«Per quanto cerchi di dividere» – Franco Fortini

Franco Fortini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per quanto cerchi di dividere
con voi dal vero le parole,

la fede opaca di che vivo
è solo mia. La tento ancora

e l’occhio guizza, la saliva
brilla sull’orlo dei canini,

o incerti amici, o incerte prove.

*

Per quanto cerchi di conoscere
che cosa guarda dal sereno

dove il celeste posa in sé,
di questo sono certo e fermo:

i globi chiari, i lenti globi
templari cumuli dei venti

non sono me.

Franco Fortini

da “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, 1994

da «Bringing It All Back Home» – Bob Dylan

Bob Dylan in 1964 by Lee Pearce

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

le mie canzoni sono scritte avendo in mente
il timpano/un tocco di qualsiasi ansioso colore,
innominabile. ovvio, e delle persone forse
come un morbido cantante brasiliano… ho
rinunciato a tentare di raggiungere la perfezione/
il fatto che la casa bianca sia piena di
leaders che non sono mai stati all’apollo
theater mi sbalordisce, perché non sia stato scelto
allen ginsberg per leggere poesia all’inaugurazione
mi lascia perplesso/se qualcuno pensa che norman

mailer sia più importante di hank Williams,
niente di male, non ho argomenti e non
bevo mai latte. preferirei modellare dei
portarmonica che discutere di antropologia azteca/
letteratura inglese, o storia delle nazioni
unite. accetto il caos, non sono sicuro se
esso accetta me. so che c’è della gente terrorizzata
dalla bomba, ma ci sono altre persone terrorizzate
ad essere viste con in mano una rivista moderna di cinema.
l’esperienza insegna che il silenzio terrorizza maggiormente
la gente… sono convinto che tutte le anime abbiano
qualche essere superiore con cui fare i conti/come il
sistema scolastico, un cerchio invisibile a cui nessuno
può pensare senza consultare qualcuno/di
fronte a ciò, la responsabilità/la sicurezza, il successo
non significano assolutamente nulla… non vorrei
essere bach. mozart. tolstoy. joe hill. gertrude
stein o james dean/ sono tutti morti. i
Grandi libri sono stati scritti, le Grandi frasi
son state dette tutte/sto per schizzarVi
un quadro di quel che succede da queste parti
qualche volta. anche se neanch’io capisco troppo
bene ciò che avviene davvero. so
che un giorno moriremo tutti e che nessuna
morte ha mai fermato il mondo.le mie poesie
sono scritte in un ritmo di distorsione impoetica/
divise da orecchie forate. ciglia false/ sottratte
da persone che si torturano costantemente l’un
l’altra, con una ronfante linea melodica di vuoto
descrittivo — viste a volte attraverso occhiali scuri
ed altre forme di esplosione psichica. una canzone è
qualsiasi cosa che sappia camminare da sola/vengo chiamato
autore di canzoni. una poesia è una persona nuda… alcuni
dicono che sono un poeta

[…]

Bob Dylan

da “Bringing It All Back Home”, in “Bob Dylan, folk, canzoni e poesie” traduzione di Alessandro Roffeni, Newton Compton Editori Roma, prima edizione luglio 1978

∗∗∗

da «Bringing It All Back Home»

[…]

my songs’re written with the kettledrum
in mind/a touch of any anxious color.
unmentionable. obvious. an’ people perhaps
like a soft brazilian singer… i have
given up at making any attempt at perfection/
the fact that the white house is filled with
leaders that’ve never been t’ the appollo
theather amazes me. why allen ginsberg was
not chosen t’ read poetry at the inauguration
boggles my mind/if someone thinks norman
mailer is more important than hank williams
that’s fine. i have no arguments an’ i
never drink milk. i would rather model
harmonica holders than discuss aztec anthropology/
english literature. or history of the united
nations. i accept chaos. I am not sure whether
it accepts me. i know there’re some people terrified
of the bomb. but there are other people terrified
t’ be seen carrying a modern screen magazine.
experience teaches that silence terrifies people
the most… i am convinced that all souls have
some superior t’ deal with/like the school
system, an invisible circle of which no one
can think without consulting someone/in the
face of this, responsibility/security, success
mean absolutely nothing… i would not want
t’ be bach. mozart. tolstoy. joe hill. gertrude
stein or james dean/they are all dead. the
Great books’ve been written. the Great sayings
have all been said/I am about t’ sketch You
a picture of what goes on around here
sometimes. though I don’t understand too well
myself what’s really happening. i do know
that we’re all gonna die someday an’ that no
death has ever stopped the world. my poems
are written in a rhythm of unpoetic distortion/
divided by pierced ears. false eyelashes/
subtracted by people constantly torturing each
other. with a melodic purring line of descriptive
hollowness… seen at times through dark sunglasses
an’ other forms of psychic explosion. a song is
anything that can walk by itself/i am called
a songwriter. a poem is a naked person… some
people say that i am a poet

[…]

Bob Dylan

da “Polyvocal Bob Dylan: Music, Performance, Literature ”, a cura di  Nduka Otiono e Josh Toth, Palgrave Macmillan, 2019

 

La danza cieca – Roberto Mussapi

Mario Giacomelli

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Non attraversare la sua pelle, i fiumi che si diramano dalla sua fronte, c’è solo la notte nella stanza alla foce: su quella spiaggia camminerai come su mille lame e i tuoi piedi sanguineranno sempre».

