in cucina puliva le bamie,
e una grossa farfalla si posò sulla saliera.
Nessuno, proprio nessuno allora sapeva
che il transitorio passa nel mito. Alla stazione del treno
venne a sedersi su una panchina una vecchia vestita di nero
che teneva sul grembiule un cesto d’uova come se fosse
l’unica cosa che aveva al mondo. Si addormentò lì.
Qualcuno di passaggio le rubò il cesto. E cadde la notte.
Ah, sì, invecchiano anche le statue e le poesie e i ricordi degli eroi.

Ghiannis Ritsos

Karlòvasi, 23.VII.87

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “I negativi del silenzio”, 1987, in “Molto tardi nella notte”, Crocetti Editore, 2020

∗∗∗

Γηρατειά

Ἄναί, γερνᾶνε ϰαί τ’ ἀγάλματα ϰαί τά ποιήματα.
Πολλοί εἶχαν πάρει μέρος στήν ἱστορία ἐϰείνη –
ἄνθρωποι, ζῶα, παιδιά, ποτάμια, δέντρα,
ἀγόρια ϰαί ϰορίτσια μέ μοτοσιϰλὲτες, δυό ἄσπρες πάπιες,
ὁ σιωπηλός τρελός μ’ ἕνα άποτσίγαρο ϰι ἕνα παξιμάόι·
ϰι ἦταν τότε ἕνα χρυσό θερινό μεσημέρι ϰι ἀνεμίζαν
τά πούπουλα σφαγμένης ϰότας λάμποντας στόν ἀέρα,
ϰι ἡ θεία Εὐαγγελία στήν ϰουζίνα ϰαθάριζε μπάμιες,
ϰαί μιά μεγάλη πεταλούδα ϰάθησε στήν ἁλατιέρα.
Κανένας, μά ϰανένας δέν ἤξερε τότε
πώς τό παροδιϰό περνάει στό μύθο. Στό σταθμό τοῦ τραίνου
ἦρθε ϰαί ϰάθησε σ’ ἕνα παγϰάϰι μιά γερόντισσα μαυροφορούσα
ϰρατώντας στήν ποόιά της ἕνα ϰαλάθι αὐγά σά νά ’ταν
τό μόνο πράγμα πού ’χε στόν ϰόσμο. Ἐϰεῖ ἁποϰοιμήθη.
Κάποιος περαστιϰός τῆς πῆρε τό ϰαλάθι. Κι ἔπεσε ἡ νύχτα.
Ἄ, ναί, γερνᾶνε ϰαί τ’ ἀγάλματα ϰαί τά ποιήματα ϰι οἱ μνῆμες τῶν ἡρώων.

Γιάννης Ρίτσος

Καρλόβασι, 22.VII.87

da “Τά άρνητιϰα τñς σιωπñς”, 1987, in “Ἀργά, πολύ ἀργά μέσα στή νύχτα”, Κέδρος, 1991

Il Guardiano del faro – Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

 

(Crepuscolo. Una stanza pressoché spoglia sotto il faro, rischiarata dall’ultima luce del giorno e dal riflesso del mare. Sul fondo della stanza si vede l’apertura della scala interna a chiocciola, di marmo, che conduce alla lanterna. Si tratta di uno di quei vecchi fari con una grande lampada a petrolio, la cui rotazione è assicurata da un meccanismo rudimentale: un cavo d’acciaio, con un peso piuttosto massiccio all’estremità, si svolge lentamente mettendo in moto la lampada. Quando il peso arriva in fondo, naturalmente la rotazione della lampada si arresta. A questo punto il Guardiano del faro è costretto a vegliare tutta la notte, e quando il peso si avvicina alla base deve salire a «caricare» di nuovo il faro – cioè ad avvolgere il cavo d’acciaio, perché con il suo svolgimento possa proseguire la rotazione. Il Guardiano è un uomo robusto, di corporatura imponente, ma quasi impacciato e incerto, forse a causa del proprio vigore, che tenta di nascondere in un silenzio disciplinato, oppure, altre volte, con la tendenza – non sempre riuscita – a confidarsi, che è il tratto caratteristico dei deboli, cioè delle persone sensibili. Non lo si incontra mai in un caffè o al mercato della piccola cittadina costiera – che dista un quarto d’ora dal faro –, e nessuno sa dove si approvvigioni di cibo, dove viva, chi si prenda cura di lui. Non ha amici, conoscenti, moglie. Vive completamente solo. Oggi un suo vecchio conoscente, con una piccola valigia, è venuto da un luogo lontano per fargli visita – o per sottrarsi a qualcosa, forse a un pericolo, chissà. Il Guardiano è in uno strano stato di eccitazione e d’imbarazzo. Parla molto. Quasi spaventato da questa breccia nella sua solitudine e allo stesso tempo come se tentasse di convincere l’altro a rimanere con lui. Temendo forse una risposta negativa, non lascia al visitatore nessun margine per riflettere e parlare. Nel contempo ha paura di se stesso, teme di tradirsi, e tenta di apparire il più possibile oggettivo. Non sempre ci riesce. E ne è consapevole. Il lirismo completa le pause di silenzio e le sottolinea):

Rimani. Resta qui. C’è calma, una calma profonda;
quasi una felicità, come se fosse finita la mutevolezza
o come se il mare si fosse assunto anche il nostro movimento;
e noi, da questa finestra, possiamo osservarlo
senza rischio, anzi quasi incantati
da tutte queste mutevoli forme d’acqua,
da queste grida anodine, dai rumori immotivati,
dai colori pericolanti, dai riverberi, dai mutamenti improvvisi,
disinteressati, persino compiaciuti della nostra conoscenza
sull’immutabilità dell’acqua sotto i gesti
assordanti e minacciosi dei venti. Rimani.

Tra poco, sotto la frammentazione dei rumori, distinguerai
l’umile, indivisibile silenzio. Ti sembrerà
una cortesia nei tuoi confronti. Soprattutto quando fa sera
e la stanza odora di salmastro, di petrolio e fumo –
(un profumo intensissimo di alghe, vento e quiete domestica,
assieme al respiro caldo del caffè e all’infinita raucedine dell’orizzonte),
in quel momento ti pare di trovarti in una comoda, solida cavità
sferica, scavata nell’inutile frastuono,
e ogni tanto, dopo uno schianto più forte, avverti una splendida esitazione,
come se nel sonno una mano amorosa ti urtasse senza svegliarti
dandoti nel contempo la sensazione di quiete del sonno
e della mano amata. Sì, rimani.

Qui è come se ti trovassi su una nuova arca su cui hai radunato
ricordi, azioni e sogni, per salvarli
e salvare te stesso insieme a loro, – alberi e piante e animali innocenti
e semi di fiori; puoi immaginare
la loro fioritura, come piccole esplosioni di colori,
come minuscoli preziosi vulcani; – li vedi illuminarti già con i colori
le mani, la stufa, l’armadio, il tavolo
e le scarpe sotto la sedia; e così illuminate,
le tue mani, sembrano di nuovo piene.

Allora il tavolo di legno con la tovaglia spessa di carta da imballaggio
diventa una grande foresta dove quattro giovani boscaioli
tagliano gli alberi per fare il tavolo; vedi
anche un piccolo mobilificio dove quattro giovani falegnami curvi
costruiscono con estrema cura il tavolo su cui mangiamo. A volte,
quando fa sera, le ombre si arrampicano con piccoli movimenti sovrani,
come ricci di mare, proprio come ricci di mare, sulle gambe dei mobili
fino allo schienale della sedia, fin su questo tavolo
in mezzo alle tazzine, ai bicchieri, al posacenere,
e sei costretto a guardare e a tacere; ma il tuo silenzio
è già la confessione che hai visto, la testimonianza
che conservi qualche segreto o che ignori qualcosa,
la comprensione di un’insufficienza che cade con un tonfo sordo
sul vuoto essenziale come una cicca accesa in mare.

Altre volte ancora, le notti di tempesta, questo tavolo
china la schiena come un elefante mansueto
per portarti a spasso in una fiaba. Non credere
che si tratti di oblio o d’inerzia. Esistono anche qui
un mucchio di impegni, doveri e responsabilità, come si dice.

Dobbiamo trasportare il petrolio, pulire la lampada,
pulire la lanterna di vetro del faro, avvolgere
il cavo d’acciaio come se caricassimo un orologio enorme
che batterà le ore nella burrasca come una campana. Vedi,
anche il faro è come un campanile. Se sali la scala
puoi vederlo da te. E quando accendi la lampada
è come se suonassi una campana. E bisogna vegliare
perché non si fermi un attimo la rotazione. Ogni luce ha il suo rumore
e lo puoi udire anche senza vederla, perfino quando dormi.

Di notte ha sempre inizio la nostra sovranità. Nel buio,
con il silenzio o il frastuono del mare sotto i piedi, ci sentiamo
murati dentro il faro, immedesimati con esso,
abbiamo l’altezza marmorea della solidità
con le radici di marmo confitte nella roccia,
con le radici della roccia confitte nella terra,
con le radici della terra confitte nel mare.

Credo che il faro sia una linea retta verticale estrema,
tesa e sensibile come la punta del parafulmine. La fronte del faro
scompare su in cielo. Il pulsare dell’infinito
risuona ogni secondo sulle sue tempie, a volte
con l’elettricità del temporale, altre volte
con la febbre calma di una notte primaverile. Se tocchi i muri
lo capisci, – come quando ti stringi le tempie
per circoscrivere il pensiero. Ed è come se avessi
le vene distese fuori dal tuo corpo,
ramificate in aria, come per guidare
una strana stella, difficile e positiva – non quella dei Magi.

