Non ho mai saputo il tuo nome… – Maria do Rosário Pedreira

Eva Besnyö, Sans titre, 1934

 

Non ho mai saputo il tuo nome. Entrasti un pomeriggio,
per sbaglio, a domandare se ero io un’altra persona –
un sole che improvvisamente aggiungeva calce ai muri,
un incendio capace di divorare il cuore del mondo.

Non ti mentii; mi alzai e ti condussi alla porta giusta
come un veliero trascina i sogni in mare; ma,
prima di lasciarti, ti dissi ancora che in quel pomeriggio
mi sarebbe piaciuto molto chiamarmi un’altra cosa – o
essere un gatto, per poter avere più di una vita.

Maria do Rosário Pedreira

(Traduzione di Mirella Abriani)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXV, Ottobre 2012, N. 275, Crocetti Editore

***

Nunca soube o teu nome…

Nunca soube o teu nome. Entraste numa tarde,
por engano, a perguntar se eu era outra pessoa –
um sol que de repente acrescentava cal aos muros,
um incêndio capaz de devorar o coração do mundo.

Não te menti; levantei-me e fui levar-te à porta certa
como um veleiro arrasta os sonhos para o mar; mas,
antes de te deixar, disse-te ainda que nessa tarde
bem teria gostado de chamar-me outra coisa – ou
de ser gato, para poder ter mais do que uma vida.

Maria do Rosário Pedreira

da “Nenhum Nome Depois”, Editor Gótica, Lisboa, 2004

Tabaccheria – Fernando Pessoa

Andrew Wyeth, Night Shadow, 1979

 

Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso voler essere niente.
A parte ciò, ho in me tutti i sogni del mondo.

Finestre della mia camera,
della mia camera di uno dei milioni del mondo che nessuno sa chi è
(e se sapessero chi è, che cosa saprebbero?),
date sul mistero di una strada attraversata costantemente da gente,
su una strada inaccessibile a tutti i pensieri,
reale, impossibilmente reale, certa, sconosciutamente certa,
col mistero delle cose sotto le pietre e gli esseri,
con la morte che insinua umidità nelle pareti e capelli bianchi negli uomini,
col Destino che guida la carretta di tutto per la strada di niente.

Oggi sono vinto, come se sapessi la verità.
Oggi sono lucido, come se stessi per morire,
e non avessi altra fratellanza con le cose
che un commiato, e questa casa e questo lato della strada diventassero
la fila di vagoni di un treno, e una partenza fischiata
dal dentro della mia testa,
e una scossa dei miei nervi e uno scricchiolio di ossa nell’avvio.

Oggi sono perplesso, come chi ha pensato e trovato e scordato.
Oggi sono diviso fra la lealtà che devo
alla Tabaccheria dirimpetto, come cosa reale dal di fuori,
e alla sensazione che tutto è sogno, come cosa reale dal di dentro.

Ho fallito in tutto.
Poiché non ho fatto nessun proposito, forse tutto era niente.
Dall’insegnamento che mi hanno dato
sono sceso attraverso la finestra del retro.
Sono andato fino in campagna con grandi propositi.
Ma là ho trovato solo erbe e alberi,
e quando c’era gente era uguale all’altra gente.
Mi allontano dalla finestra, mi seggo su una sedia. A che devo pensare?

Che cosa so di quel che sarò, io che non so cosa sono?
Essere ciò che penso? Ma penso di essere tante cose!
E ci sono tanti che pensano di esser la stessa cosa che non ce ne possono essere tanti!
Genio? In questo momento
centomila cervelli si credono in sogno geni come me,
e la storia non ne registrerà, chissà?, neppure uno,
e non resterà che letame di tante conquiste future.
No, non credo in me.
In tutti i manicomi ci sono pazzi insensati con tante certezze!
Io, che non ho nessuna certezza, sono più certo o meno certo?
No, neppure in me…
In quante mansarde e non-mansarde del mondo
non staranno sognando a quest’ora geni-per-se-stessi?
Quante aspirazioni alte e nobili e lucide
− sì, proprio alte e nobili e lucide −,
e magari anche realizzabili,
non vedranno mai la luce del sole reale né troveranno ascolto?
Il mondo è di chi nasce per conquistarlo
e non di chi sogna di conquistarlo, anche se ha ragione.
Ho sognato più di quanto Napoleone non abbia realizzato.
Ho stretto al petto ipotetico più umanità di Cristo,
in segreto ho fatto filosofie che nessun Kant ha mai scritto.
Ma sono, e forse resterò sempre, quello della mansarda,
anche se non ci abito;
sarò sempre quello che non era fatto per questo;
sarò sempre soltanto quello che aveva qualità;
sarò sempre quello che si aspettò gli aprissero la porta in una parete senza porta
e cantò la canzone dell’Infinito in un pollaio,
e sentì la voce di Dio in un pozzo tappato.
Credere in me? No, né in niente.
Che la Natura mi sparga sulla testa ardente
il suo sole, la sua pioggia, il vento che mi trova i capelli,
e il resto che venga se verrà, o se deve venire, oppure non venga.

