
Mario Giacomelli
«Non attraversare la sua pelle, i fiumi che si diramano dalla sua fronte, c’è solo la notte nella stanza alla foce: su quella spiaggia camminerai come su mille lame e i tuoi piedi sanguineranno sempre».
Ma lei si staccò dall’acqua lasciando agli abissi il suo canto, vide il palazzo e le sue fiabe sparire nel vuoto, l’isola era lontana, forse una nave, o forse un gabbiano.
Su quella spiaggia camminò per cercarlo e le lame erano infinite come le luci della città lontana.
Non è ingratitudine, signora della notte, ma l’occhio del grande specchio precipitato dal cielo e la luce del mio coltello sollevato troppo fulminea perché io possa non guardarlo. Ho dormito riflessa nelle nubi sopra di me, volando sulle ali dei miei miracoli, non c’è una stella che non lasci una scia sulla sua nave, l’amore che non è ancora stato precede la sua origine.
Non c’è ingratitudine, sonno, ogni aurora segna la sabbia
bianca delle stesse orme e un principe dimentica il tuo canto, la lingua che hai mozzato, ma la strada è una stella e le lame luce infinita,
«fa’ che sia primavera eterna quando tornerò spuma del mare, fa’ che gli uccelli mi guardino!»
Nell’ennesima stanza crede di aver riconosciuto: ma ha scelto, e ora la sua nave è muta come un cane impazzito, ora i clarini d’oro perforano l’aria e la terrazza si allontana».
«Forse è un gabbiano».
Roberto Mussapi
da “Spume d’inverno”, (1977-79), in “La gravità del cielo”, Società di poesia – Jaca Book, Milano, 1984
