La risposta del poeta ad Harun al Rashid – Roberto Mussapi

Foto di Patty Maher

 

Una notte in cui l’azzurro era più intenso
tra lo stormire delle fronde Harun decise
e guardando lontano, oltre le dune, gli chiese direttamente,
«Perché piangi, Omar? quando siamo in viaggio,
perché intoni le tue rime a un lamento di passero
quando guardi l’alone della luna e brillano le torce,
ed è ancora lontana la data del ritorno,
a Bassora, dove lei ti attende?
Io posso piangere, perché lei lontana mi è assente
e la sua immagine sfuma nel calore del deserto
scivolando dalle mie dita come sabbia,
e con l’immagine si dilegua la sua anima,
viva solo nel desiderio e nella distanza,
ma tu che fai vivere la tua donna nel canto,
che in questo istante la evochi nella voce e nel volto
oltre la finestra da cui guarda e ti aspetta,
oltre il succedersi delle notti nel deserto,
in una luce chiara e costante?
Tu puoi rendere presente adesso il suo respiro e il suo volto,
molto più del mago col genio della lampada,
perché tu evochi una persona vivente,
e non annulli la realtà ma la distanza,
e amore, non meraviglia genera il tuo miracolo».
«Come sbagli, mio signore,
a non sospettare che sia lo stesso
per te e per me, la separazione, intendo.
La separazione e basta, perché per il resto io sto peggio:
lei assente da te, muta, non ti frequenta,
ma solo attende il tempo del tuo ritorno.
Non è così per me, perché io ho in me la sua forma,
e la parola e le forze suscitanti,
e la tecnica di quello che tu chiami il mio miracolo,
ma anche il segreto di tutto questo,
incluso nella sua voce, materia prima,
la luce, la fonte,
così la mia arte è uno spasimo senza oggetto
una preghiera disertata dalla grazia,
forze in tensione che attendono un cenno.
A te, lontano da lei, manca una donna,
a me, se lei non c’è, manca me stesso.»

Roberto Mussapi

da “La polvere e il fuoco”, “Lo Specchio” Mondadori, 1997 

La piuma del Simorgh – Roberto Mussapi

Minor White, Hexagram (Chichi) Water over Fire, 1958

 

La luce non si attenua mai, si spegne.
Come l’uccello che conosciamo, per rinascere.
È un inganno credere che qualcosa passi dal tempo
in cui fu pieno, a una senescenza.
Non c’è intervallo nel fuoco, c’è spegnimento
perché le braci si riaccendano, tu ti riaccendi.
Non era quello che avevo appreso un tempo,
l’attenuazione della fiamma, il crepuscolo.
Non esiste un tempo intermedio,
tu passi e affoghi per rinascere,
questo è già scritto, nel fondo del mare,
impresso nelle cifre del corallo.
La vita che ti fece fu ambigua, e generosa,
tu le appartieni, sei tu che la fai vivere.
Ora che sta piovendo i passi si allontanano,
i tram sferragliano e sembra pioverà sempre,
ma c’è una porta, mai vista o spalancata di colpo.
Tu credi che il buio si avvicini, ma già incombe
la notte e il sogno che ti prende e abbraccia.
Ognuno si culla in un sogno spesso debole e incerto
per la paura del mattino, del canto del gallo
quando le ombre cadono e tu viva
stai conducendo il globo al suo risveglio.
Non era quello che avevo appreso un tempo,
il lento divenire e la trasformazione del giorno
in una quiete muta, priva di stelle.
C’è solo, tu l’hai svelato, un incessante fuoco che rigenera.

Roberto Mussapi

da “La piuma del Simorgh”, “Lo Specchio” Mondadori, 2016

Every beat of my heart – Roberto Mussapi

Foto di Nicholas Buer

 

Non so vedere il Carro, da millenni,
vederlo come figura piena, intera,
come lo vide, ultimo, Platone sognando,
non sento il brivido del suo movimento nel cielo,
alto, lontano, irraggiungibile.
E non credo che mai le mie lacrime
possano svaporare in limpida rugiada,
né tramutarsi in perle i miei occhi,
né le mie labbra ritornare corallo.
Eppure qualcosa, sento, sta mutando
in me come nel tempo, indissolubili
l’uno dall’altro come la storia e il sangue.
Mi sono accorto all’improvviso che ogni giorno
io muoio e rinasco mille volte
ad ogni battito delle sue ciglia, il buio
eterno di quell’istante e la luce
gloriosa, piena del risveglio.
Io sto viaggiando sul Carro, nei suoi occhi,
il cielo da tempo canta nel volto.
Ora come in un sogno bianco del mattino
sento che il teschio di Yorik nella fossa
nell’incubo di Elsinore e dei suoi spalti
giaceva in attesa di risorgere.
E che il deserto forse fu creato
per rendere infallibile il miraggio.
Questo è un tempo di rinascita, io sento
in ogni battito del mio cuore un mutamento
in qualche cosa di inusitato e strano
che un giorno vidi nel Carro, poi nei suoi occhi.

Roberto Mussapi

da “La piuma del Simorgh”, “Lo Specchio” Mondadori, 2016

La canoa – Roberto Mussapi

Mario Giacomelli, Caroline Branson, da “Omaggio a Spoon River”, 1971 – ’72 – ’73

 

Ricordi le galassie? E noi moltiplicati
e scissi in infiniti atomi di luce, nel cielo,
lo stesso dove oggi guardiamo la luna,
ricordi la pantera, l’orso, il cavallo, il bisonte,
i primi dèi?
E la mano, la mano che li dipinse nella parete
della caverna per accendere fuochi,
per iniziare i cacciatori, pregare,
ricordi quelle giovani preghiere?
Ricordi il buio, la grotta, la paura,
la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata,
e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini?

Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo
sentendo nella sua corsa la forza del dio?
E come volevamo correre in lui,
e superare la vita, non morire?
Ricordi quando scendemmo a terra, primati, come guardavamo
come dalle fronde guardavamo il cielo?
Ricordi che eravamo caduti e nuovi,
e piangevamo quando calava la sera che respiravamo
e al mattino la luce ci svegliava e avevamo fame…
Ricordi quando costruimmo la prima canoa, seguire il fiume,
verso quel mare che ci appariva in sogno?
Ricordi quel baule, secoli dopo, nella stiva?
Brillava nel buio, sentivi lo sciacquio,
ricordi quello scrigno, il suo mistero?
Che cosa conterrà, ci chiedevamo.
Ora, migliaia di anni dopo quell’aurora
e secoli dalla lunga navigazione (le Indie, le isole d’oro,
le infinite barriere coralline,
e il tramonto improvviso, Maracaibo,
Giamaica, Panama, Guadalupa
sillabe risalite dai fondali)
ricordo, all’improvviso, ricordo ora
che conteneva la mia vita e la tua
e i nostri sogni affidati al fiume
sfociante ora qui in questo braccio di mare
qui e ora e per sempre da prima di allora.

Roberto Mussapi

da “La stoffa dell’ombra e delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2007

Viaggio in una stiva – Roberto Mussapi

Roberto Mussapi, foto di Dino Ignani

Prologo

Non buio, ma la luce dei dormienti, come figure
logorate dal cielo troppo spesso, ora, riposa
quel corpo conosciuto da altri viventi
ora solo. Ho udito, mormora
dal fondo della quiete apparente. Ma era
vera, e non è lei che mormora.

Voce

Poi, nella stiva i suoni battevano sulle mie ossa
e sotto il ventre tonfi sordi, di gomma
«Chiudete i cassetti, fermate i travi
di questa traversata orrenda», poi, sulla guancia
sinistra l’acqua intiepidita dalla mia guancia
impregnata di legno, e lei parlava senza essere
udita, la mente sbranata dai cani bianchi
«rendetele almeno…» ma non era più lei
il mormorio era acqueo, padrone di se stesso.

*

L’immagine si è fermata e nella mente stride
lo strappo del filo trasparente. Odore
di cellulosa, mentre si era svegliata
la vista, gli occhi, conoscevo i miei occhi:
non buio, perché un sedile luccicava, a sinistra,
ma dall’altra parte il rullio mi feriva la testa

e qualche goccia sul pavimento nero minacciava
di splendere. Attende, anche lei
la veglia, qualcuno dietro la porta
ha acceso la luce: una sciabola distesa
su questo pavimento: ma forse non è ancora in te
non sembra attendere, forse si scioglierà
sul pavimento, prima di averti benedetto.

*

Ero girato e sul torace premevano le acque
lontane forse, ma senza contatto, senza orecchi
era solo il loro peso la mia conoscenza.

*

Poi come cellule si sono spente le finestre
e una corrente verde chiara passando sulle palpebre
ha restituito il profondo: senza luce
ma in movimento qualcosa accadeva
e c’era lui, mio conosciuto, nel mezzo.

*

«Seppellite queste travi negli occhi, lasciate
che i becchi nascosti perforino all’osso…»
ma non dimenticava la prima acqua sulla guancia
odorosa di legno, la propria carne ferita

le navi che facevano vela sul suo corpo
oltre quel buio addormentato, che spezzava lo sterno.

*

Sono scesi altri fiumi di colpi gracidanti
mentre la lama sottile splende ancora, distante.
Chiunque la invocò l’aveva già dentro
e lo splendore attendeva se stesso.

*

Dove si è spenta la luce e le sponde si sono ricongiunte
io mi sento, me stesso nella lampada che oscilla
fuori: dal cigolio, da una ferita gialla
penetrata nelle tempie a intervalli:
io, ho detto, io, qui, e non è muschio questa
ma acqua stagnante su legno d’abete e voi
i dipartiti le frecce di una forza che ricordo
non la memoria, non i sepolti.

*

Se toccheranno terra io sarò serrato nel loro
cuore come in questa stiva prigioniero.

Epilogo

Poi tra i frutti d’oro le ombre sono scomparse
e la voce di ognuno si è inginocchiata tra gli aranci,
restate così lontani dalla marea e dalle mie
costole, non progettate altro che già non sia stato
ognuno entrerà nel respiro e poi si perderà
nell’aria, uccidendo gli alberi bui e i gatti addormentati
penetrando i portoni chiusi, a ottobre, per il primo freddo,
incontrando la propria madre su un sentiero di pietra
e la sveglia non stupirà le mani intorpidite
nessuno chiederà perdono e limbo a quello squillo
quando la luce dalla fessura della persiana illumina
il corpo bianco sotto il suo lenzuolo, e il giorno
che lo aspetta, lasciate vuote le scarpe, buie
addormentate sul tappeto, in ordine, l’allarme
entra con ogni fiotto di sangue nel cervello, e la carne
povera splenderà in silenzio.

Roberto Mussapi

da “Luce frontale”, Jaca Book, 1998