Vorrei essere bambina – Eunice Odio

Johan van der Keuken, Portrait of Georgette and Yvonne Apolo, 1956

 

Vorrei essere bambina,
per accoppiare le nubi a distanza
(alte claudicanti della forma),

per andare all’allegria di ciò che è piccolo
e domandare,
come chi non lo conosce,
il colore delle foglie.
Com’era?

Per ignorare ciò che è verde,
il verde mare,
la risposta salubre del tramonto in ritirata,
il timido gocciolare delle stelle
sopra il muro vicino,

essere bambina
che cade d’improvviso
dentro un treno con angeli,
che giungevano così, di vacanza,
a correre per poco tra le uve,
o  per notturni
fuggiti da altre notti
di geometrie più alte.

Ma adesso, cosa devo essere?
Se mi sono nati questi occhi così grandi
e questi chiari desideri di sbieco.

Come posso essere ormai
quella che voglio io,
bambina di verdi,
bambina vinta di contemplazioni,
che cade da se stessa rosea,

… se mi dolse moltissimo dire
per cogliere di nuovo la parola
che fuggiva,
saetta scappata dalla mia carne,

e mi è doluto molto amare a tratti,
impenitente e sola,
e parlare di cose incompiute,
tinte cose di bimbi,
di candore dissimulato,
o di semplici api
aggiogate a tristi rosari.

O essere colma di questi scatti
che mi cambiano il mondo a gran distanza,

come posso essere ormai,
bambina in tumulto,
forma mutevole e pura,
o semplicemente, bambina alla leggera,
divergente in colori
e adatta per l’addio
ad ogni ora.

Eunice Odio

(Traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)

da “Come le rose disordinando l’aria”, Passigli Poesia, 2015

∗∗∗

 Yo quisiera ser niña

Yo quisiera ser niña,
para acoplar las nubes a distancia
(claudicadoras altas de la forma),

para ir a la alegría por lo pequeño
y preguntar,
como quien no lo sabe,
el color de las hojas.
¿Cómo era?

Para ignorar lo verde,
el verde mar,
la respuesta salobre del ocaso en retirada,
el tímido gotear de los luceros
en el muro del vecino,

ser niña
que cayera de pronto
dentro de un tren con ángeles,
que llegaban así, de vacaciones,
a correr un poquito por las uvas,
o por nocturnos
fugados de otras noches
de geometría más altas.

Pero ya, ¿que he de ser?
Si me han nacido estos ojos tan grandes
y esos rubios quereres de soslayo.

Cómo voy a ser ya
esa que quiero yo,
niña de verdes,
niña vencida de contemplaciones,
cayendo de sí misma sonrosada,

… si me dolió muchísimo decir
para alcanzar de nuevo la palabra
que se iba,
escapada saeta de mi carne,

y me ha dolido mucho amar a trechos,
impenitente y sola,
y hablar de cosas inacabadas,
tintas cosas de niños,
de candor disimulado,
o de simples abejas
enyugadas a rosarios tristes.

O estar llena de esos repentes
que me cambian el mundo a gran distancia,

cómo voy a ser ya,
niña en tumulto,
forma mudable y pura,
o simplemente, niña a la ligera,
divergente en colores
y apta para el adiós
a toda hora.

Eunice Odio

da “Obras completas I”, San José, Costa Rica: Editorial de la Universidad de Costa Rica y Editorial de la Universidad Nacional, 1996

Quadernetto alla polvere – Leonardo Sinisgalli

Foto di Galina Kurlat

 

Nella mia stanza come sopra un atlante
ho cercato i tuoi mari e tuoi monti.
T’ho attratta con un crine,
t’ho estinta con un soffio.
Ho resistito ai tuoi vortici, alle piene
improvvise, ai letargici inganni.
Per lungo giro di anni
tra le rughe e gli specchi,
nella spoglia di un fiore,
sul lobo di un orecchio,
dove esita la sfera
dove il filo si spezza.

 

Appena visibile incolore impalpabile,
senza apici, senza figura,
innocua come la serpe di cui si conosce il rifugio,
più elusiva dell’ombra, pungente più della luce,
dove ti posi fai intima ogni cosa.
Così silente scorri ma non trabocchi,
ti accumuli ma non dirocchi.

