Conta le mandorle – Paul Celan

 

CONTA le mandorle,
conta ciò che era amaro e ti fece vegliare,
conta insieme anche me:

Io cercavo il tuo occhio, allorché tu lo sbarrasti e nessuno ti vide,
io intrecciavo quel filo segreto e su di esso
la rugiada da te pensata
scorse giù alle urne di che è custode un detto
che al cuore di nessuno trovò un varco.

Lì soltanto entrasti tutta nel nome che è tuo,
lì accedesti a te con passo sicuro,
le campane liberate pulsarono nella cella del tuo silenzio,
ciò cui avevi teso l’udito ti fu appresso,
ciò che era morto cinse anche te col suo braccio,
e voi andaste, attraversando, voi tre, la sera.

Fammi amaro.
Conta con le mandorle anche me.

Paul Celan

(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

da “Papavero e memoria”, in “Paul Celan, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

In Zähle die Mandeln, la poesia che chiude Mohn und Gedächtnis,  la madre di Celan è solennemente evocata nel momento della sua morte ignota. Il poeta ha cercato, nell’immaginazione, l’estremo sguardo rimasto senza riscontro nell’anonima solitudine e nell’abbandono della deportazione. Solo assurgendo a esponente di infinite altre morti consimili, di tante “urne”, la persona evocata trova una sua identità e una funzione: ed è proprio in quanto tale che il poeta la prega di annoverare anche lui tra le vittime che essa rappresenta.
“Mandorla”, altrove più esplicitamente “occhio a mandorla” (Mandelaug), è evidente sineddoche per “ebreo”. (Giuseppe Bevilacqua)
∗∗∗

Zähle die Mandeln

ZÄHLE die Mandeln,
zähle, was bitter war und dich wachhielt,
zähl mich dazu:

Ich suchte dein Aug, als du’s aufschlugst und niemand dich ansah,
ich spann jenen heimlichen Faden,
an dem der Tau, den du dachtest,
hinunterglitt zu den Krügen,
die ein Spruch, der zu niemandes Herz fand, behütet.

Dort erst tratest du ganz in den Namen, der dein ist, 
schrittest du sicheren Fußes zu dir,
schwangen die Hämmer frei im Glockenstuhl deines Schweigen,
stieß das Erlauschte zu dir,
legte das Tote den Arm auch um dich,
und ihr ginget selbdritt durch den Abend.

Mache mich bitter.
Zähle mich zu den Mandeln.

Paul Celan

da “Mohn und Gedächtnis”, Deutsche Verlags-Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

A un compagno d’infanzia – Vittorio Sereni

Susan Burnstine, Bridge To Nowhere

I.

Non resta piú molto da dire
e sempre lo stesso paesaggio si ripete.
Non rimane che aggirarlo
noi due nel vento urlandoci confidenze futili
e crederle riepiloghi, drammatiche
verità sulla vita.
                               «Ma tu hai la bellezza…»
                                           «Chiacchiere
nel vento tenebroso, religione
della morte: gli anni che passano
tali e quali, la collina che riavvampa in autunno,
i campanili
assolati imperterriti,
pietrificate ossa di morti, le nostre
radici troppo simili, da troppo
per non dolersi insieme, che quel vento
fa gemere…»

Un’autostrada presto porterà un altro vento
tra questi nomi estatici: Creva
Germignaga Voldomino la
Trebedora – rivivranno
con altro suono e senso
in una luce d’orgoglio…
Non che sia questo la bellezza,
                                                        ma
la frustata in dirittura, il gesto
perentorio
sul cruccio che scempiamente si rigira in noi,
il saperla sempre a un passo da noi,
la bellezza, in un’aria frizzante:
questo,
che oscuramente cercano i libertini
e che ho imparato lavorando.

II.

Addio addio ripetono le piante.
Addio anche a me tocca ora di dirti
con la stessa tenerezza
e intensità, con la stessa
umiltà delle piante
che a stormire però continueranno
fuori dallo sguardo immediato.
Non c’è nessuno, sembra, al ponte
che ripasserò tra poco: non figuro mascherato
d’inesistenza non querulo viandante.
Dunque via libera, e basta con le visioni!
Nella domenica confusa
di un fiume alla sua foce si colluttano
salutarmente in me…

Vittorio Sereni

da “Gli strumenti umani”, Einaudi, Torino, 1965

Genealogia – Czesław Miłosz

a Jan Lebenstein

Certo abbiamo molte cose in comune
tutti noi che siamo cresciuti nelle città del Barocco
senza chiedere quale re volle erigere la chiesa
che vediamo passando ogni giorno, quali principesse
abitarono il palazzo, né come si chiamassero
architetti, scultori, donde venissero e quando, e per che cosa
ebbero la celebrità. Preferivamo
giocare a palla sotto la fila dei portici eleganti,
correre a lato degli aggetti e delle scale di marmo.
Poi ci furono più cari i sedili dei parchi ombrosi
che non i groppi di angeli in gesso sulla testa.
Però qualcosa ci resta: un gusto per la linea tortuosa,
le alte spirali delle contraddizioni, fiammeggianti,
abiti femminili con drappeggi sontuosi
per aggiungere fulgore al ballo degli scheletri.