Schiavi cardiaci delle stelle,
abbiamo conquistato il mondo prima di alzarci dal letto;
ma ci siamo svegliati ed esso è opaco,
ci siamo alzati ed esso è estraneo,
siamo usciti di casa ed esso è la Terra intera,
più il sistema solare e la Via Lattea e l’Indefinito.

(Mangia i cioccolatini, piccola;
mangia i cioccolatini!
Bada che al mondo non c’è altra metafisica che la cioccolata.
Bada che tutte le religioni non insegnano più della confetteria.
Mangia, bambina sporca, mangia!
Potessi io mangiare cioccolata con la stessa verità con cui la mangi tu!
Ma io penso: e quando tolgo la carta argentata, che poi è di stagnola,
butto tutto per terra, come ho buttato la vita).

Ma almeno resta, dell’amarezza di ciò che mai sarò,
la calligrafia rapida di questi versi,
portico rotto sull’Impossibile.
Ma almeno riservo a me stesso un disprezzo senza lacrime,
nobile almeno nel gesto ampio con cui getto
i panni sporchi che io sono, senza elenco, sul decorso delle cose,
e resto in casa senza camicia.

(Tu che consoli, che non esisti e per questo consoli,
dea greca, concepita come statua vivente,
o patrizia romana, impossibilmente nobile e mefasta,
o principessa di trovatori, gentilissima e colorita,
o marchesa del Settecento, scollata e glaciale,
o cocotte celebre del tempo dei nostri padri,
o non so che cosa moderno − proprio non saprei cosa −,
tutto questo, qualunque cosa tu sia, se può ispirare che ispiri!
Il mio cuore è un secchio svuotato.
Come quelli che invocano spiriti invocano spiriti invoco
me stesso e non trovo niente.
Mi avvicino alla finestra e vedo la strada con una nitidezza assoluta.
Vedo le botteghe, vedo i marciapiedi, vedo le automobili che passano,
vedo gli enti vivi vestiti che si incrociano,
vedo i cani, che anch’essi esistono,
e tutto questo mi pesa come una condanna all’esilio,
e tutto questo è straniero, come tutto).

Ho vissuto, studiato, amato e perfino creduto,
e oggi non c’è accattone che io non invidi solo perché non è me.
Guardo gli stracci e le piaghe e le menzogne di ciascuno
e penso: forse non hai mai vissuto né studiato né amato né creduto
(perché è possibile fare la realtà di tutto questo senza far niente di questo);
forse sei solo esistito, come una lucertola cui tagliano la coda
e che è coda al di qua della lucertola agitatamente.

Ho fatto di me quanto non ho saputo,
e quanto potevo fare di me non l’ho fatto.
Il domino che ho indossato era sbagliato.
Mi hanno subito riconosciuto per chi non ero, e non l’ho smentito e mi sono perso.
Quando ho voluto togliermi la maschera,
era attaccata al mio viso.
Quando l’ho tolta e mi sono visto allo specchio,
ero già invecchiato.
Ero ubriaco, non sapevo indossare il domino che non mi ero tolto.
Ho buttato via la maschera e ho dormito nel guardaroba
come un cane tollerato dalla gestione
perché è inoffensivo,
e voglio scrivere questa storia per provare che sono sublime.