 

Qui nel quartiere sotto la collina
trascorro le mie ore al riparo dal vento
come il mangiatore di fiamme copre col sasso
le fragili monete del suo altarino.
Amo questi meriggi corti così cangianti,
l’aria friabile, l’anitra che farnetica nella corte.
Nella vasta penombra non spiga la Città.
Fu prato in altra età.
Annaspo nel buio semicieco
verso il cerchio di fuoco
che brilla nel campo dei monelli.

 

O sostanza retrattile,
spuma incongrua di un mare di tedio,
o superbo ipogeo della Piuma e della Pulce
che cosa chiude la tua secchezza,
che cosa riflette il tuo guscio?
Quale seme, qual polline, qual germe
nasconde il tuo nocciolo,
un diadema, una rotula, un verme,
quel che si accoglie o quel che si rifiuta,
l’uovo guasto o la macchina inutile?

 

Forse il fuoco del giorno è restituito
da questo lume che attira sfinita
una falena, da un grano marcito
che nutre l’uovo di un’ape nel seno.

 

Con quale assillo prepara la Sposa
per anni la coltre del letto nuziale,
e il Re che da vivo conta i sassi
della Piramide sepolcrale,
il Guardiano che fa coi secchi
il censimento delle foglie del viale…
(Selva fitta ove il Tempo
nasconde le sue trappole,
immola le sue vittime.)

 

Ti porterò la mia testa vacante
e tu andrai più dolce di una lacrima
a cercarti un piccolo alveo sotto gli occhi.
Ma così lieve, così arrendevole
che un fiotto di luce ti spazzerà.

 

Quando la foglia cade
dagli alberi invisibili
e la forma si estenua
e la forza si esaurisce,
quando anche la dura pietra
e il ferro tenace
vestono di gemme il tuo fantasma,
quando il gallo irato si ostina
ad afferrare il tuo Principio,
e non sa che il tuo capo è nel buio
la tua coda è l’oblio,
noi ci chiniamo a guardarti
come una biscia morta ai nostri piedi.

 

Fenice del nostro risveglio
devasta i vani orditi,
rinfranca il cuore con le tue alluvioni,
porta il limo sui vecchi triangoli
e le tempeste sulle carte siccitose!

 

Da te, consumati tutti i segni,
sciolti i nodi, rotti i patti,
distrutte le scorie,
rinasceremo alla stasi eterna,
lastre senza gemiti, specchi senza memoria.

Leonardo Sinisgalli

da “La vigna vecchia”, “Lo Specchio” Mondadori, 1956

Egrette bianche – Derek Walcott

Foto di Chris Felver

I

Attento alla luce del tempo e a quanto spesso permetterà
alle ombre del mattino di allungarsi sul prato
alle egrette impettite di scuotere i becchi e inghiottire
quando tu, non loro, o tu e loro, sarete spariti;
ai pappagalli vociferanti di lanciare la loro flotta all’alba
all’aprile d’incendiare la violetta africana
nel mondo tambureggiante che t’inumidisce gli occhi stanchi
dietro due lenti appannate, l’alba, il tramonto,
le calme devastazioni del diabete.
Accetta tutto con frasi pacate,
con l’assegnazione scolpita che dispone ogni strofa;
impara come il prato assolato non innalza difese
contro le domande pungenti delle egrette e la risposta della notte.

II

L’eleganza di quelle egrette bianche dal becco arancione,
ognuna una brocca che incede, gli olivi fitti,
i cedri che consolano la furia di un ruscello torrenziale
nella stagione delle piogge; in quella pace
di là dai desideri e di là dai rimpianti,
alla quale infine potrò forse arrivare,
con le palme che si afflosciano al sole come portantine
con sotto ombre tigresche. Saranno lì
dopo che la mia ombra con tutti i suoi peccati
sarà entrata in una verde boscaglia di oblio,
con lo spuntare e il calare di cento soli
sopra la Valle di Santa Cruz quando amavo invano.

III

Guardo gli alberi enormi agitarsi sul bordo del prato
come un mare gonfio senza creste, i bambù scuotono il collo
come cavalli presi al lazo mentre le foglie gialle, strappate
dai rami scudiscianti, diventano una valanga;
tutto questo prima che una pioggia si riversi allarmante dal telo
zuppo, a brandelli del cielo come una vela irreparabile,
rovesciandosi in scrosci e offuscando del tutto le colline
come se l’intera valle fosse uno scafo che resiste alla burrasca
e i boschi non fossero alberi ma onde di un mare in tempesta.
Quando la luce s’incrina e il tuono geme come fosse afflitto
e tu sei al sicuro in una casa buia nell’interno di Santa
Cruz, senza luci, la corrente saltata all’improvviso,
pensi: «Chi offrirà riparo al falco tremante
e all’impeccabile egretta e all’airone color nube
e ai pappagalli in panico per il finto incendio dell’alba? ».