Dunque, non si tratta di oblio o d’inerzia, al contrario.
Si potrebbe dire, di una distruzione responsabile, decisa da te,
perché tu esista integro nel vuoto. Non so.
No, non rimanere. La luce del faro è una stanchezza,
inafferrabile, lontana, superflua. Non rimanere.

Molte volte io stesso, per convincermi di esistere, mi trasferisco
dal mio posto immobile al posto così mutevole
della nave, del viaggiatore, del naufrago,
per guardare alla mia importanza dalla parte opposta, nella notte,
quando in un ultimo lampo crollano le nostre scenografie di cartone
e resta la scena vuota con gli elettricisti morti

sotto le scale in frantumi e le corde spezzate,
quando le navi affondano, e gli uomini guardano adirati
il mare nudo, simile a uno zero enorme, sotto il furore degli elementi,
tentando di aggrapparsi a qualche asse di legno,
perché ovviamente non possono aggrapparsi ai raggi del faro.

Un faro inutile – al massimo illumina il naufragio, mostrando
più tremende le fauci delle onde. Però, allora,
io cercavo di concepire il mio significato
con la loro sensazione; di tradurre nei loro occhi
la luce del faro che di notte accendo,
guida o consolazione, come un grido nell’oscurità:
«Resisti ancora – stai per arrivare»; – chi può udirlo
e come può aggrapparsi a un po’ di luce? No, non rimanere.

Meglio al posto del naufrago che a quello del guardiano del faro
che, al riparo dal pericolo, sorveglia il presunto maestoso spettacolo della tempesta,
a volte affascinato, a volte addirittura altezzoso
per averlo visto e illuminato. Non rimanere. Meglio
al posto di quello che lotta con il corpo dell’acqua. Che senso avrà
nel pericolo l’ostinazione per un aiuto inutile,
quale secondo fine nasconderà per colui che l’offre,
per colui che l’accetta (se l’accetta), che nuovo rapporto,
quale nuova separazione prepara per entrambi?

A volte ci inganniamo da soli; ogni rinuncia
è un nuovo rifugio segreto; e la nostra solitudine volontaria
è un’attesa evidente, una scommessa in cui ti giochi
tutta la vita senza testimoni; e tu sarai l’unico a pagare
col tuo netto rifiuto o con l’umiliazione
di tornare alle cose abbandonate (per provarle forse),
e quelle non hanno chiesto di te, non ti aspettavano né ti ricordavano,
non hanno neppure avvertito la tua assenza; così
la prova è rimasta tutta tua, soltanto tua.

Dirai che resta sempre il mare. Ma, di nuovo,
non puoi sempre parlare con lui. A volte,
certi crepuscoli sereni, quando girovagavo tra gli scogli,
calciavo le alghe o le strane radici
di un albero rigettate dalla burrasca,
o certe conchiglie, o vetri colorati, cercando
una traccia umana, qualche straccio di una camicia,
qualche scarpa imbarcata dal sale; e tutt’intorno
si udiva il pulsare muto del tramonto come unica realtà.

Altre volte ancora, quando accendevo la lampada,
me ne stavo sul balcone e aspettavo una nave,
non perché vedesse e proseguisse la rotta, una nave

diretta qui; che ormeggiasse qui; e non per evitare
qualche grave pericolo; ma sicuramente
diretta qui; aspettavo di sentire che gettava
l’ancora, come se aprisse una porta da lungo tempo chiusa,
dentro la quale ero chiuso io; e non sapevo
come avrei udito il cigolìo della porta; non sapevo
che espressione avrebbero assunto le mie mani, il mio viso.

Immaginavo persino le alberature della nave bilanciate col faro;
i passeggeri con le valigie che saltavano su questi scogli;
i loro discorsi rivolti direttamente a me, simili a me –
senza ammirazione o ringraziamento, e soprattutto senza
riconoscenza, con quella loro pronuncia straniera,
con quella effusività straniera per la salvezza di noi stessi; no.

Aspettavo, dunque, di distinguere nel fragore del mare
una voce umana, un cenno, qualcosa,
un riconoscimento minimo della nostra solitudine e resistenza
per resistere di nuovo alla doppia solitudine e sottovalutazione. Allora
anche l’ombra del gabbiano che cadeva sul pavimento da questa finestra
era la palma di una mano tagliata,
di una mano che mi apprestavo a stringere.

Ci si stanca sempre del grande silenzio o del frastuono eccessivo,
delle lunghe ombre che si formano sul mare deserto,
dei gesti dei riflettori sulle onde
o sulle nuvole, identici alle antiche compagnie teatrali,
tutte maschere con la barba, coturni e grandi scettri. Ti stanchi.

Tra simili arredi, la luce del faro, inevitabilmente,
assumeva un che di arrogante; per questo mi sforzavo
di cambiarla nella luce mansueta di una semplicissima lampada
dietro i vetri di una povera casa (immagino l’avrai notato arrivando) –
una luce che illumina dolcemente due gradini, un albero spoglio,
un uovo di gabbiano nella mano della notte
o un pesciolino che ha smarrito la strada. Questo tentavo di fare.

Non dico, – un tale cambiamento sarebbe anche potuto avvenire, perché non si spaventassero
i viaggiatori, perché non restassero abbagliati, perché non chiudessero gli occhi
e mi vedessero; – e forse nemmeno io li vedessi, – chissà? –
Anche la solitudine ha le sue astuzie. Aspettavo sempre – te l’ho detto –
di sentire il rumore di una valigia che si aprisse
e che si rivolgesse direttamente a me. Forse qualcuno si sarebbe ricordato di portarmi
due o tre fazzoletti (come te oggi), qualche camicia
o un pettine – lo immaginavo già come un piccolo cancello
in un giardinetto infantile di campagna – sì, un pettine.

Ciascuno ha bisogno di lavarsi, di pettinarsi, e a volte
di guardarsi in uno specchietto da tasca, o negli occhi
di qualche conoscente. Perché, vedi, tutti ci stanchiamo,
ognuno di noi ritiene spesso inutile la sua solitudine,
inutile perfino la sua luce, giacché anch’essa nasconde chi la concede.

Dunque, ciascuno di noi aspetta una sia pur minima cosa,
un pettine, come ti dicevo, per pettinarsi i capelli
finché sono ancora neri e anche quando s’imbiancano, –
e neppure l’aureola che gli abbiamo messo in testa,
per quanto splendida, può sostituire i suoi capelli;
d’altronde, credo che anche l’aureola necessiti ogni tanto di essere pettinata
(questo soprattutto), perché altrimenti i suoi raggi
si appuntiscono come spine rivolte in dentro e in fuori
e non riesci a toccarli né a indossarli.

All’alba, qui, la luce è una promessa
pallida e vaga – ma sempre una promessa. Aspettavo, dunque,
un viaggiatore a me prossimo (a me prossimo?),
o qualche naufrago; e preparavo l’acqua sul caminetto
per lavarlo con le mie mani. Anzi a volte
sono arrivato al punto di aspettare un annegato
per amarlo, per piangerlo, per seppellirlo
accanto a me. E mi è perfino capitato
di preparare una conversazione con la morte
semplice e amichevole – con una determinata morte.

No, non rimanere, caro. Non dico delle grandi tempeste
che battono coi pugni alle finestre
e che esigono la tua resa. Allora
non è così difficile; – è la paura e la resistenza,
perfino l’ostinazione. Dico delle altre,
delle notti cristalline di primavera
o d’estate; quando si distingue chiaramente
lo scampanìo lontano della trasparenza,
quando navi di vetro fluttuano nelle proprie luci
sotto l’inspiegabile singhiozzo delle stelle.

Quando il minimo fiato dell’ala di un insetto
sulla tua tempia è un ordine inappellabile
a esistere insieme a un altro, dentro un altro,
e non tollera alcun rinvio sotto il sublime chiaro di luna,
un rinvio definitivo. Perciò ti dico –
è difficile rammendarti le calze da solo, difficile rammendare
una mano con l’altra, un occhio con l’altro,
un battito dell’orologio con l’altro
un rumore dell’onda con quello dell’altra onda.

Quando sali da solo la scala a chiocciola interna
con le finestrelle strette che danno
prima sul mare e poi sul cielo, ti coglie come una vertigine,
hai l’impressione che la scala non finisca, come se salissi
nel buio più completo dentro i tuoi stessi visceri, come se ti avvolgessi
intorno a te stesso, dentro te stesso,
come se ti attorcessi da solo nell’ignoto
e a poco a poco sfuggissi alla forza di gravità; – una vertigine.

Questa scala è un trapano di pietra; rotea all’infinito
aprendo un foro nel vuoto. E quando arrivi in cima alla terrazza,
la forza di gravità verso il basso è pari all’altezza che hai raggiunto. Allora
non devi guardare in basso né in alto
soltanto dritto davanti a te, all’altezza degli occhi,
e allora gli occhi sono come due grandi ali aperte che ti sostengono
in equilibrio immobile, profondo e vacillante, tra la terra e il cielo.

Sono belli certi simili pomeriggi – precisamente nel punto
in cui l’immobilità sembra incontrarsi col moto,
la leggerezza con la gravità; – spesso ci riescono i gabbiani – l’hai notato? –
e il gabbiano allora è la palma di una mano che copre il vuoto,
o come la sospesa statuina di una vittoria
incomprensibile e insensata, che concentra nel suo biancore
tutta la luce della notte che giunge e del giorno che muore.