Essenza musicale dei miei versi inutili,
magari potessi incontrarti come una cosa fatta da me
e non restassi sempre dirimpetto alla Tabaccheria dirimpetto
calpestando la coscienza di stare esistendo
come un tappeto in cui un ubriaco inciampa
o uno zerbino rubato dagli zingari che non valeva niente.

Ma il Padrone della Tabaccheria si è fatto sulla porta e vi è rimasto.
Lo guardo col disagio che dà la testa girata a metà
e col disagio che dà l’animo quando ha per metà inteso.
Lui morirà e io morirò.
Lui lascerà l’insegna, io lascerò dei versi.
A un certo momento morirà anche l’insegna, e anche i versi.

Poi morirà la strada dove fu l’insegna
e la lingua in cui furono scritti i versi.
Infine morirà il pianeta ruotante in cui tutto ciò avvenne.
In altri satelliti di altri sistemi, qualcosa simile a gente
continuerà a fare cose come versi e a vivere sotto cose come insegne,
sempre una cosa di fronte all’altra,
sempre una cosa inutile quanto l’altra,
sempre l’impossibile stupido quanto il reale,
sempre il mistero del fondo, certo come il sonno del mistero della superficie,
sempre questo o sempre un’altra cosa, oppure né una cosa né l’altra.

Ma un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?),
e la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me.
Mi raddrizzo energico, convinto, umano,
e mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario.

Accendo una sigaretta meditando di scriverli
e assaporo in essa la liberazione di tutti i pensieri.
Seguo il fumo come una rotta autonoma
e godo, in un momento sensitivo e competente,
la liberazione da tutte le speculazioni
e la consapevolezza che la metafisica è l’effetto di un’indisposizione.

Poi mi reclino sullo schienale della sedia
e continuo a fumare.
Finché il Destino me lo concederà, continuerò a fumare.

(Se sposassi la figlia della mia lavandaia
forse sarei felice).
Stabilito questo, mi alzo e vado alla finestra.

L’uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?).
Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica.
(Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia).
Come per istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto.
Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato «Ciao Esteves!», e l’universo
mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il Padrone della Tabaccheria ha sorriso.

Fernando Pessoa

15 gennaio 1928
Pubblicato in «Presença », 39 luglio 1933

(Traduzione di Antonio Tabucchi)

da “Poesie di Álvaro de Campos”, Adelphi Edizioni, 1993

***

Tabacaria

Não sou nada.
Nunca serei nada.
Não posso querer ser nada.
À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.

Janelas do meu quarto,
Do meu quarto de um dos milhões do mundo que ninguém sabe quem é
(E se soubessem quem é, o que saberiam?),
Dais para o mistério de uma rua cruzada constantemente por gente,
Para uma rua inacessível a todos os pensamentos,
Real, impossivelmente real, certa, desconhecidamente certa,
Com o mistério das coisas por baixo das pedras e dos seres,
Com a morte a por umidade nas paredes e cabelos brancos nos homens,
Com o Destino a conduzir a carroça de tudo pela estrada de nada.

Estou hoje vencido, como se soubesse a verdade.
Estou hoje lúcido, como se estivesse para morrer,
E não tivesse mais irmandade com as coisas
Senão uma despedida, tornando-se esta casa e este lado da rua
A fileira de carruagens de um comboio, e uma partida apitada
De dentro da minha cabeça,
E uma sacudidela dos meus nervos e um ranger de ossos na ida.

Estou hoje perplexo, como quem pensou e achou e esqueceu.
Estou hoje dividido entre a lealdade que devo
À Tabacaria do outro lado da rua, como coisa real por fora,
E à sensação de que tudo é sonho, como coisa real por dentro.

Falhei em tudo.
Como não fiz propósito nenhum, talvez tudo fosse nada.
A aprendizagem que me deram,
Desci dela pela janela das traseiras da casa.
Fui até ao campo com grandes propósitos.
Mas lá encontrei só ervas e árvores,
E quando havia gente era igual à outra.
Saio da janela, sento-me numa cadeira. Em que hei de pensar?