Ma lei si staccò dall’acqua lasciando agli abissi il suo canto, vide il palazzo e le sue fiabe sparire nel vuoto, l’isola era lontana, forse una nave, o forse un gabbiano.

Su quella spiaggia camminò per cercarlo e le lame erano infinite come le luci della città lontana.

Non è ingratitudine, signora della notte, ma l’occhio del grande specchio precipitato dal cielo e la luce del mio coltello sollevato troppo fulminea perché io possa non guardarlo. Ho dormito riflessa nelle nubi sopra di me, volando sulle ali dei miei miracoli, non c’è una stella che non lasci una scia sulla sua nave, l’amore che non è ancora stato precede la sua origine.
Non c’è ingratitudine, sonno, ogni aurora segna la sabbia
bianca delle stesse orme e un principe dimentica il tuo canto, la lingua che hai mozzato, ma la strada è una stella e le lame luce infinita,

«fa’ che sia primavera eterna quando tornerò spuma del mare, fa’ che gli uccelli mi guardino!»

Nell’ennesima stanza crede di aver riconosciuto: ma ha scelto, e ora la sua nave è muta come un cane impazzito, ora i clarini d’oro perforano l’aria e la terrazza si allontana».

«Forse è un gabbiano».

Roberto Mussapi

da “Spume d’inverno”, (1977-79), in “La gravità del cielo”, Società di poesia – Jaca Book, Milano, 1984

Fantasma – Gyula Illyés

Roger Catherineau, La Vitre, 1954

 

Stamani, l’aria è di vetro:
stupito, cammino attraverso un muro di cristallo
e un altro muro,
perché tu veda — anche se
di sera il mio cuore si incrina —
com’è semplice
vivere un miracolo
vivere ancora.

Gyula Illyés

(Traduzione di Umberto Albini)

da “La vela inclinata”, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, Genova, 1980

∗∗∗

Kisértet

Ma délelőtt a lég üvegzerü.
Üvegfalon s új üvegfalon át
ámulva lépdelek,
hogy — este bár szivem majd szétrepedt —
ládd
mily egyszerű
élni csodát, élni tovább.

Gyula Illyés

da “Különös testamentum: Illyés Gyula száz új verse”, Szépirod, Kiadó, 1977

La stanza – Adam Zagajewski

Adam Zagajewski, foto di Krzysztof Dubiel

a Derek Walcott

La stanza in cui lavoro ha sei lati
come un dado.
Contiene un tavolo di legno
dalle linee ostinate, contadine
una poltrona pigra e una teiera
con un labbro asburgico sporgente.
Dalla finestra vedo qualche albero esile,
ciuffi di nuvole e bambini dell’asilo,
sempre allegri e chiassosi.
Talvolta un parabrezza brilla da lontano
oppure, più su, le scaglie argentate di un aereo.
Chiaramente gli altri non perdono tempo
mentre io lavoro, cercano avventure
sulla terra o in cielo.
La stanza in cui lavoro è una camera oscura.
E tuttavia cos’è il mio lavoro,
molta immobile attesa,
sfogliare delle pagine, paziente meditazione,
una passività che non piacerebbe
a quel giudice dallo sguardo avido.
Scrivo così lentamente come se dovessi vivere ancora duecento anni.
Cerco immagini che non esistono,
e se ci sono, sono arrotolate, riposte
come vestiti estivi in inverno,
quando il gelo taglia le labbra.
Sogno una perfetta concentrazione; se la trovassi
di sicuro smetterei di respirare.
Forse è un bene che mi riesca così poco.
Eppure sento fischiare la prima neve
sento la fragile melodia della luce del giorno
e il rombo minaccioso della grande città,
bevo da una piccola fonte,
la mia sete supera l’oceano.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Paola Malavasi)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVII, Maggio 2004, N. 183, Crocetti Editore

∗∗∗

Pokój

Dla Dereka Walcotta

Pokój, w którym pracuję, jest sześcianem
jak kostka do gry.
Jest w nim drewniany stół
o upartej chłopskiej sylwetce,
leniwy fotel i czajniczek do herbaty
z wydętą habsburską wargą.
Z okna widzę kilka chudych drzew,
cienkie obłoki i dzieci z przedszkola,
zawsze zadowolone, głośne.
Czasem w oddali błyśnie szyba samochodu
albo, wyżej, srebrna łuska samolotu.
Najwyraźniej inni nie tracą czasu
gdy ja pracuję, szukają przygód
na ziemi i w przestworzach.
Pokój, w którym pracuję, to camera obscura.
Czym jednak jest moja praca –
dużo nieruchomego czekania,
przewracania kartek, cierpliwej medytacji,
bierności, które nie spodobałyby się
sędziemu o chciwym spojrzeniu.
Piszę tak powoli, jakbym miał żyć dwieście lat.
Szukam obrazów, których nie ma,
a jeśli są to zwinięte i schowane
jak letnie ubrania w zimie,
gdy mróz kaleczy usta.
Marzę o absolutnym skupieniu; gdybym je znalazł
zapewne przestałbym oddychać.
Może to dobrze, że tak niewiele mi się udaje.
Ale przecież słyszę jak gwiżdże pierwszy śnieg,
słyszę delikatną melodię światła dziennego
i groźny pomruk wielkiego miasta.
Piję z małego źródła,
moje pragnienie jest większe niż ocean.

Adam Zagajewski

da “Pragnienie”, Wydawnictwo a5, 1999