In quei momenti, il tuo corpo abbandonato alla sua forza
e nel contempo alla sua stanchezza, ti appartiene interamente.
Ma a poco a poco senti gravarsi il cuore, come il grosso peso di questo faro
legato al cavo d’acciaio, senti che si abbassa
in modo solenne, austero, muto, molto lento,
con quella sensazione dell’altezza e della caduta
che assicura la rotazione della lampada, sopra di te,
per una segreta necessità del tuo oscuro sprofondamento.

Allora ti sembra che l’odore del petrolio si mescoli a un profumo celestiale;
il bagliore del mare fluttua nella stanza; il mare
sale al di sopra del silenzio, al di sopra del sonno; e il tuo sesso
resta l’ultima alberatura sopra un’indefinita inondazione.

Ah sì, è bello. Dunque, puoi restare.
Il rumore dell’acqua nelle grotte degli scogli
è un tuo ripetuto grazie a tutti e a tutto,
è un grazie a te ripetuto da tutti e tutto. Nell’aria
si riversa uno scampanìo infinito, come se nella notte passassero
grossi autocarri che trasportano
migliaia di bottiglie di limonata per certi locali fuori mano,
da qualche parte sotto gli alberi, dove si baciano
coppie di giovani dietro grandi bicchieri appannati luccicanti.

Ma a un certo punto, quando annotta e viene l’ora
di risalire ad accendere la lampada del faro, una stanchezza
ti paralizza le membra; – e resti immobile
come dentro un pozzo, interamente immerso nell’oscurità, invisibile,
senza che tu dia un cenno di vita al mondo, indifferente
alle navi che passano, ai loro pericoli, e senti
che ti coprono i vari strati delle ombre,
come in un torpore che di lì a poco diventa ebbrezza, e l’ombra si dirada,
e qui scintilla una stella acquatica,
là salta un delfino luccicante,
e un’intera foresta di vetro trema per lo sfavillìo delle fronde.

Una musica silenziosa, un vorticare immobile; – la sedia su cui stai seduto
è una nuvola; questo tavolo ondeggia da solo come fosse
l’impeto irrealizzato di un tavolo; e ogni cosa si prepara
a nascere in una felicità esitante,
nel timore erotico di essere smentita dalla propria forma e dal nome.

Una brocca si plasma, perde forma come una luce liquida, mettendo alla prova
se stessa, non ha ancora deciso di esistere,
e senti la danza semicircolare dell’impugnatura
incurvarsi ora più ora meno,
sfiorare un attimo il corpo della brocca, allontanarsi di nuovo
indipendente, guardando altrove, sottintendendo altro,
fluttuando nell’ebbrezza della sua flessibilità
come un rettile alato, come un fiore d’argento rosa di per sé potente.

E ogni cosa nella sua bella oscillazione aspetta
che ti assuma tu la sua responsabilità e agisca,
che dia tu a ciascuna il suo senso, la sua forma,
la sua collocazione e il nome. Ma tu
indugi, ammaliato dall’inutile e dall’indefinito. Allora,
proprio nell’attimo dell’oblio estremo, nel momento
in cui devi accendere il faro, risuona
come una sveglia lo scampanìo tremendo,
preciso, al punto giusto nel tuo sonno, che interrompe il sonno,
come lo spasmo dell’amore, che interrompe l’amore. Fai un balzo –
e i raggi della lampada che stai per accendere
ti si sono già legati come corde al collo, alle mani
e ti tirano verso l’alto, in fuori. Nella luce che accendi
perché le navi vedano, vedi tu stesso,
vedi le navi che vedono la tua lampada,
vedi le tue mani d’oro, prodigiose e utili.

E così come a volte stai in mezzo alla camera di vetro
accanto alla lampada, illuminato dalla lampada che hai acceso,
credi di essere la sua stessa fiamma, che mai si consuma.

Avvengono spesso simili allucinazioni; – forse sono dovute
alla grande solitudine; forse al fragore del mare che ti frastorna
come se si fossero rotti a un tratto i tubi dell’impianto idrico,
e all’inizio tenti di aggiustarne uno
ma l’acqua zampilla da ogni parte, inonda la casa,
e tu alla fine rinunci, tenendo in mano una tenaglia
come uno che regge un timone spezzato su una nave invisibile.

Può darsi che tutto ciò sia colpa dell’eccessiva insonnia –
perché per essere al lavoro in tempo, all’ora del tuo turno,
immagini sempre che qualcuno sia in pericolo e tu debba salvarlo,
o che tu sia in pericolo e ti debba salvare. Davvero,
non sarà che siamo tutti in pericolo, in ogni istante? Perciò parlo di allucinazioni.
Eppure credo che, anche così, ciò che costruiamo significa qualcosa,
dura più a lungo di noi, ci anticipa, procede
quasi indipendente da noi, e spesso ci tiene per mano
come un robusto adolescente sostiene il vecchio padre cieco,
e quello avanza sorridendo tranquillo, oltre la propria cecità.

Sì, allucinazioni, come dicevo; – chi potrai salvare?
Come potrai salvare te stesso? Ognuno procede
per la sua strada; non vede che gli fai segno; non vediamo. La nostra lampada
è una stella vana, – quanto vana. Appena l’altro svolta
dietro il suo angolo, la stella non si vede più; dimenticata.

Forse perciò scegliamo sempre di illuminare strade
senza curve né angoli – strade molto larghe,
grandi spazi aperti, come il mare per esempio. Perciò, ancora,
se dobbiamo illuminare strade labirintiche, appendiamo
molto in alto la nostra lampada, su un palo alto, su un faro,
perché illumini dall’alto tutti gli angoli, sopra le onde, fin là
dove il mare piega il ginocchio per scavalcare l’orizzonte.

Perché allucinazioni, dunque? Un altro faro più lontano
si occuperà tra poco delle navi. La lampada esiste,
noi esistiamo. E siamo noi
che costruiamo la lampada; noi che l’accendiamo
nel cuore della notte. E possiamo dire di essere noi
la fiamma della lampada – sia pure la fiamma anonima; che importa
se non conosciamo chi l’ha accesa? Comunque le navi
si orientano con la nostra stella; navigano
verso Idra, Samo, il Pireo, Monemvasià, Citera.
Non ci basta, forse, sapere che sono arrivate o arriveranno?

Spesse volte immagino le mani dei viaggiatori illuminate
dalla mia lampada, come se fossero un po’ indorate
dal fiato di un’amicizia lontana. Immagino ancora
(quando saltano sulla banchina, e i loro cari gli stringono le mani)
che alcuni amici sconosciuti stringano le mie mani; e ancora
che le piccole serrature delle loro valigie abbiano conservato
la luce di questo faro come minuscole iconcine
finemente dorate dalla mia cura e insonnia.

Esiste sempre, dunque, il modo di donare qualcosa
e forse di restare anche noi con quello che doniamo. Ogni mattina
ci sarà un colore adatto al nostro sguardo. E questo
volevo esprimere, pronunciare e sottoscrivere
come una lettera senza data per qualsiasi destinatario.

Ora posso tacere di nuovo e accendere la nostra lampada.
Aspettami. Due minuti. Non farò tardi. Aspetta.

(Il Guardiano del faro prende il bidone con il petrolio e i fiammiferi. Sale la scala interna, forse più in fretta delle altre volte. Si sente il suo passo giovanile perdersi in alto, come se salisse in cielo. L’Altro guarda un istante perplesso i muri, la finestra che dà sul mare, l’armadio di legno, la carta geografica, la sveglia sul tavolo – il tutto offuscato dal crepuscolo –, prende la valigia e se ne va in fretta come un ladro, come se avesse usurpato una responsabilità troppo grande, anzi, quasi adirato, come se l’avessero costretto ad assumersi una responsabilità sconosciuta e senza scopo. Quando il Guardiano ridiscende, non trova nessuno. Annotta. Una volta di più comprende. Il silenzio pare più denso, quasi irrevocabile. Esce in cortile e guarda dal basso e dall’esterno la sua luce – che ha appena acceso –, cioè la luce del faro. Poi si guarda le mani rischiarate dal faro; e le sue mani sono quasi d’oro, simili alle mani miracolose delle vecchie icone, flessuose e ingannevoli come le mani dei prestigiatori. Ma in quella posa, con le mani alzate, sembra che preghi – non si sa chi – il mare, il vento, la sua luce? A un tratto si accorge che la sua posa è un po’ teatrale, e cerca un gesto più consueto. Quindi batte le mani, come se applaudisse qualcosa d’invisibile o come se scrollasse via le briciole di pane della cena – anche se non ha ancora cenato. Proprio in quell’istante un gallo canta da qualche parte in lontananza. Chi lo ha nuovamente tradito? E lui, chi ha tradito? No, no. Niente. Eppure il rumore del mare dà la sensazione di un tradimento generale. Il gallo canta di nuovo. Segnala semplicemente il cambiamento del tempo. Sta arrivando la primavera. E le stelle sembrano molto più numerose, più limpide.)

