Ardore e silenzio – Piero Bigongiari

Foto da “La jetéé”, di Chris Marker, 1962

 

I ponti verdi sulla piena soffocano
il tuo richiamo
in un lume di secoli aberrante
dove i cupi giacinti e la tua mano
sprigionano un odore penetrante;

dove l’ombra rinfocola pe’ muri,
ora fiamma ora cenere ora croco,
lo sguardo innamorato ancora un poco
di sé, forse il tuo pure
è un ricordo, il tuo segno è troppo oltre.

Piero Bigongiari

da “La figlia di Babilonia”, 1942, in “Stato di cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 1968

È l’istante che è eterno – Piero Bigongiari

Edvard Munch, Kiss by the window, 1892

 

È l’istante che è eterno: non ha fine
che fuor di sé; esplode nel suo interno
il segno, il sogno, di ciò che non è
il tempo, la cui aureola già si attenua.

Il vento che s’è fatto impetuoso
mescola fuoco e cenere, intriga
nel suo più ingeneroso antiattimo
il suo ormai impossibile riposo.

Sono qui, tu gli gridi, sono qui,
i nidi sono pieni degli implumi
che attendono le ali tra i barlumi
della tempesta. È ciò che di me resta

degli istanti fatali di una festa
racchiuso nei suoi numeri immortali.
Il piede già non calpesta le orme
della sua ultima mutazione.

Tutto dorme, anche la felicità
in questo tramutarsi delle forme
nella loro forse ultima realtà.

Piero Bigongiari 

22 settembre 1997

da “Il silenzio del poema. Poesie 1996-1997”, Genova, Marietti, 2003

Sguardo obliquo – Piero Bigongiari

Germaine Krull, Etude

 

La tua pupilla si nasconde in fondo
al cavo dove spuntano le lacrime
ma è forse per raggiungervi il rotondo
spuntare della certezza, tu certo
non guardi altrove. Se l’altrove è qui,
se l’altrove è in questo spuntino mesto
di luce sul bicchiere, se l’altrove è di altre sere
che queste dove punta tutto, il tuo tacco
sulla pietra sicura di questa tua morte che cammina
non celebrata su altra pietra, se
la sorte è quella del passero ancora bagnato dall’uovo,
se non vi è altro ritrovo che questo punto di diffrazione
che ci unisce alle vene aperte dell’universo
che quasi, o quasar, ne sfiorano lambendola la curvatura
delle tue ciglia corrugate nelle mie mani.

E io che cosa dono se non quello che non mi appartiene
a chi aspetta ch’io parli. Tu parola
chiudi gli occhi per aprirli nell’interno stesso granato
del rimorso, s’io le fila imbroglio che l’aspo
impazzito annaspando rimette nel suo ordine opposto.
Tu parola sai ch’io non obbedirò,
sai che altri fiori virulentano i muri che voltano
dove la curva si fa più stretta, quasi al limite del bacio,
del bacio inviato per posta per non tradirsi labbro a labbro.

O mie labbra, o mie tenere labbra della ferita,
so bene che dal vostro bacio scoccherà gutturale
come tra i suoi pochi capelli bagnati una creatura,
ma lo zampillo che tra le labbra spiccherà,
sia una parola o il gemito incipiente d’una creatura,
io avrò visto nel segreto del mondo sigillarsi una busta
senza mittente né destinatario, forse nemmeno scritta,
forse uno scherzo divenuto serio avviandosi con enorme ritardo dove non era indirizzato.

                                                                                                        S’aprono fra scintille
di nettare altre amarezze, le più soavi, nel bicchiere posato
tra me e te come un vulcano se ti rivolti tra le mie braccia
e mi bruci qua e là con le cicche semispente del tuo sguardo consumato
tra i pruni ardenti dove qualcuno – rassèttati – può apparire all’improvviso:
da non raccogliere, esse, nel piattino della cenere, da lasciare
nel vento infuocato che chiude, o apre, le persiane e non sai
se è l’acrobata sul filo scorto un dì altissimo su una piazza dimenticata
che entra stavolta – ce l’ha fatta – per la tua finestra
o è l’occhio della volpe che scantona rotondo e mobilissimo tra le saggine.
Comunque senza rete, l’imprendibile non vi cade né vi si ravvolge,
preda mancata che, bava di fumo, svolta al primo rannuvolarsi
di quest’altro nostro opposto ma concorde perché opposto
respirare via via più aspro nel carbonio sempre più sottile e
impercettibile dell’amore.

Piero Bigongiari

29 gennaio ’74

da “Il tuo amore si è fermato sotto un sicomoro”, in “Moses, Frammenti del poema”, “Lo Specchio” Mondadori, 1979

Salamandra – Piero Bigongiari

Edward Steichen, Louise Brooks, 1928

 

Il tuo occhio guarda nel fuoco
la visione brucia
un gelo nutre il seme della luce
nel ghiaccio, la banchisa
celeste si sfa.
Io non so quel che è stato
la terra si cretta, escono scorpioni
il ragno sale al centro della tela
il mare opina
che il sole esiste per tingersi di terra
sulle acque pensieroso.
Non oso, amore, non oso
chiamarti.
Appoggiata a una domanda non è una risposta
ma tutto l’amore del mondo
è una parola.

Piero Bigongiari

 da “Antimateria”, “Lo Specchio” Mondadori, 1972

Ho amato addolcire l’amarezza – Piero Bigongiari

Édouard Boubat, Lella, Bretagne, 1847

 

Ho amato addolcire l’amarezza
quando era più profonda
come una brezza non sa quel che sfiora,
ho amato dire no, dire sì
davanti all’incertezza come se
ne sapessi qualcosa, come l’onda
ne sapesse qualcosa della sponda.

                                                                    Era in te
che cresceva il profumo di una rosa
rapito dall’odorare del vento,
in te che l’orrore e la dolcezza
rendevano immedicabile, impossibile.
Ho amato con quel goccio di angostura,
nella tua lacrima più pura,
amareggiare il tuo sguardo che dura
al di là di ogni pianto, cristallino
a versare natura nell’enigma.

Sei la speranza e la disperazione.
La lezione non è finita, il kérigma
trema più a fondo quanto più a fondo
incide e fruga dentro la ferita.
La passione più alta dell’amore
ne è al di là: è la sua compassione

il fragile tremare di un filo
d’erba nel vento. Forse l’agitarsi
di ogni atto è nel cuore dell’evento
l’occulta felicità del dolore.

Ti ho atteso dove sapevo
che non saresti passata
per dirti, mia fata, quanto ti amo.
Non misuravo la distanza, l’essere
non ha distanza, ma solo dolore
mentre lavora l’esistenza e mira
a ferire il non essere che è
il suo più oscuro essere nel cuore.

Piero Bigongiari

28-29 agosto 1991

da “Radure”, in “Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996