IV

Questi uccelli che continuano a posare per Audubon,
la Garzetta nivea o l’Airone bianco in un libro
che, quand’ero ragazzo, si apriva come un prato
nella smeraldina Santa Cruz, sanno di essere belli,
perfezione che incede. Punteggiano le isole
lungo i fiumi, nelle paludi di mangrovie o nei pascoli,
planano sugli stagni, poi si equilibrano sul dorso
setoso di una giovenca, o sfuggono al disastro
durante gli uragani, e beccano le zecche
con colpetti elettrici come fosse un puro privilegio
studiarli nella loro mitica pretesa
di aver attraversato il mare in volo dall’Egitto
col faraonico ibis, le sue zampe e il becco arancioni
profilati nella quiete per adornare una cripta,
poi si lanciano con ali che, sbattendo più rapide,
sono sicure come quelle di un serafino quando sbattono.

V

L’ideale perpetuo è lo stupore.
Il prato verde e fresco, gli alberi tranquilli, la foresta
laggiù sulla collina, poi, il bianco ansito di un’egretta
che irrompe nella cornice poi atterra e si assesta
coi suoi passi impacciati fino a fermarsi, eretta,
un emblema! Un altro pensiero ti sorprende:
uno sparviero sul polso di un ramo, silenzioso, come un falcone,
schizza in cielo, volteggiando sopra l’elogio o la colpa,
con la tua stessa altera indifferenza, poi scende
in picchiata per ghermire un topo con gli artigli.
La pagina del prato e questa pagina sono un’unica cosa,
un’egretta stupisce la pagina, lo sparviero alto stride
sopra una cosa morta, un amore che era pura punizione.

VI

Per metà settimana a Natale non le avevo più viste,
le egrette, e nessuno mi diceva perché se n’erano andate,
ma ora sono tornate con la pioggia, becco arancione,
stinchi rosa e testa picchiettante, tornate sul prato
dove stavano prima sotto la pioggia chiara e illimitata
della Valle di Santa Cruz, che, quando piove, cade
ininterrotta sui cedri finché non annebbia la pianura.
Le egrette hanno il colore delle cascate
e delle nuvole. Alcuni amici, i pochi rimasti,
stanno morendo, ma le egrette incedono nella pioggia
come se nulla di mortale potesse toccarle, o prendono il volo
come angeli bruschi, si librano, poi atterrano ancora.
A volte le colline stesse scompaiono
come gli amici, lentamente, ma sono più felice
adesso che sono tornate, come i ricordi, come le preghiere.

VII

Con l’agio di una foglia che cade nella foresta,
un giallo pallido che rotea sul verde – la mia fine.
Presto verrà la stagione secca, le colline arrugginiranno,
le egrette affondano i colli ondulanti, chinandosi,
becchettando vermi e larve dopo la pioggia;
a volte erette come birilli da bowling, stanno lì
mentre strisce di ovatta si staccano dai monti,
poi quando si muovono, impacciate, muovono questa mano
con le dita allargate delle loro zampe, i colli rapidi.
Condividiamo lo stesso istinto, il vorace cibarsi
del becco della mia penna, quel raccogliere insetti
che si dimenano come nomi e ingoiarli, col pennino che legge
mentre scrive e scrolla via quello che il becco rigetta.
La selezione è ciò che insegnano le egrette
sul prato ampio e aperto, la testa che annuisce mentre leggono
in risoluto silenzio, una lingua al di là delle parole.

VIII

Eravamo accanto alla piscina di un amico a St. Croix
e Joseph e io parlavamo; fu lui che s’interruppe,
durante questa visita che speravo si godesse,
per indicare, trasalendo, non ferma o in movimento
ma fissa nel grande albero da frutta, una visione che lo scosse,
«sembra uscito da Bosch» disse. Quell’enorme uccello
era lì all’improvviso, forse lo stesso che lo prese,
un’egretta o un airone sepolcrale; la parola impronunciabile
era sempre con noi, come Eumeo, un terzo compagno,
e ciò che lo colpì, lui che amava la neve, ciò che lo fece arrestare
fu che l’uccello era di un tale biancore spettrale.
Ora quando al pomeriggio o di sera sul prato
le egrette si levano insieme in un volo silenzioso
o virano, come una regata, sull’erba verde mare,
sono anime serafiche, com’era Joseph.