Ghiannis Ritsos

Diminiò, dicembre 1958

(Traduzione di Nicola Crocetti)

dalla rivista “Poesia, Nuova serie”,  Anno I – N. 1, Maggio/Giugno 2020, Crocetti Editore

Elena – Ghiannis Ritsos

Foto di Nicola Bertellotti

(Lo sfacelo si vedeva già da lontano – muri scalcinati, diroccati; persiane stinte; le inferriate del balcone arrugginite. Fuori della finestra del piano superiore si agitava una tenda ingiallita, sbrindellata sul fondo. Quando si avvicinò, sempre esitante, notò lo stesso abbandono nel giardino: piante lussureggianti, foglie carnose, alberi non potati; i rari fiori soffocati dalle ortiche; le fontane senz’acqua, ammuffite; le belle statue coperte di licheni. Una lucertola stava immobile tra i seni di una giovane Afrodite, scaldata dagli ultimi raggi del sole al tramonto. Quanti anni prima? Era molto giovane allora – ventidue? Ventitré anni? E lei? Non riuscivi mai a saperlo – era cosí forte la luce che irradiava – ti accecava, ti trafiggeva; – non sapevi piú che cos’era, se esisteva, se tu esistevi. Suonò il campanello della porta. Ne udí da fuori il suono, molto isolato, in uno spazio che gli era familiare ma che aveva ormai subíto alterazioni sconosciute, con diramazioni sconosciute, in colori oscuri. Tardavano ad aprire. Qualcuno si affacciò alla finestra di sopra. Non era lei. Una domestica – molto giovane. Pareva che ridesse. Scomparve dalla finestra. Tardavano ancora. Poi passi sulla scala interna. Aprirono la porta. Salí. Un odore di polvere, di frutta marcia, di saponata secca, di urina. Per di qua. Camera da letto. Armadio. Specchio di metallo. Due poltrone con intagli sfondate. Tavolino di zinco con tazzine di caffè e cicche. E lei? No, no – non è possibile. Vecchia – vecchia – cento, duecento anni. Appena cinque anni fa – No, no. Il lenzuolo bucato. Lei là, immobile; seduta sul letto; ingobbita. Soltanto gli occhi – ancora piú grandi, imperiosi, penetranti, vuoti.)

Sí, sí, – sono io. Siediti un po’. Non viene piú nessuno. Sto quasi
per scordarmi le parole. E del resto non servono. Credo si avvicini l’estate;
si muovono diversamente le tende – vogliono dire qualcosa – sciocchezze. Una di esse
è già uscita fuori dalla finestra, tira, vuole rompere gli anelli,
fuggire sugli alberi – forse cerca addirittura di trascinare
altrove tutta la casa – ma la casa resiste con tutti i suoi angoli
e assieme ad essa anch’io, benché mi senta, da mesi, affrancata
dai miei morti e da me stessa; e questa mia resistenza,
inconcepibile, involontaria, estranea, è l’unica cosa che ho – il mio legame
con questo letto, con questa tenda; – ed è la mia paura, come se mi reggessi
tutta a quest’anello dalla pietra nera che porto all’indice.

Esamino questa pietra adesso, per interminabili ore, nella notte –
nera, priva di riflessi – si ingrandisce, si ingrandisce, si riempie
di acque nere – le acque esondano, crescono; sprofondo,
non in un fondale basso, ma in un fondale alto; e da lassú
distinguo sotto la mia stanza, me stessa, l’armadio, le ancelle
che litigano senza voce; ne vedo una in piedi
su uno sgabello che pulisce il vetro del ritratto di Leda
con espressione dura, vendicativa; vedo lo straccio lasciarsi dietro
una coda polverosa di minuscole bollicine che salgono e scoppiano
con un mormorío silenzioso intorno alle mie caviglie o alle ginocchia.

Vedo anche te, l’espressione del viso attonita, imbarazzata, incrinata
dalle lente ondulazioni dell’acqua nera – ora si allarga il tuo viso, ora si allunga
con striature gialle. I tuoi capelli si muovono verso l’alto
come una medusa rovesciata. Ma poi mi dico: “È soltanto una pietra,
una piccola pietra preziosa”. Allora tutto il nero si contrae,
si secca riducendosi a un minuscolo nodo – lo sento
qui, appena sotto la gola. Ed eccomi di nuovo
nella mia stanza, sul mio letto, accanto alle mie boccette familiari
che mi guardano a una a una con approvazione; – sono il mio unico soccorso
nell’insonnia, nella paura, nel ricordo, nell’oblío, nell’affanno.

E tu, come stai? Sei sempre nell’esercito? Abbi cura di te. Non darti troppa pena
per eroismi, gradi e glorie. Che te ne fai? Ce l’hai ancora
quello scudo su cui avevi inciso il mio volto? Com’eri buffo
con l’elmo alto dal lungo cimiero – cosí giovane,
cosí riservato, come se avessi nascosto il tuo bel viso
dietro le zampe posteriori di un cavallo, la cui coda pendeva fino in fondo
sulla tua schiena nuda. Non adirarti di nuovo. Rimani ancora un po’.

È ormai trascorso il tempo delle rivalità; si sono inaridite le passioni;
forse ora possiamo guardare insieme allo stesso punto della vanità
ove si realizzano, immagino, gli unici incontri giusti – ancorché indifferenti,
ma sempre mitiganti – la nostra nuova comunanza, desolata, calma, vuota,
senza spostamenti e opposizioni – rimuovere solo la cenere nel camino,
foggiando, di quando in quando, urne cinerarie slanciate e belle,
o, seduti per terra, battere il suolo con mani silenziose.

A poco a poco le cose hanno perso senso, si sono svuotate; d’altronde
ebbero mai alcun senso? – Flaccide, vuote;
noi le riempivamo di paglia e crusca perché assumessero forma
e consistenza, solidità e fermezza – i tavoli, le sedie,
i letti su cui giacevamo, le parole; – sempre vuote
come borse di tela, come i sacchi dei mercanti; –
già dall’esterno indovini il contenuto:
patate o cipolle, grano o granturco, mandorle o farina.

A volte il sacco si impiglia in un chiodo della scala
o nel gancio di un’ancora giú al porto, si buca,
si versa la farina – un fiume senza senso.  Il sacco si vuota.
La farina la raccolgono i poveri a manciate, per farne
qualche focaccia o una farinata. Il sacco si affloscia. Qualcuno
lo solleva per gli angoli inferiori; lo scuote in aria;
una nube di polvere bianca l’avvolge; gli si imbiancano i capelli;
gli si imbiancano soprattutto le sopracciglia. Gli altri lo guardano.
Non capiscono niente; aspettano che apra la bocca, che parli.
Lui non parla. Piega in quattro il sacco; se ne va.
Cosí bianco, inesplicabile, senza una parola, come travestito,
come un libidinoso nudo coperto da un lenzuolo,
o come un morto astuto, risuscitato nel suo sudario.

Nessun senso, dunque, le cose e gli eventi; – cosí come le parole, benché
con esse denominiamo alla meno peggio ciò che ci manca o ciò
che non abbiamo mai visto – le cose immateriali, come le chiamiamo, le cose eterne; –
parole innocenti, fuorvianti, consolatrici, equivoche sempre
nella loro affettata precisione; – che triste storia,
dare un nome a un’ombra, proferirlo durante la notte a letto
col lenzuolo alzato fino al collo, e ascoltandolo illuderci, gli stolti,
che possediamo il corpo, che esso ci possiede, che ci aggrappiamo al mondo.

Ora dimentico i nomi piú familiari o li confondo tra loro –
Paride, Menelao, Achille, Proteo, Teoclímeno, Tèucro,
Càstore e Polluce – i miei fratelli moralisti; loro, credo,
divennero stelle – cosí dicono – e guidano le navi; – Teseo, Pirítoo,
Andromaca, Cassandra, Agamennone – suoni, soltanto suoni
privi di rappresentazione, privi della loro immagine tracciata sopra un vetro,
sopra uno specchio di metallo o sui bassi fondali, sulla spiaggia, come quella volta,
un giorno calmo e assolato, con molte alberature, quando la battaglia
s’era placata, e il cigolío delle cime fradicie sulle pulegge
teneva il mondo in alto, come il nodo di un singhiozzo arrestato
in una gola di cristallo – e lo vedevi, il nodo, scintillare, tremare
senza riuscire a farsi grido, e d’improvviso tutto il paesaggio con le navi,
i marinai e i carri, sprofondava nella luce e nell’anonimato.

Un naufragio diverso adesso, piú profondo, piú oscuro – da lí
salgono di tanto in tanto certi suoni – quando battevano i martelli sul legno
inchiodando una nuova trireme nel piccolo cantiere navale; quando passava
una grande quadriga sull’acciottolato, prolungando su un altro ritmo
i battiti dell’orologio della Cattedrale, quasi che le ore
fossero assai piú di dodici e i cavalli
girassero dentro l’orologio fino ad esser stanchi; o quella notte
che due bei giovani cantavano sotto le mie finestre
una canzone dedicata a me, senza parole; – uno era cieco da un occhio; l’altro
aveva una grossa fibbia alla cintura – brillava al chiar di luna.

Ora non mi vengono piú da sole le parole; – le cerco, come se traducessi
da una lingua a me ignota – e tuttavia traduco. Tra le parole,
o dentro le parole stesse, restano fori profondi; guardo attraverso questi fori
come se guardassi attraverso i nocchi caduti dalle assi di una porta
sbarrata, inchiodata da secoli. Non vedo niente.

Non piú parole e nomi; distinguo soltanto certi suoni; – un candelabro d’argento
o un vaso di cristallo risuona da solo e all’improvviso tace
fingendo indifferenza, come se non avesse risuonato, come se nessuno
l’avesse toccato né gli fosse passato accanto. Un abito da donna
si accascia mollemente dalla sedia sul pavimento, spostando
l’attenzione dal suono precedente alla semplicità del nulla. Intanto
l’idea di una congiura silenziosa, benché dissolta nell’aria,
aleggia addensata a un livello superiore, quasi ponderabile,
tanto che senti il solco delle rughe di fianco alle labbra farsi piú profondo
proprio a causa di questo intruso che prende il tuo posto
trasformando in intruso te, qui sul tuo letto, nella tua stanza.

