
Foto di Roberto Nespola
Il mare che hai amato non è solo
quello che tu vedendolo incresparsi
ai tuoi piedi par voglia suggerirti
che anche il tempo è innamorato mentre
viene a cercarti da lontano. E sirti
sitibonde forse hanno suggellato
che altre onde cercavano l’amore
nella loro più fonda aridità
di una luce che il ghibli già ingrigia,
− forse un resto del pianto delle tigri
insinuato nel sonno del fanciullo −
quasi già ne cercasse le vestigia
nella stessa incipiente ansietà
di quel suo enigmatico oriente.
Manca sempre a ciò che si sa, qualcosa.
Manca l’ultimo petalo alla rosa.
Hai camminato spesso pensieroso
lungo questi suggerimenti. Tenta
in ogni tentazione ciò che anche
l’amore ignora. Il vento, anche il vento
che ruba l’amaro alle tamerici
e ai mirti le mirabili pendici,
carpiva, ultimo accento dell’amore,
che se qualcosa muore è per rinascere
nel misterioso fiore in cui posare
il tuo sguardo in attesa non è più
né una speranza né una resa.
Il luogo
dell’amore è misterioso: forse
non ha riposo che nel proprio oblio.
Se il tempo ha un luogo, in quale luogo mai
può dirti quello che non sai? Tornava
sui suoi passi il fanciullo, abbandonata
ogni sua estrema postazione. Amava
non conoscere a fondo la lezione
che la natura stessa non contempla
fino in fondo? Irredenta c’è una luce
straniera su ogni cosa conosciuta.
Non gli bastava il mondo, quella strana
indolenza sovrana della luce,
a ritrovare ciò che nel profondo
di se stesso il fanciullo aveva inscritto
a lettere di fuoco.
Il conflitto
tra il tempo e un luogo misericordioso
non ha riposo nell’animo umano
dove il sigillo ha impresso sulla cera
ardente il suo indirizzo misterioso.
Né io non oso dirmi quale mano
che lo condusse in quel luogo strano
fu decisiva. Un luogo senza tempo
o un tempo senza luogo? Fu incisiva
quella che allontana da ogni riva,
da ogni suggerimento? E che moriva
l’amore se avvista in una sponda
il proprio compimento. L’altomare
silenzioso del cuore, la deriva,
ne sapeva qualcosa più di lui.
Così spiccò una rosa dal roseto
più spinoso un dì quell’io dubbioso
che soffriva e la offrì all’amore
che trovò nel suo pungersi il riposo
in un’offerta che non sai da dove
scaturiva ma che accettò pietoso.
Manca l’ultimo petalo, l’assente
era il più profumato e doloroso?
Era suo il sangue o di chi gli ha offerto
questo dono così pericoloso?
La comprensione, in cui tutto è niente,
condivide o separa la ferita?
È proprio nel più incerto e confuso
che l’uso non doloso di quel dono
è come il vento che in mare aperto
non sai dove ti porta, né ha altro merito
se non accline a quel suo turbinare
che non ha fine che nella sua origine,
nella vertigine del suo sgomento.
Piero Bigongiari
16-20 marzo 1997
da “Il silenzio del poema: poesie 1996-1997”, Genova, Marietti, 2003