Que sei eu do que serei, eu que não sei o que sou?
Ser o que penso? Mas penso tanta coisa!
E há tantos que pensam ser a mesma coisa que não pode haver tantos!
Gênio? Neste momento
Cem mil cérebros se concebem em sonho gênios como eu,
E a história não marcará, quem sabe?, nem um,
Nem haverá senão estrume de tantas conquistas futuras.
Não, não creio em mim.
Em todos os manicômios há doidos malucos com tantas certezas!
Eu, que não tenho nenhuma certeza, sou mais certo ou menos certo?
Não, nem em mim…
Em quantas mansardas e não-mansardas do mundo
Não estão nesta hora gênios-para-si-mesmos sonhando?
Quantas aspirações altas e nobres e lúcidas –
Sim, verdadeiramente altas e nobres e lúcidas -,
E quem sabe se realizáveis,
Nunca verão a luz do sol real nem acharão ouvidos de gente?
O mundo é para quem nasce para o conquistar
E não para quem sonha que pode conquistá-lo, ainda que tenha razão.
Tenho sonhado mais que o que Napoleão fez.
Tenho apertado ao peito hipotético mais humanidades do que Cristo,
Tenho feito filosofias em segredo que nenhum Kant escreveu.
Mas sou, e talvez serei sempre, o da mansarda,
Ainda que não more nela;
Serei sempre o que não nasceu para isso;
Serei sempre só o que tinha qualidades;
Serei sempre o que esperou que lhe abrissem a porta ao pé de uma parede sem porta,
E cantou a cantiga do Infinito numa capoeira,
E ouviu a voz de Deus num poço tapado.
Crer em mim? Não, nem em nada.
Derrame-me a Natureza sobre a cabeça ardente
O seu sol, a sua chava, o vento que me acha o cabelo,
E o resto que venha se vier, ou tiver que vir, ou não venha.
Escravos cardíacos das estrelas,
Conquistamos todo o mundo antes de nos levantar da cama;
Mas acordamos e ele é opaco,
Levantamo-nos e ele é alheio,
Saímos de casa e ele é a terra inteira,
Mais o sistema solar e a Via Láctea e o Indefinido.

(Come chocolates, pequena;
Come chocolates!
Olha que não há mais metafísica no mundo senão chocolates.
Olha que as religiões todas não ensinam mais que a confeitaria.
Come, pequena suja, come!
Pudesse eu comer chocolates com a mesma verdade com que comes!
Mas eu penso e, ao tirar o papel de prata, que é de folha de estanho,
Deito tudo para o chão, como tenho deitado a vida.)

Mas ao menos fica da amargura do que nunca serei
A caligrafia rápida destes versos,
Pórtico partido para o Impossível.
Mas ao menos consagro a mim mesmo um desprezo sem lágrimas,
Nobre ao menos no gesto largo com que atiro
A roupa suja que sou, em rol, pra o decurso das coisas,
E fico em casa sem camisa.

(Tu que consolas, que não existes e por isso consolas,
Ou deusa grega, concebida como estátua que fosse viva,
Ou patrícia romana, impossivelmente nobre e nefasta,
Ou princesa de trovadores, gentilíssima e colorida,
Ou marquesa do século dezoito, decotada e longínqua,
Ou cocote célebre do tempo dos nossos pais,
Ou não sei quê moderno – não concebo bem o quê –
Tudo isso, seja o que for, que sejas, se pode inspirar que inspire!
Meu coração é um balde despejado.
Como os que invocam espíritos invocam espíritos invoco
A mim mesmo e não encontro nada.
Chego à janela e vejo a rua com uma nitidez absoluta.
Vejo as lojas, vejo os passeios, vejo os carros que passam,
Vejo os entes vivos vestidos que se cruzam,
Vejo os cães que também existem,
E tudo isto me pesa como uma condenação ao degredo,
E tudo isto é estrangeiro, como tudo.)

Vivi, estudei, amei e até cri,
E hoje não há mendigo que eu não inveje só por não ser eu.
Olho a cada um os andrajos e as chagas e a mentira,
E penso: talvez nunca vivesses nem estudasses nem amasses nem cresses
(Porque é possível fazer a realidade de tudo isso sem fazer nada disso);
Talvez tenhas existido apenas, como um lagarto a quem cortam o rabo
E que é rabo para aquém do lagarto remexidamente
Fiz de mim o que não soube
E o que podia fazer de mim não o fiz.
O dominó que vesti era errado.
Conheceram-me logo por quem não era e não desmenti, e perdi-me.
Quando quis tirar a máscara,
Estava pegada à cara.
Quando a tirei e me vi ao espelho,
Já tinha envelhecido.
Estava bêbado, já não sabia vestir o dominó que não tinha tirado.
Deitei fora a máscara e dormi no vestiário
Como um cão tolerado pela gerência
Por ser inofensivo
E vou escrever esta história para provar que sou sublime.