Oh, questo esilio dentro i nostri stessi abiti che invecchiano,
dentro la nostra stessa pelle che avvizzisce; mentre le nostre dita
non riescono piú a stringere, a reggere intorno al nostro corpo
neppure la coperta, che si solleva da sola, si disfa, scompare, lasciandoci
scoperti di fronte al vuoto. Allora la chitarra appesa al muro,
dimenticata da anni, le corde arrugginite, comincia a tremare
come trema il mento di una vecchia per il freddo o la paura, e devi
mettere la mano sulle corde per arrestarne
il tremito contagioso. Ma non trovi la mano, non hai piú mano,
e dentro di te senti che è il tuo mento che trema.

In questa casa il vento si è fatto impetuoso e inspiegabile, forse
per la presenza cosí naturale dei morti. Un baule
si apre da solo, ne escono vecchi abiti da donna, frusciano, assumono posizione eretta,
passeggiano in silenzio; due frange dorate restano sul tappeto; una tenda
si scosta; – non si vede nessuno – eppure c’è; una sigaretta
brucia da sola nel posacenere con brevi intermittenze; – chi
ve l’ha messa si trova nell’altra stanza, ha l’aspetto un po’ goffo,
è voltato di spalle, guarda verso il muro, probabilmente una ragnatela
o una macchia d’umidità – cosí, verso il muro, perché non si noti
l’incavo oscuro sotto gli zigomi rilevati.

I morti non ci danno piú pena ormai – ed è strano – non è vero? –
non tanto per loro, quanto per noi – questa loro neutrale familiarità
nei confronti di uno spazio che li ha respinti e per cui non contribuiscono piú
né alle spese di manutenzione né all’ansia per il suo sfacelo,
loro, realizzati e immutabili, solo appena un po’ piú grandi.

È questo che ci sorprende a volte – l’ipertrofia dell’immutabile
e la silenziosa autosufficienza dei morti – per niente altera; non si adoperano
per importi il loro ricordo, per piacerti. Le donne
lasciano che il ventre si afflosci, che le calze cadano alle caviglie; prendono
gli spilli dalla scatola d’argento; li appuntano a uno a uno
in due file regolari sul velluto del divano; poi li raccolgono
e ricominciano di nuovo con la stessa cura gentile. Qualcuno arriva
dal corridoio; è altissimo; – batte la fronte sullo stipite;
non fa una smorfia – né si è sentito il colpo.
Sí, anche i morti insensati quanto noi; soltanto piú tranquilli. Un altro
leva la mano con solennità, come per benedire qualcuno,
coglie un cristallo dal lampadario, se lo porta alla bocca
con naturalezza, come un frutto di vetro – ti sembra stia per addentarlo, che stia per ridare vita
a una funzione umana; – no; lo tiene tra i denti
perché il cristallo scintilli di bagliori vani. Una donna
prende dal vasetto rotondo e bianco la crema per il viso
col gesto esperto delle due dita, e scrive
sul vetro della finestra due grosse maiuscole – una sorta di E e di T; –
il sole scalda il vetro, la crema si scioglie, gocciola sul muro –
e tutto ciò non significa niente – due piccoli solchi unti.

Non so perché i morti restino qua dentro, senza la compassione di nessuno; non so che cosa vogliano
e perché si aggirino per le stanze vestiti a festa, con le scarpe buone
lustrate e lisce, eppure senza far rumore, quasi senza posare i piedi a terra.
Occupano posto, si sdraiano dove capita, sulle due sedie a dondolo,
sul pavimento o in bagno; si scordano il rubinetto che gocciola;
si scordano le saponette profumate che si squagliano nell’acqua. Le domestiche,
passando in mezzo a loro e spazzando con la grande scopa,
non ne avvertono la presenza. Soltanto, a volte, il riso di un’ancella
appare un po’ forzato – non vola in alto, non fugge dalla finestra,
come un uccello legato per una zampa con lo spago, che qualcuno trattiene in basso.

Allora le ancelle si infuriano con me senza ragione, gettano la scopa
qui, in mezzo alla mia stanza, se ne vanno in cucina; –  sento che
preparano grandi bricchi di caffè, rovesciano lo zucchero per terra –
lo zucchero scricchia sotto le loro scarpe; l’odore del caffè
attraversa il corridoio, inonda la casa, si riflette nello specchio
come un viso sciocco, bruno, impudente, dai ciuffi spettinati,
con due orecchini azzurri falsi; alita sullo specchio,
appanna il vetro. Sento la mia lingua frugare in bocca;
sento che ho ancora saliva. “Un caffè anche per me”, grido alle ancelle;
“un caffè” (chiedo solo un caffè, nient’altro). Quelle
fingono di non sentire. Grido un’altra volta e un’altra ancora
senza collera o amarezza. Non rispondono. Le sento bere il  caffè
nelle mie tazzine di porcellana con il bordo dorato
e gli esili fiorellini viola. Taccio e guardo
quella scopa gettata sul pavimento come il cadavere irrigidito
di quel garzone dell’ortolano, alto e magro, che molti anni fa
mi mostrava dall’inferriata del giardino il suo grosso fallo.

Oh, sí, talvolta rido, e sento il mio riso rauco che sale
non già dal petto, ma da molto piú in basso, dai piedi; da piú in basso ancora,
dalle viscere della terra. E rido. Com’era tutto senza senso,
senza scopo, durata né sostanza – ricchezze, guerre, glorie e invidie,
gioielli e la mia stessa bellezza.
                                                          Che stupide leggende,
cigni e Troie e amori e gesta.
                                                      Li incontrai di nuovo,
durante banchetti funebri e notturni, i miei vecchi amanti, con le barbe bianche,
i capelli bianchi, i ventri ingrossati, quasi fossero
già gravidi della loro morte, divorare con un’estranea avidità
l’arrosto di capra, evitando di divinare il futuro sull’osso della spalla – divinare che cosa? –
Un’ombra piatta con qualche rara macchia bianca copriva tutto l’osso.

Io, come sai, conservavo ancora l’antica bellezza
quasi per miracolo (ma anche grazie alle tinture, alle erbe e alle pomate,
ai succhi di limone e di cetriolo). Mi spaventava solo vedere sui loro volti
scorrere anche i miei anni. Allora contraevo i muscoli del ventre,
contraevo con un sorriso affettato le guance, come
puntellassi con una trave sottile due muri pericolanti.

Cosí reclusa, serrata, tesa – che stanchezza, mio Dio –
serrata in ogni istante (perfino durante il sonno) come
in un’armatura gelida, o il corpo intero entro un busto di legno, come
in un mio cavallo di Troia, ingannevole, stretto, conoscendo ormai
la vanità dell’inganno e dell’illusione, la vanità della fama,
la vanità e la precarietà di ogni vittoria.
                                                                           Pochi mesi orsono,
con la scomparsa di mio marito (mesi o anni?) abbandonai per sempre
il mio cavallo di Troia, giú nella stalla, con i suoi vecchi ronzini,
che vi passeggino dentro ragni e scorpioni. Non mi tingo piú i capelli.

Grossi nei mi sono spuntati sul viso. Grossi peli
intorno alla bocca – li tocco; non mi guardo allo specchio –
peli ispidi, lunghi – come se qualcun altro si fosse installato dentro di me,
un uomo sfrontato, malevolo, la cui barba
spunta dalla mia pelle. Lo lascio stare; – cos’altro? –
Temo che se lo cacciassi mi trascinerebbe con sé.

Non andartene. Rimani ancora un po’. È tanto tempo che non parlo.
Non viene piú nessuno a trovarmi. Hanno avuto tutti fretta di andarsene.
Gliel’ho letto negli occhi – avevano tutti fretta che morissi. Il tempo non scorre.
Le ancelle mi odiano. Di notte sento che mi aprono i cassetti,
mi portano via le trine, i gioielli, i talenti d’oro; – chissà
se mi avranno lasciato un abito decente per qualche circostanza
e qualche paio di scarpe. Le chiavi me le hanno prese anche quelle
da sotto il cuscino; – non mi sono mossa; ho finto di dormire –
un giorno o l’altro le avrebbero prese comunque; – che almeno non sappiano che so.

Che sarebbe di me senza di loro? “Pazienza, pazienza”, mi dico;
“pazienza”, – e anche questo è come un’infima vittoria, mentre
loro leggono le vecchie lettere dei miei ammiratori
o le poesie dedicatemi da grandi poeti; – le leggono
con un’enfasi ridicola e con molti errori di pronuncia, di metrica, di accento
e di scansione; – non le correggo. Fingo di non sentirle. Altre volte
con la mia matita nera per gli occhi disegnano grossi baffi
sulle mie statue, o gli mettono in testa un vecchissimo elmo
o il vaso da notte. Le guardo tranquilla. Questo le manda in bestia.

Un giorno che stavo un po’ meglio, le pregai di nuovo
di truccarmi il viso. Me lo truccarono. Chiesi uno specchio.
Me l’avevano dipinto di verde, con la bocca nera. “Grazie”, dissi loro,
come se non avessi notato nulla di strano. Ridevano. Una di loro
si spogliò completamente davanti a me, indossò i miei pepli dorati, e cosí,
coi grossi piedi nudi, cominciò a ballare,
saltò sul tavolo – sfrenata; ballava, ballava, si inchinava
tentando di imitare i miei movimenti di un tempo. In alto sulla coscia
aveva il segno di un morso inferto da denti forti e regolari, d’uomo.