Czesław Miłosz

(Traduzione di Valeria Rosselli)

da “Le regioni ulteriori”, in “Czesław Miłosz, La fodera del mondo”, Fondazione Piazzolla, Roma, 1966

***

Rodowód

Janowi Lebensteinowi

Na pewno mamy wiele ze sobą wspólnego
My wszyscy, którzy rośliśmy w miastach Baroku
Nie pytając, jaki król ufundował kościół
Mijany co dzień, jakie księżne mieszkały w pałacu,
Ani jak nazywali się architekci, rzeźbiarze,
Woleliśmy grać w piłkę pod rzędem strojnych portyków,
Biegać obok wykuszów i schodów z marmuru.
Potem nam były milsze ławki w cienistych parkach
Niż nad głowami gęstwa gipsowych aniołów.
A jednak coś nam zostało;predylekcja do linii krętej,
Wysokie spirale przeciwieństw, płomieniopodobne,
Strojenie kobiet w suto drapowane suknie,
żeby dodawać blasku tańcowi szkieletów.

Czesław Miłosz

da “Kroniki”, Wydawnictwo Znak, Kraków, 1988

Uomini – Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

Foto di Jack Spencer

 

Non esistono al mondo uomini non interessanti.
I loro destini sono come le storie dei pianeti.

Ognuno ha la sua particolarità
e non ha un pianeta che gli sia simile.

E se uno viveva inosservato
e amava questa sua insignificanza,

proprio per la sua insignificanza
egli era interessante tra gli uomini.

Ognuno ha il suo segreto mondo personale.
In quel mondo c’è l’attimo felice.

C’è in quel mondo l’ora più terribile,
ma tutto ci resta sconosciuto.

Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,

e il primo bacio e la prima battaglia…
Tutto questo egli porta con sé.

Rimangono certo i libri, i ponti,
le macchine, le tele dei pittori.

Certo, molto è destinato a restare,
eppur sempre qualcosa se ne va.

È la legge d’un gioco spietato.
Non sono uomini che muoiono, ma mondi.

Ricordiamo gli uomini, terrestri e peccatori,
ma che sapevamo in fondo di loro?

Che sappiamo dei fratelli nostri, degli amici?
Di colei che sola ci appartiene?

E del nostro stesso padre
tutto sapendo non sappiamo nulla.

Gli uomini se ne vanno… e non tornano più.
Non risorgono i loro mondi segreti.

E ogni volta vorrei gridare ancora
contro questo irrevocabile destino.

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

1961

(Traduzione di Sandra Grotoff)

da “Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, Poesie”, Newton Compton, 1972

***

Людей неинтересных в мире нет…

Людей неинтересных в мире нет.
Их судьбы, как истории планет.
У каждой все особое, свое,
И нет планет, похожих на нее.

А если кто-то незаметно жил
И с этой незаметностью дружил
Он интересен был среди людей
Самою незаметностью своей.

У каждого есть тайный личный мир.
Есть в мире этом самый страшный час.
Но это все неведомо для нас

И если умирает человек,
С ним умирает первый его снег,
И первый поцелуй, и первый бой…
Все это забирает он с собой.

Да, остаются книги и мосты,
Машины и художников холсты.
Да, многому остаться суждено.
Но что-то ведь уходит все равно.

Таков закон безжалостной игры:
Нелюди умирают, а миры.
Людей мы помним, грешных и земных.
А что мы знали, в сущности, о них?

Что знаем мы про братьев, про друзей?
Что знаем о единственной своей?
И про отца, родного своего
Мы зная все, не знаем ничего.

Уходят люди… Их не возвратить
Их тайные миры не возродить.
И каждый раз мне хочется опять
От этой невозвратности кричать.

Евгений Александрович Евтушенко

1961

da “Евгений Александрович Евтушенко, Стихотворения и поэмы: 1952-1964”, Сов. Россия, 1987