Derek Walcott

(Traduzione di Matteo Campagnoli)

da “Egrette bianche”, Adelphi Edizioni, 2015

∗∗∗

White Egrets

I

Cautious of time’s light and how often it will allow
the morning shadows to lengthen across the lawn
the stalking egrets to wriggle their beaks and swallow
when you, not they, or you and they, are gone;
for clattering parrots to launch their fleet at sunrise
for April to ignite the African violet
in the drumming world that dampens your tired eyes
behind two clouding lenses, sunrise, sunset,
the quiet ravages of diabetes.
Accept it all with level sentences
with sculpted settlement that sets each stanza,
learn how the bright lawn puts up no defenses
against the egret’s stabbing questions and the night’s answer.

II

The elegance of those white, orange-billed egrets,
each like a stalking ewer, the thick olive trees,
cedars consoling a stream that roars torrentially
in the wet season; into that peace
beyond desires and beyond regrets,
at which I may arrive eventually,
whose palms droop in the sun like palanquins
with tigerish shadows under them. They shall
be there after my shadow passes with all its sins
into a green thicket of oblivion,
with the rising and setting of a hundred suns
over Santa Cruz Valley when I loved in vain.

III

I watch the huge trees tossing at the edge of the lawn
like a heaving sea without crests, the bamboos plunge
their necks like roped horses as yellow leaves, torn
from the whipping branches, turn to an avalanche;
all this before the rain scarily pours from the burst,
sodden canvas of the sky like a hopeless sail,
gusting in sheets and hazing the hills completely
as if the whole valley were a hull outriding the gale
and the woods were not trees but waves of a running sea.
When light cracks and thunder groans as if cursed
and you are safe in a dark house deep in Santa
Cruz, with the lights out, the current suddenly gone,
you think: “Who’ll house the shivering hawk, and the
impeccable egret and the cloud-colored heron,
and the parrots who panic at the false fire of dawn?”

IV

These birds keep modeling for Audubon,
the Snowy Egret or White Heron in a book
that, in my youth, would open like a lawn
in emerald Santa Cruz, knowing how well they look,
strutting perfection. They speckle the islands
on river-bank, in mangrove marsh or cattle pasture,
gliding over ponds, then balancing on the ridge
of a silken heifer, or fleeing disaster
in hurricane weather, and picking ticks
with their electric stab as if it were sheer privilege
to study them in their mythical conceit
that they have beat across the sea from Egypt
with the pharaonic ibis, its orange beak and feet
profiled in quiet to adorn a crypt,
then launch themselves with wings that, beating faster
are certain as a seraph’s when they beat.

V

The perpetual ideal is astonishment.
The cool green lawn, the quiet trees, the forest
on the hill there, then, the white gasp of an egret sent
sailing into the frame then teetering to rest
with its gawky stride, erect, an egret-emblem!
Another thought surprises: a hawk on the wrist
of a branch, soundlessly, like a falcon,
shoots into heaven, circling above praise or blame,
with the same high indifference as yours,
now dropping to tear a field mouse with its claws.
The page of the lawn and this open page are the same,
an egret astonishes the page, the high hawk caws
over a dead thing, a love that was pure punishment.

VI

I hadn’t seen them for half of the Christmas week,
the egrets, and no one told me why they had gone,
but they are back with the rain now, orange beak,
pink shanks and stabbing head, back on the lawn
where they used to be in the clear, limitless rain
of the Santa Cruz Valley, which, when it rains, falls
steadily against the cedars till it mists the plain.
The egrets are the color of waterfalls,
and of clouds. Some friends, the few I have left,
are dying, but the egrets stalk through the rain
as if nothing mortal can affect them, or they lift
like abrupt angels, sail, then settle again.
Sometimes the hills themselves disappear
like friends, slowly, but I am happier
that they have come back now, like memory, like prayer.