Io le guardavo come fossi a teatro; – senz’alcuna umiliazione o tristezza
o indignazione – e per che cosa poi? – Ripetevo solo in fondo a me stessa:
“Un giorno morremo”, o piuttosto: “Un giorno morrete”;
ed era una vendetta certa, e un timore, una consolazione. Fissavo
ogni cosa con una chiarezza indicibile, imperturbabile, come
se i miei occhi non dipendessero piú da me; guardavo i miei stessi occhi
distanti un metro dal mio viso, come i vetri
di una finestra lontana dietro la quale qualcun altro
osserva ciò che avviene in una strada ignota
con caffè chiusi, vetrine di fotografi e profumerie,
e avevo la sensazione che una bella boccetta di cristallo
si fosse rotta, e il profumo si fosse versato sulla vetrina polverosa. I passanti
indugiavano vagamente annusando l’aria, ricordando qualcosa di buono
e poi sparivano dietro gli alberi del pepe o in fondo alla via.

In certi momenti lo sento ancora quel profumo – ovvero lo ricordo;
non è strano? – Gli eventi che di solito definiamo grandi si dissolvono, si estinguono –
l’assassinio di Agamennone, l’uccisione di Clitennestra (mi avevano inviato
da Micene una sua bella collana, fatta
di piccole maschere d’oro, congiunte con anelli
in alto sulle orecchie – non l’ho mai messa). Si dimenticano;
restano altre cose, accessorie, insignificanti; – ricordo che un giorno vidi
un uccello posato sulla groppa di un cavallo; e questo fatto inspiegabile
pareva spiegare (in particolare a me) qualche mistero.

Ricordo ancora, bambina, sulle rive dell’Eurota, accanto ai tiepidi oleandri,
il rumore di un albero che si scortecciava da solo; le scorze
cadevano mollemente nell’acqua, navigavano come triremi, si allontanavano,
e io aspettavo con insistenza che una farfalla nera striata d’arancione
si posasse su una corteccia, e si stupisse nel vedersi muovere pur stando ferma,
e mi divertiva il fatto che le farfalle, cosí esperte dell’aria,
non avessero la minima idea di viaggi sull’acqua e di remigazioni. E una farfalla venne per davvero.

Vi sono istanti strani, solitari, burleschi quasi. Un uomo
cammina a mezzogiorno portando un paniere in testa; il paniere
gli nasconde tutto il viso come fosse acefalo o mascherato,
con una mostruosa testa senza occhi, con innumerevoli occhi. Un altro,
mentre passeggia fantasticando all’imbrunire, inciampa in qualcosa, bestemmia,
si volta indietro, cerca; – una pietruzza; la solleva; la bacia; allora
si ricorda di guardarsi attorno; si allontana con un senso di colpa. Una donna
infila la mano in tasca; non trova niente; estrae la mano,
la solleva, la osserva attentamente, quasi velata dalla polvere del vuoto.

Un cameriere ha imprigionato una mosca nel pugno – non la stringe;
un cliente lo chiama; se ne dimentica; disserra il pugno; la mosca
vola in alto, si posa sul bicchiere. Un pezzo di carta rotola per strada
esitando, con molte pause, senza attirare
l’attenzione di alcuno − e questo gli piace. Ma di nuovo, ogni tanto,
emette un fruscío particolare, che lo smentisce; quasi cercasse adesso
qualche testimone incorruttibile alla sua marcia modesta, segreta. E tutte queste cose
hanno una bellezza desolata, inspiegabile e una profondissima pena
originate da gesti nostri, estranei e sconosciuti – non è vero?

Quanto alle altre cose, è come se non fossero esistite – scomparse. Argo, Atene, Sparta,
Corinto, Tebe, Sicione – ombre di nomi; li pronuncio; suonano come sprofondati
nell’incompiuto. Un cane smarrito, gentile, se ne sta
davanti alla vetrina di una misera latteria. Una giovane passante lo guarda;
quello non risponde; la sua ombra si stende sul marciapiede, immensa.
Non ho mai saputo il perché. E credo che neanche esista. Resta soltanto
questa approvazione avvilente, imposta (ma da chi?)
come quando accenniamo di “sí” con la testa, quasi salutassimo qualcuno
con incredibile servilismo, mentre invece non passa e non c’è nessuno.

È come se qualcun altro mi avesse raccontato, con voce affatto incolore, una sera,
gli avvenimenti della mia vita, mentre morivo dal sonno; dentro di me speravo
che si fermasse alfine, per poter chiudere gli occhi,
dormire. E mentre parlava, giusto per fare qualcosa, per resistere al sonno,
contavo a una a una le frange del mio scialle, ritmando il conto
su una cantilena sciocca e infantile della moscacieca, fin tanto che
la ripetizione non la privava di ogni senso. Ma il suono non si perde –
frastuoni, tonfi, strascichii – il rumore del silenzio, un pianto scompagnato,
qualcuno gratta il muro con le unghie, un paio di forbici cadono sull’assito,
qualcuno tossisce; – la mano davanti alla bocca, per non svegliare un altro
che dorme con lui – forse la sua morte; – smette; poi di nuovo
quel rumore che sale a spirale da un pozzo vuoto, chiuso.

Di notte sento le ancelle trasportare i miei grandi mobili;
li portano giú per la scala – uno specchio, portato come una barella,
riflette gli stucchi corrosi del soffitto; un vetro
urta le inferriate – non si è rotto; il vecchio cappotto sull’attaccapanni
solleva un attimo le mani vuote, le infila di nuovo nelle tasche;
le ruote del divano strisciano per terra. Avverto
sul gomito la scalfittura provocata sul muro dall’angolo dell’armadio
o dall’angolo del grande tavolo intagliato. Che cosa ne faranno? “Addio”, dico
quasi meccanicamente, come se salutassi un visitatore, straniero sempre. Soltanto
quel rombo indistinto che indugia nel corridoio come il suono di un corno da caccia
di nobili decaduti, nel dopopioggia, in un bosco bruciato.

Davvero, quante cose inutili, ammassate con tanta avidità; –
occupavano tutto lo spazio – ci impedivano di muoverci; i nostri ginocchi
urtavano in ginocchi di legno, di pietra, di metallo. Oh, certo, dovremo
invecchiare molto, molto, prima di diventare giusti, di giungere
a quella serena imparzialità, a quel dolce distacco nei paragoni e nei giudizi,
quando non abbiamo altro da spartire all’infuori di questo silenzio.

Ah, sí, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso,
sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose che ormai
erano state decise da altri in nostra assenza. E gli uomini, innocenti,
a infilarsi le forcine negli occhi, a sbattere la testa
contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non cede
né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da una fessura
un po’ di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal tempo. Eppure – chissà –
là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia
la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo
tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli,
tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro
e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro.

Rimani ancora un poco. Si è fatta sera. Il vello d’oro di cui dicevamo – Oh, il pensiero
arriva in ritardo per noi donne – è quasi riposante. Gli uomini al contrario
non si fermano mai a pensare – forse hanno paura; forse non vogliono
guardare in faccia la paura, guardare la loro stanchezza, riposarsi –
vili, vanitosi, indaffarati, avanzano nel buio. I loro abiti
sentono sempre del fumo di un incendio cui son passati accanto o in mezzo
senza saperlo. Si spogliano in fretta; gettano i vestiti
sul pavimento; si buttano sul letto. Ma anche il loro corpo
sa di fumo – li intorpidisce. Tra i peli dei loro petti,
quand’erano addormentati, trovavo certe minuscole foglie bruciate
o certe piume grigio-nere di uccelli uccisi. Allora
le raccoglievo e le conservavo in un cofanetto – unici indizi
di un rapporto segreto; – non gliele ho mai mostrate; – non le avrebbero riconosciute.

In certi istanti, oh, sí, erano belli – cosí nudi, arresi al sonno,
privi di affettazione, rilassati, con i corpi grandi e robusti
madidi, ammorbiditi, come tumultuosi fiumi rotolati
dagli alti monti nella pianura calma, o simili a bambini abbandonati. Allora
li amavo realmente, come li avessi partoriti. Osservavo le loro ciglia lunghe
e avrei voluto averli dentro di me per proteggerli, o per accoppiarmi
col loro corpo intero. Dormivano. E il sonno ti impone
rispetto, perché è cosí raro. Tutte cose finite. Dimenticate.

Non che abbia perso la memoria – ricordo ancora; soltanto che i ricordi
non hanno piú commozione – non ci commuovono – impersonali, sereni,
lindi fin nei recessi piú insanguinati. Uno solo
conserva ancora un’aura intorno a sé, respira.
                                                                                       Quella sera,
circondata dalle grida interminabili dei feriti,
dalle imprecazioni sussurrate dei vecchi e dalla loro ammirazione,
nell’odore di morte generale che, in certi istanti, scintillava
su uno scudo o sulla punta di una lancia o sulla metopa
di un tempio abbandonato, o sulla ruota di un carro – salii da sola
sulle alte mura e passeggiai,
                                                    sola, completamente sola, in mezzo
ai troiani e agli achei, sentendo il vento incollarmi addosso
i pepli sottili, tastarmi i capezzoli, sorreggere tutto il mio corpo
vestito e denudato, appena una larga cintola d’argento
che sollevava in alto i seni –
                                                   cosí bella, intatta, provata,
nell’istante in cui i miei due rivali in amore si battevano a duello e si giocava il destino
di quell’annosa guerra; –
                                            non vidi neanche rompersi il legaccio
dell’elmo di Paride – forse scorsi un bagliore del rame,
un bagliore rotondo, quando il suo avversario lo fece roteare – con rabbia
sopra il suo capo – uno zero di luce.
                                                                  Non valeva la pena di guardare; –
l’esito lo avevano fissato in anticipo le volontà degli dèi; e Paride,
privo dei suoi sandali impolverati, si sarebbe presto ritrovato sul letto,
lavato dalle mani della dea, ad aspettarmi sorridente,
magari nascondendo con un cerotto rosa una ferita immaginaria sul fianco.