Essência musical dos meus versos inúteis,
Quem me dera encontrar-me como coisa que eu fizesse,
E não ficasse sempre defronte da Tabacaria de defronte,
Calcando aos pés a consciência de estar existindo,
Como um tapete em que um bêbado tropeça
Ou um capacho que os ciganos roubaram e não valia nada.

Mas o Dono da Tabacaria chegou à porta e ficou à porta.
Olho-o com o deconforto da cabeça mal voltada
E com o desconforto da alma mal-entendendo.
Ele morrerá e eu morrerei.
Ele deixará a tabuleta, eu deixarei os versos.
A certa altura morrerá a tabuleta também, os versos também.
Depois de certa altura morrerá a rua onde esteve a tabuleta,
E a língua em que foram escritos os versos.
Morrerá depois o planeta girante em que tudo isto se deu.
Em outros satélites de outros sistemas qualquer coisa como gente
Continuará fazendo coisas como versos e vivendo por baixo de coisas como tabuletas,

Sempre uma coisa defronte da outra,
Sempre uma coisa tão inútil como a outra,
Sempre o impossível tão estúpido como o real,
Sempre o mistério do fundo tão certo como o sono de mistério da superfície,
Sempre isto ou sempre outra coisa ou nem uma coisa nem outra.

Mas um homem entrou na Tabacaria (para comprar tabaco?)
E a realidade plausível cai de repente em cima de mim.
Semiergo-me enérgico, convencido, humano,
E vou tencionar escrever estes versos em que digo o contrário.

Acendo um cigarro ao pensar
em escrevê-los
E saboreio no cigarro a libertação de todos os pensamentos.
Sigo o fumo como uma rota própria,
E gozo, num momento sensitivo e competente,
A libertação de todas as especulações
E a consciência de que a metafísica é uma consequência de estar mal disposto.

Depois deito-me para trás na cadeira
E continuo fumando.
Enquanto o Destino mo conceder, continuarei fumando.

(Se eu casasse com a filha da minha lavadeira
Talvez fosse feliz.)
Visto isto, levanto-me da cadeira. Vou à janela.
O homem saiu da Tabacaria (metendo troco na algibeira das calças?).
Ah, conheço-o; é o Esteves sem metafísica.
(O Dono da Tabacaria chegou à porta.)
Como por um instinto divino o Esteves voltou-se e viu-me.
Acenou-me adeus, gritei-lhe «Adeus ó Esteves!», e o universo
Reconstruiu-se-me sem ideal nem esperança, e o Dono da Tabacaria sorriu.

Fernando Pessoa

da “Álvaro de Campos, Poesia”, Assírio & Alvim, Lisboa, 2002

da «Il passaggio delle ore» – Fernando Pessoa

Gérard Laurenceau, Le Tréport, 2007

ODE SENSAZIONISTA
a José de Almada-Negreiros
Almada-Negreiros: Lei non
immagina quanto Le sono grato per il fatto che Lei esista
                  Álvaro de Campos
I

[…]

Porto dentro il mio cuore,
come in uno scrigno troppo pieno per chiudersi,
tutti i luoghi dove sono stato,
tutti i porti a cui sono arrivato,
tutti i paesaggi che ho visto da finestre o da oblò,
o da casseri, sognando,
e tutto questo, che è molto, è poco per quello che voglio.

[…]

Ho viaggiato per più terre di quelle che ho toccato…
Ho visto più paesaggi di quelli su cui ho posato gli occhi…
Ho provato più sensazioni di tutte le sensazioni che ho sentito,
perché, per quanto sentissi, mi è sempre mancato qualcosa da sentire
e la vita sempre mi dolse, fu sempre poco, e io infelice.