VII

With the leisure of a leaf falling in the forest,
pale yellow spinning against green—my ending.
Soon it will be the dry season, the hills will rust,
the egrets dip their necks undulant, bending,
stabbing at worms and grubs after the rain,
sometimes erect as bowling pins, they stand
as strips of cotton-wool peel from the mountain,
then when they move, gawkily, they move this hand
with their feet’s splayed fingers, their darting necks.
We share one instinct, that ravenous feeding
my pen’s beak, plucking up wriggling insects
like nouns and gulping them, the nib reading
as it writes, shaking off angrily what its beak rejects,
selection is what the egrets teach
on the wide-open lawn, heads nodding as they read
in purposeful silence, a language beyond speech.

VIII

We were by the pool of a friend’s house in St. Croix
and Joseph and I were talking; he stopped the talk,
on this visit I had hoped that he would enjoy
to point out, with a gasp, not still or stalking
but fixed in the great fruit tree, a sight that shook him
“like something out of Bosch,” he said. The huge bird was
suddenly there, perhaps the same one that took him,
a sepulchral egret or heron; the unutterable word was
always with us, like Eumaeus, a third companion
and what got him, who loved snow, what brought it on
was that the bird was such a spectral white.
Now when at noon or evening on the lawn
the egrets soar together in noiseless flight
or tack, like a regatta, the sea-green grass,
they are seraphic souls, as Joseph was.

Derek Walcott

da “White Egrets”, New York: Farrar, Straus & Giroux, 2010

Il mio nome – Mark Strand

 

Una sera che il prato era verdeoro e gli alberi,
marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei
nell’aria fragrante, e la campagna tutta palpitava
di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba,
ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo
cosa sarei diventato e dove mi sarei trovato,
e per quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii
che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii
il mio nome come per la prima volta, lo udii come
si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante
come se appartenesse non a me ma al silenzio
dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan)

da “Uomo e cammello”, 2006, in “Mark Strand, Tutte le poesie”, Mondadori, 2019

∗∗∗

My Name

Once when the lawn was a golden green
and the marbled moonlit trees rose like fresh memorials
in the scented air, and the whole countryside pulsed
with the chirr and murmur of insects, I lay in the grass,
feeling the great distances open above me, and wondered
what I would become and where I would find myself,
and though I barely existed, I felt for an instant
that the vast star-clustered sky was mine, and I heard
my name as if for the first time, heard it the way
one hears the wind or the rain, but faint and far off
as though it belonged not to me but to the silence
from which it had come and to which it would go.

Mark Strand

da “Man and Camel” 2006, inMark Strand, New Selected Poems”, Knopf Doubleday Publishing Group, 2009 

Prospettiva – Wisława Szymborska

Ralph Gibson, Mary Ellen Mark, 1967

 

Si sono incrociati come estranei,
senza un gesto o una parola,
lei diretta al negozio,
lui alla sua auto.

Forse smarriti
o distratti
o immemori
di essersi, per un breve attimo,
amati per sempre.

D’altronde nessuna garanzia
che fossero loro.
Sì, forse, da lontano,
ma da vicino nient’affatto.

Li ho visti dalla finestra
e chi guarda dall’alto
sbaglia più facilmente.

Lei è sparita dietro la porta a vetri,
lui si è messo al volante
ed è partito in fretta.
Cioè, come se nulla fosse accaduto,
anche se è accaduto.

E io, solo per un istante
certa di quel che ho visto,
cerco di persuadere Voi, Lettori,
con qualche verso occasionale,
quanto triste è stato.

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Due punti / Qui”, Libri Scheiwiller, 2010

***

Perspektywa

Minęli się jak obcy,
bez gestu i słowa,
ona w drodze do sklepu,
on do samochodu.

Może w popłochu
albo roztargnieniu,
albo nicpamięraniu,
że przez krótki czas
kochali się na zawsze.

Nic ma zresztą gwarancji,
że to byli oni.
Może z daleka tak,
a z bliska wcale.

Zobaczyłam ich z okna,
a kro patrzy z góry,
ten najłatwiej się myli.

Ona zniknęła za szklanymi drzwiami,
on siadł za kierownicą
i szybko odjechał.
Czyli nic się nic stało
nawet jeśli stało.

A ja, tylko przez moment
pewna, co widziałam,
próbuję teraz w przygodnym wierszyku
wmawiać Wam, Czytelnikom,
że to było smutne.

Wisława Szymborska

da “Dwukropek”, Wydawnictwo a5, 2005