Non guardai piú; non udivo quasi i loro gridi di guerra –
io, lassú, sulle mura, sopra le teste dei mortali, aerea, carnale,
senza appartenere a nessuno, senza avere bisogno di nessuno,
come se fossi (nella mia indipendenza) tutto quanto l’amore – libera
dal timore della morte e del tempo, con un fiore bianco tra i capelli,
con un fiore tra i seni, e un altro tra le labbra per nascondere
il sorriso della libertà.
                                         Avrebbero potuto
colpirmi da entrambi i lati con le frecce.
                                                                         Mi offrivo a bersaglio
camminando lentamente sulle mura, stagliandomi
nel cielo porpora e oro della sera.
                                                             Tenevo gli occhi chiusi
per agevolare un gesto di ostilità da parte loro – ben sapendo in fondo
che nessuno lo avrebbe osato. Le loro mani tremavano per il bagliore
della mia bellezza e immortalità –
                                                             (forse ora posso aggiungere:
non la temevo la morte, perché la sentivo cosí lontana).
                                                                                                      Allora
gettai i due fiori dai seni e dai capelli; – il terzo
lo tenevo ancora tra le labbra; – li gettai ai due lati delle mura
con gesto d’assoluta degnazione.
                                                            E allora gli uomini, dentro e fuori le mura,
si gettarono l’uno sull’altro, avversari e alleati, per conquistare
quei fiori e offrirmeli – i miei fiori. Non vidi
nient’altro dopo – soltanto schiene curve, come se tutti
fossero inginocchiati a terra, dove seccava al sole il sangue; – forse calpestavano già quei fiori.
                                                  Non vidi.
                                                                   Avevo mosso le mani,
mi ero sollevata sulle punte dei piedi, e ascesi al cielo
lasciandomi cadere di bocca anche il terzo fiore.

Questo mi resta ancora – una sorta di ricompensa, di giustificazione a distanza, e forse
questo rimarrà, mi dico, in qualche parte al mondo – una libertà momentanea,
immaginaria, naturalmente, anch’essa – un gioco del destino e della nostra ignoranza. È proprio in questa posa
(per quanto mi ricordo) che gli scultori tentavano di modellare
le mie ultime statue; – si trovano ancora in giardino;
entrando le avrai viste. A volte anch’io (quando le ancelle sono di buonumore
e sorreggendomi per le ascelle mi portano su quella sedia
davanti alla finestra) le vedo. Splendono al sole. Un calore bianco
sale dai loro marmi fin quassú. Non riesco a pensare piú a lungo. Mi stanco
presto anche di questo. Preferisco guardare una parte della strada
dove due o tre bambini giocano con una palla di stracci, o una ragazza
cala un paniere legato a una corda dal balcone di fronte.

A volte le ancelle mi dimenticano lí.  Non vengono a riportarmi sul letto.
Resto tutta la notte a guardare una vecchia bicicletta, appoggiata
davanti alla vetrina illuminata di una nuova pasticceria,
finché si spengono le luci, o io mi addormento sul davanzale. Ogni tanto
ho l’impressione che mi svegli una stella che cola nello spazio
come la bava dalla bocca sdentata e aperta di un vecchio.
                                                                                                           Ora
è tanto che non mi portano alla finestra. Resto qui sul letto
seduta o stesa – questo lo sopporto. Per far passare il tempo
mi prendo il viso tra le mani – un viso estraneo; – lo tocco, lo tasto, conto
i peli, le rughe, i grossi nei; – chi c’è all’interno
di questo viso?
                           Qualcosa di aspro mi sale alla gola – la nausea e la paura,
la stupida paura, mio Dio, di perdere anche questa nausea. Rimani ancora –
entra un po’ di luce dalla finestra – avranno acceso i lampioni sulla strada.

Non vuoi che suoni il campanello perché ti portino qualcosa? – Un po’ di visciolata
o di melangoli canditi – dev’essere rimasto qualcosa nei grandi vasi
incrostato di zucchero, rappreso – naturalmente se l’hanno risparmiato
quelle ingorde delle ancelle. In questi ultimi anni mi dedicavo da sola
a fare confetture – che cos’altro fare?
                                                                     Dopo Troia – la nostra vita a Sparta
era cosí noiosa – l’autentica provincia: chiusi tutto il giorno in casa,
tra i bottini ammassati di tante guerre; e i ricordi,
sbiaditi e importuni, che ti si trascinano dietro, nello specchio
quando ti pettini i capelli o, in cucina, provenienti
dai vapori grassi della pentola; e nel gorgoglio dell’acqua che bolle risentire
certi esametri dattilici del Terzo Canto
mentre dal pollaio del vicino s’ode il canto sconnesso di un gallo.

La conosci bene la monotonia della nostra vita. Perfino i giornali
simili nel formato, nello spessore, nei titoli – non li leggo nemmeno piú. Di tanto in tanto
bandiere sui balconi, feste nazionali, parate militari,
come caricate a molla; – soltanto la cavalleria conservava qualcosa d’improvvisato,
di personale – forse grazie ai cavalli. Sollevavano nuvole di polvere;
chiudevamo le finestre; – dover poi stare a spolverare uno per uno
vasi, scatolette, cornici, statuette di porcellana, specchi, buffè.

Non andavo piú alle cerimonie. Mio marito tornava in un bagno di sudore,
si gettava sul cibo schioccando le labbra, e insieme rimuginando
antiche glorie uggiose e rancori sopiti. Io osservavo
i bottoni del suo gilè sul punto di staccarsi – era ingrassato molto.
Una grande macchia livida gli balenava sotto il mento.

Allora mi afferravo il mento, continuando a mangiare distrattamente,
avvertendo nella mano i movimenti della mascella
come fosse staccata dalla testa e la reggessi nuda in mano.
Forse perciò sono ingrassata anch’io. Non so. Tutti parevano spaventati –
li vedevo ogni tanto dietro i vetri; – camminavano di traverso
come se zoppicassero, come se nascondessero qualcosa sotto il braccio. Il pomeriggio
suonavano a morto le campane. I mendicanti bussavano alle porte. Giú in fondo
la facciata di calce della Maternità, all’imbrunire, sembrava ancora piú bianca,
piú lontana e incomprensibile. Accendevamo presto le lampade. Aggiustavo
qualche mio vecchio abito. Poi si guastò anche la macchina per cucire; la trasportarono
giú in cantina assieme a quelle vecchie romantiche pitture a olio
con scene mitologiche banali – Anadiomeni, Aquile e Ganimedi.

Se ne sono andati uno dopo l’altro i vecchi amici. Diradata anche la corrispondenza.
Solo in occasione di qualche festa, di qualche compleanno, una cartolina breve –
un paesaggio stereotipato con le cime merlettate del Taigeto, molto azzurre,
un angolo dell’Eurota con i ciottoli bianchi e gli oleandri,
o le rovine di Mistrà con i fichi selvatici. Ma piú spesso
telegrammi di condoglianze. E mai una risposta. Forse
il destinatario era morto nel frattempo – non ne sapevamo di piú.

Mio marito aveva smesso di viaggiare. Non apriva piú un libro. Gli ultimi anni
era diventato nervosissimo. Fumava ininterrottamente. Di notte passeggiava
nel grande salone, con quelle pantofole marroni sfilacciate
e la lunga camicia da notte. Ogni mezzogiorno, a tavola, se ne veniva fuori
con l’infedeltà di Clitennestra o con la giusta azione di Oreste
come se proferisse una minaccia. Chi ci faceva caso? Non lo ascoltavo piú. Eppure
mi mancò molto quando morí – mi mancarono soprattutto quelle sue stupide minacce
come se proprio quelle mi destinassero un posto inamovibile nel tempo,
come se quelle mi impedissero di invecchiare.
                                                                                 Allora immaginavo
Ulisse, anche lui non invecchiato, col suo astuto berretto triangolare,
tirare in lungo il viaggio di ritorno, l’ingegnoso – col pretesto di pericoli fantasiosi,
mentre si abbandonava (sedicente naufrago) ora tra le braccia di Circe
ora tra quelle di Nausicaa, a farsi togliere dal petto le conchiglie, a farsi lavare
con saponette rosa, a farsi baciare la cicatrice sul ginocchio, a farsi spalmare d’olio.

Credo sia giunto a Itaca anche lui; – immagino l’avrà imbacuccato con le sue tele
la sgraziata e grassa Penelope. Da allora non ho piú avuto un suo messaggio –
può anche darsi li straccino le ancelle – a che servono ormai? Le Simplegadi
si sono trasferite altrove, in un luogo piú interno – le senti
immobili, ammorbidite – piú tremende di prima – non schiacciano,
annegano in un liquido denso e nero – non  c’è scampo per nessuno.