[…]

Non so se la vita è poco o è troppo per me.
Non so se sento troppo o troppo poco, non so
se mi manca  scrupolo spirituale, punto d’appoggio dell’intelligenza,
consanguineità col mistero delle cose, scossa
ai contatti, sangue sotto i colpi, sussulto ai rumori,
o se per questo c’è un altro significato più comodo e felice.

Sia come sia, era meglio non essere nato,
perché, con tutto l’interesse che ha in ogni momento,
la vita arriva a dolere, a nauseare, a tagliare, a sfiorare, a stridere,
a dar voglia di gridare, di saltare, di restare per terra, di uscire
fuori da tutte le case, da tutte le logiche e da tutti i balconi,
e andare a essere selvaggi verso la morte fra alberi  e dimenticanze,
fra cadute e pericoli e mancanza di domani,
e tutto ciò dovrebbe essere qualche altra cosa più simile a ciò che penso,
a ciò che io penso o sento, che non so neppure cosa sia, oh vita.

[…]

Fernando Pessoa

22 maggio 1906 – 10 aprile 1923

(Traduzione di Antonio Tabucchi)

da “Poesie di Álvaro de Campos”, Adelphi Edizioni, 1993

***

de «Passagem das Horas»

ODE SENSACIONISTA
a José de Almada-Negreiros
Almada-Negreiros: você não
imagina como eu lhe agradeço o facto de você existir
                  Álvaro de Campos
I

Trago dentro do meu coração,
Como num cofre que se não pode fechar de cheio,
Todos os lugares onde estive,
Todos os portos a que cheguei,
Todas as paisagens que vi através de janelas ou vigias,
Ou de tombadilhos, sonhando,
E tudo isso, que é tanto, é pouco para o que eu quero.

[…]

Viajei por mais terras do que aquelas em que toquei…
Vi mais paisagens do que aquelas em que pus os olhos…
Experimentei mais sensações do que todas as sensações que senti,
Porque, por mais que sentisse, sempre me faltou que sentir
E a vida sempre me doeu, sempre foi pouco, e eu infeliz.

[…]

Não sei se a vida é pouco ou demais para mim.
Não sei se sinto de mais ou de menos, não sei
Se me falta escrúpulo espiritual, ponto-de-apoio na inteligência,
Consangüinidade com o mistério das coisas, choque
Aos contatos, sangue sob golpes, estremeção aos ruídos,
Ou se há outra significação para isto mais cômoda e feliz.

Seja o que for, era melhor não ter nascido, 
Porque, de tão interessante que é a todos os momentos,
A vida chega a doer, a enjoar, a cortar, a roçar, a ranger,
A dar vontade de dar gritos, de dar pulos, de ficar no chão, de sair
Para fora de todas as casas, de todas as lógicas e de todas as sacadas,
E ir ser selvagem para a morte entre árvores e esquecimentos,
Entre tombos, e perigos e ausência de amanhãs,
E tudo isto devia ser qualquer outra coisa mais parecida com o que eu penso,
Com o que eu penso ou sinto, que eu nem sei qual é, ó vida.

[…]

Fernando Pessoa

da “Álvaro de Campos, Poesia”, Assírio & Alvim, Lisboa, 2002

«A cosa mi è servito correre per tutto il mondo» – Maria do Rosário Pedreira

Edward Drimsdale, Road, East of England, Autumn 1997

 

A cosa mi è servito correre per tutto il mondo,
trascinare, di città in città, un amore
che pesava più di mille valigie; mostrare
a mille uomini il tuo nome scritto in mille
alfabeti e un’immagine del tuo volto
che io giudicavo felice? A cosa mi è servito

respingere questi mille uomini, e gli altri mille
che fecero di tutto perché mi fermassi, mille
volte pettinando le pieghe del mio vestito
stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome
così bello in mille lingue che io mai
avrei compreso? Perché era solo dietro te

che correvo il mondo, era con la tua voce
nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello
dell’amore di città in città, il tuo nome
sulle mie labbra di città in città, il tuo
volto nei miei occhi durante tutto il viaggio,

ma tu partivi sempre la sera prima del mio arrivo.