Ora puoi andare. Si è fatta notte. Ho sonno – poter chiudere gli occhi,
dormire, non vedere né fuori né dentro, dimenticare
la paura del sonno e quella del risveglio. Non ce la faccio. Trasalisco –
ho paura di non svegliarmi piú. Rimango insonne ad ascoltare
le ancelle che russano nel salone, i ragni sui muri,
gli scarafaggi in cucina, o i morti che respirano
sbuffando profondamente, quasi dormissero davvero, quasi si fossero acquietati.
Perdo perfino i miei morti adesso. Li ho perduti. Andati.

Certe volte, a mezzanotte passata, si ode giú in strada
il rumore ritmato degli zoccoli dei cavalli di una carrozza attardata, che sembra far ritorno
dalla rappresentazione funebre in un teatro pericolante di quartiere
con gli stucchi del soffitto staccati, coi muri scalcinati,
con un immenso sipario calato, rosso stinto,
ristretto dai troppi lavaggi – e dallo spazio in fondo
si intravedono i piedi scalzi del grande attrezzista o dell’elettricista
che forse arrotola un bosco di carta prima di spegnere le luci.
Quello spazio resta ancora illuminato, mentre giú in platea
lampadari e applausi sono spenti da tempo. Nell’aria
aleggia pesante il respiro del silenzio, e il ronzío del silenzio
sotto le sedie vuote, con bucce dei semi di girasole e biglietti sgualciti,
con qualche bottone, un fazzoletto con le trine, un pezzo di spago rosso.

… E quella scena, sulle mura di Troia – che fossi davvero ascesa al cielo
lasciandomi cadere dalla bocca…? – A volte mi avviene ancora di provare,
distesa qui sul letto, ad aprire le braccia, ad alzarmi
in punta di piedi − a poggiare i piedi in aria –  il terzo fiore –

(Tacque. Reclinò il capo all’indietro. Forse si era addormentata. L’altro si alzò. Non disse buonanotte. Era già buio ormai. Uscendo nel corridoio si accorse che le ancelle, incollate al muro, stavano origliando. Non fecero una piega. Scese la scala interna come se scendesse in un pozzo profondo, con la sensazione che non avrebbe trovato la porta per uscire – non c’era alcuna porta. Le dita contratte cercavano già la maniglia. Immaginò anzi che le sue mani fossero due uccelli boccheggianti per la mancanza d’aria, mentre allo stesso tempo sapeva che questa immagine non era se non l’espressione di autocommiserazione che di solito opponiamo a un timore indefinito. A un tratto si udirono voci di sopra. Si accesero le luci sulla scala, nel corridoio, nelle stanze. Salí di nuovo. Ora non aveva piú dubbi. La donna era seduta sul letto, il gomito appoggiato sul tavolino di zinco e la guancia sulla palma della mano. Le domestiche entravano, uscivano, facevano rumore. Qualcuno telefonava in corridoio. Sopraggiunsero le vicine. “Ah, ah”, facevano, e nascondevano qualcosa sotto le vesti. Di nuovo il telefono. Erano già arrivati i gendarmi. Mandarono via le ancelle e le vicine. Quelle fecero in tempo ad arraffare le gabbie coi canarini, alcuni vasi di piante esotiche, una radiolina a transistor, una stufetta elettrica. Una teneva un grande quadro d’oro. Adagiarono la defunta su una barella. L’ufficiale appose i sigilli alla casa – “finché si trovino gli eredi”, disse, – ben sapendo che non esistevano eredi. La casa sarebbe rimasta coi sigilli quaranta giorni, dopodiché i suoi beni – quelli scampati – sarebbero stati venduti all’asta per conto dello Stato. “All’obitorio”, disse all’autista. La vettura coperta si allontanò. Di colpo scomparve ogni cosa. Silenzio assoluto. Soltanto lui. Si voltò a guardare. Era sorta la luna. Le statue del giardino illuminate fiocamente – le statue di lei, solitarie, accanto agli alberi, fuori della casa coi sigilli. E una luna tranquilla, ingannatrice. Dove sarebbe andato adesso?)

Ghiannis Ritsos

Karlòvasi (Samo), maggio-agosto 1970

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Quarta dimensione”, Crocetti Editore, 2013

Il lume spento – Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

 

Vorrei – dice – lasciare a ciascuno di voi questo sguardo
di quieta ammirazione di fronte al tramonto. Vorrei anche
lasciarvi il triste ascolto
della voce desolata del pescivendolo nei mattini di luglio
e il ronzìo di un’ape dentro una rosa
e l’“ah” senza suono di una farfalla bianca di fianco al fiore viola.
Ma soprattutto vorrei lasciarvi il modo
in cui i colori mutano verso il rosa e l’argento
quando la porta si chiude e cade la penombra nelle stanze
e intanto gli specchi conservano intatta
l’immagine del mare, perciò si azzurrano le lenzuola
sul grande letto matrimoniale dei morti. Vorrei, però
in questo istante mi ha sorpreso l’Invisibile,
l’Ovunque Onnipresente, mi ha spento il lume
e non vedo più, né per mostrare né per camminare.

Ghiannis Ritsos

Karlòvasi, 31.VIII.87

da “L’albero nudo”, 1987, in “Molto tardi nella notte”, Crocetti Editore, 2020

∗∗∗

Τό σβησμένο φανάρι

θά  ᾽θέλᾳ – λέει – ν᾿ἀφήσω στόν ϰαθένα σας αὐτό τό βλέμμα
τοῦ ἤρεμου θαυμασμοῦ μπροστά στό λιόγερμα. Θά ᾽θέλᾳ ἀϰόμη
νά σᾶς ἀφήσω τό περίλυπο ἄϰουσμα
τῆς ἔρημης φωνῆς τοῦ ἰχθυοπώλη στά πρωινά τοῦ Ἰουλίου
ϰαί τό βόμβο τῆς μέλισσας μέσα σ᾿ ἕνα τριαντάφυλλο
ἢ τό ἄηχο «ἄχ» μιᾶς λευϰῆς πεταλούδας πλάι στό μὡβ λουλούδι.
Περισσότερο ἀπ᾿ ὅλα θά ᾽θελᾳ νά σᾶς ἀφήσω τόν τρόπο
τῆς ἀλλαγῆς τῶν χρωμάτων πρός τό ἀσῆμι ϰαί τό ρόδινο
ὅταν ἡ πόρτα ϰλείνει ϰαί σϰοτεινιάζουν τά δωμάτια
ϰι ὡστόσο οἱ ϰαθρέφτες διατηροῦν ἀνέπαφη
τήν εἰϰόνα τῆς θάλασσας, γι᾽ αὐτό γαλανίζουν τά σεντόνια
στό μεγάλο γαμήλιο ϰρεβάτι τῶν νεϰρῶν. Θά ᾽θελα ἀλλά
τούτη τήν ὥρα μέ πρόλαβε ὁ Ἀόρατος,
ὁ Πανταχοῦ ϰαί Πάντοτε Παρών, μοῦ ᾽σβησε τό φανάρι
ϰαί πιά δέ βλέπω οὔτε νά δείξω τίποτα ϰι οὔτε νά περπατήσω.

Γιάννης Ρίτσος

Καρλόβασι, 31.VIII.87

da “Το γυμνό δέντρο”, 1987, in “Ἀργά, πολύ ἀργά μέσα στή νύχτα”, Κέδρος, 1991

Addii – Ghiannis Ritsos

Andrew Wyeth, Moon Madness, 1982

 

Grandi stanze di vecchie case avite di provincia
piene di fischi di navi lontane, piene
di spenti rintocchi di campane e di battiti profondi
d’orologi antichissimi. Nessuno abita piú qui dentro
eccetto le ombre, e un violino appeso al muro,
e le banconote fuori corso sparse sulle poltrone
e sul letto largo con la coperta gialla. Di notte
scende la luna, passa davanti agli specchi esanimi
e coi gesti piú lenti rassetta dietro i vetri
i fischi d’addio delle navi affondate.

Ghiannis Ritsos

Karlòvasi 15.VΙΙΙ.1978

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Il funambolo e la luna”, Crocetti Editore, 1984

∗∗∗

Ἀποχαιρετισμοί

Μεγάλα δωμάτια παλιῶν αρχοντι ϰῶν στήν ἐπαρχία
γεμάτα ἀπό σφυρίγματα μα ϰρινῶν πλοίων, γεμάτα
ἀπό σβησμένες ϰαμπανο ϰρουσίες ϰαί βαθιούς χτύπους
πανάρχαιων ρολογιῶν. Κανείς δέν ϰατοι ϰεῖ ἐδώ μέσα
πάρεξ οί σ ϰιές, ϰι ἕνα βιολί ϰρεμασμένο στόν τοῖχο,
ϰαί τ’ ἄχρηστα χαρτονομίσματα σ ϰόρπια στίς πολυθρόνες
ϰαί τό φαρδύ ϰρεβάτι μέ τήν ϰίτρινη ϰουβέρτα. Τίς νύχτες
ϰατεβαίνει ἡ σελήνη, προσπερνάει τούς ἄπνοους ϰαθρέφτες
ϰαί μέ τίς πιό ἀργές χειρονομίες συγυρίζει πίσω ἀπ’ τά τζάμια
τ’ ἀποχαιρετιστήρια σφυρίγματα τῶν βυθισμένων πλοίων.

Γιάννης Ρίτσος

Καρλόβασι, 15.VΙΙΙ.1978

da “Ό σχοινοβάτης καί ή σελήνη”, 1982