Maria do Rosário Pedreira

(Traduzione di Mirella Abriani)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXV, Ottobre 2012, N. 275, Crocetti Editore

***

«De que me serviu ir correr mundo»

De que me serviu ir correr mundo,
arrastar, de cidade em cidade, um amor
que pesava mais do que mil malas; mostrar
a mil homens o teu nome escrito em mil
alfabetos e uma estampa do teu rosto
que eu julgava feliz? De que me serviu

recusar esses mil homens, e os outros mil
que fizeram de tudo para eu parar, mil
vezes me penteando as pregas do vestido
cansado de viagens, ou dizendo o seu nome
tão bonito em mil línguas que eu nunca
entenderia? Porque era apenas atrás de ti

que eu corri o mundo, era com a tua voz
nos meus ouvidos que eu arrastava o fardo
do amor de cidade em cidade, o teu nome
nos meus lábios de cidade em cidade, o teu
rosto nos meus olhos durante toda a viagem,

mas tu partias sempre na véspera de eu chegar.

Maria do Rosário Pedreira

da “Nenbum Nome Depois”, Gótica, Lisboa, 2004

«Ho messo un abito scollato e non so se ritorni» – Maria do Rosário Pedreira

Jeremy Lipking, Interlude, 2013

 

Ho messo un abito scollato e non so se ritorni,
ma le parole sono pronte sulle labbra come
segreti imperfetti o germogli di acqua custoditi per
l’estate. E, se di notte le ripeto in sordina, nel silenzio
della stanza, prima di addormentarmi, è come se all’improvviso
gli uccelli fossero già arrivati a sud e tu ritornassi
in cerca di questi antichi messaggi lavati dal tempo:

Andiamo a casa? Il sole dorme sui tetti la domenica
e c’è un intenso odore di lino sparso sui tetti.
Possiamo rivoltare i sogni al rovescio, dormire dentro il pomeriggio
e lasciare che il tempo si occupi dei gesti più piccoli.

Andiamo a casa. Ho lasciato un libro aperto a metà sul pavimento
della stanza, sono sole nella scatola le vecchie foto
del nonno, c’erano le tue mani strette con forza, quella
musica che eravamo soliti ascoltare d’inverno. E io voglio rivedere
le nuvole ritagliate nelle finestre rosse del crepuscolo;
e voglio andare di nuovo a casa. Come le altre volte.

E così mi preparo per il sonno, notte dopo notte, dipanando la lenta
matassa dei giorni per scontare l’attesa. E, quando la nidiata
allontanerà alla fine le ali della chiglia al suo primo volo,
di certo mi troverò ancora qui, ma potrò dire che, per lo
meno qualche volta, già inviai i messaggi, già dalla mia
bocca udii queste parole, che tu ritorni o non ritorni.

Maria do Rosário Pedreira

(Traduzione di Mirella Abriani)

da “La casa e l’odore dei libri”, Librati Edizioni, 2008

***

«Tenho um decote pousado no vestido e não sei se voltas» 

Tenho um decote pousado no vestido e não sei se voltas,
mas as palavras estão prontas sobre os lábios como
segredos imperfeitos ou gomos de água guardados para o
verão. E, se de noite as repito em surdina, no silêncio
do quarto, antes de adormecer, é como se de repente
as aves tivessem chegado já ao sul e tu voltasses
em busca desses antigos recados levados pelo tempo:

Vamos para casa? O sol adormece nos telhados ao domingo
e há um intenso cheiro a linho derramado nas camas.
Podemos virar os sonhos do avesso, dormir dentro da tarde
e deixar que o tempo se ocupe dos gestos mais pequenos.

Vamos para casa. Deixei um livro partido ao meio no chão
do quarto, estão sozinhos na caixa os retratos antigos
do avô, havia as tuas mãos apertadas com força, aquela
música que costumávamos ouvir no inverno. E eu quero rever
as nuvens recortadas nas janelas vermelhas do crepúsculo;
e quero ir outra vez para casa. Como das outras vezes.

Assim me faço ao sono, noite após noite, desfiando a lenta
meada dos dias para descontar a espera. E, quando as crias
afastarem finalmente as asas da quilha no seu primeiro voo,
por certo estarei ainda aqui, mas poderei dizer que, pelo
menos uma ou outra vez, já mandei os recados, já da minha
boca ouvi estas palavras, voltes ou não voltes.

Maria do Rosário Pedreira

da “A Casa e o Cheiro dos Livros”, Editor Gótica, Lisboa, 2001