De profundis – Georg Trakl

Foto di Jennifer B Hudson

 

C’è un campo di stoppie, vi cade pioggia nera.
C’è un albero bruno, solitario.
C’è un vento che sibila intorno a capanne vuote.
Che triste sera.

Davanti al cascinale
La dolce orfana raccoglie ancora poche spighe.
I suoi occhi dorati e tondi pascolano nella sera
E il grembo attende lo sposo celeste.

Ritornando
I pastori hanno trovato il tenero corpo
Fra i rovi, imputridito.

Un’ombra sono, lontana dai villaggi scuri.
Silenzio di Dio
Bevvi alla fonte del bosco.

Freddo metallo mi affiora sulla fronte
Ragni cercano il mio cuore.
C’è una luce e mi si spegne in bocca.

A notte mi ritrovai in un campo,
Intriso di sporcizia e polvere stellare.
Tra i nocciòli
Riprese il suono di angeli cristallini.

Georg Trakl

(Traduzione di Ida Porena)

da “Georg Trakl, Poesie”, Einaudi, Torino, 1979

***

De profundis

Es ist ein Stoppelfeld, in das ein schwarzer Regen fällt.
Es ist ein brauner Baum, der einsam dasteht.
Es ist ein Zischelwind, der leere Hütten umkreist.
Wie traurig dieser Abend.

Am Weiler vorbei
Sammelt die sanfte Waise noch spärliche Ähren ein.
Ihre Augen weiden rund und goldig in der Dämmerung
Und ihr Schoß harrt des himmlischen Bräutigams.

Bei ihrer Heimkehr
Fanden die Hirten den süßen Leib
Verwest im Dornenbusch.

Ein Schatten bin ich ferne finsteren Dörfern.
Gottes Schweigen
Trank ich aus dem Brunnen des Hains.

Auf meine Stirne tritt kaltes Metall.
Spinnen suchen mein Herz.
Es ist ein Licht, das meinen Mund erlöscht.

Nachts fand ich mich auf einer Heide,
Starrend von Unrat und Staub der Sterne.
Im Haselgebüsch
Klangen wieder kristallne Engel.

Georg Trakl

da “Gedichte”, Leipzig: Kurt Wolff Verlag, 1913

Sera – José Luis Cano

Rudolf Bonvie, Dialog, 1973

 

Tocco ogni giorno con le mie mani la felicità,
la bacio con le mie labbra,
lascio che s’addormenti dolcemente sul mio petto,
che poi si desti commossa
come un bel sogno.
Di fronte il cielo, gli uccelli e la tua bocca socchiusa,
sulla strada con acacie e bambini,
delicata e tremula come una sonata.
E dalla mia terrazza, intima come una carezza,
avido sorbisco la sera e la sua bellezza,
contemplo l’aereo che lacera sereno l’aria pura,
e quasi tocco, accarezzo con le mie dita la luna immensa
posata con tenerezza su un pioppo vicino.
Poca cosa è quel che manca a volte per sentire la felicità:
una luce, un fiore, una brezza, una mano nella nostra mano,
o questa sera che sembra di carne, di soavissima madreperla,
sera consegnata per un remotissimo guardare,
per entrare adagio in essa, come un sogno, nell’anima,
per baciarla pura, immateriale, celeste.

José Luis Cano

(Traduzione di Oreste Macrì)

da “Poesia spagnola del ‘900”, a cura di Oreste Macrì, Garzanti, 1974

***

La tarde

Cada día toco con mis manos la dicha
la beso con mis labios
la dejo que se duerma dulcemente en mi pecho
que se despierte luego estremecida como un hermoso sueño.
Enfrente el cielo, los pájaros y tu boca entreabierta
sobre la calle con acacias y niños
delicada y trémula como una sonata.
Y desde mi terraza, íntima como una caricia
ávido sorbo la tarde y su hermosura
contemplo el avión rasgar sereno el aire puro
y casi toco
acaricio con mis dedos la luna inmensa
posada con ternura sobre un árbol cercano.
Poca cosa es lo que hace falta a veces para sentir la dicha
una luz, una flor, una brisa, una mano en la nuestra
o esta tarde que parece de carne
de suavísimo nácar
tarde entregada para un mirar lentísimo
para entrarla despacio
como un sueño en el alma
para besarla pura, inmaterial y celeste.

José Luis Cano

da “Otoño en Málaga, y otros poemas”, A. Gutiérrez, 1955

Un’oscura sete – Milo De Angelis

Foto di Alex Pardi

 

Non rispondono all’appello, sono
dispersi ai bordi della terra, hanno
il segreto della linea che trema, sono usciti
dalle vene dell’essere amato e ora
potete vederli, di sera, verso le tangenziali
chiedere silenzio con un dito sulle labbra.

Anzi, è sempre più vicina
quest’armata dei corpi, queste
macerie che s’incrostano alle ciglia
e talvolta arrivano a una musica:
quelli che stavano sull’attenti
aspettano la buona notte, tra i pioppi,
uno alla volta, nel grande
autunno sbilanciato.

Per nascere occorre un ritorno.
Tutto si mostrerà, tra i macigni neri,
anche lei alzerà le braccia esultante
con un barlume di tutte le infanzie,
con l’acqua più in su della vita,
giungerà il richiamo, un’estate
che somiglia alla prima
via conosciuta, l’estremo nome
di ogni via.

Torna antica la parola
e quella stanza era un suono
di fogli e neon, lesione
nella castità delle dita
a precipizio tra due pareti,
scendo in un giorno remoto,
il polpaccio s’indurisce,
tutto finisce a mezzogiorno, di ombra
in ombra si abbrevia una vita,
l’erba cresce nei corridoi
bisogna consegnare,
tra qualche minuto, bisogna
consegnare anche la brutta.

Giungono, stanno giungendo. Sono brandelli
di un’estate. La vecchia
ha in braccio proprio lui,
con le ginocchia macchiate di catrame.
Solo, occultato nel buio dell’indomani,
corre ancora dieci metri. L’altro, nella luce
artificiale del campo Pirelli,
salta uno e novantuno
e poi scompare. Tu guardi sempre lì
e a volte, con gli occhi fissi, cominci ad applaudire.

Transita nelle case popolari
la stessa forma destinata
si intreccia alle dita e le fa sue…
scende il mercurio del termometro, tutto
riprende il proprio caos,
si ferma la bocca
sul punto di parlare, si aprono gli occhi
della tuffatrice con la testa spaccata…

Abbiamo scritto per un mandato
certo come il nostro smarrimento,
eravamo lì, in un fervore di ceneri,
murati vivi, mentre una foiba scendeva
nella bocca, sigillava tutte le parole date,
la corsa dei momenti, la morte vista in giro…
… così giunse la notte umana, nel tempo
delle sillabe tronche, così il vero
inizio di ogni cosa.

Si spalancò la porta furente, uscì
il drappello dei solitari, avvenne
una grande battaglia tra le tangenziali
dove ogni condominio affonda nel suo inferno…
e lampeggiano creature con la sciarpa nera…
ferita, al mio fianco, una cacciatrice
spezza i rami sul granito, riduce il sangue
delle frasi in gocce dure,
con il seno offerto al vuoto…

Nostre amate sillabe
che raccogliamo a mani giunte
che scendono in oscure cantine
e incontrano un nonnulla,
collera storica e celeste
per ciò che non si compie

i vostri volti passano
in un minuto da stringere
dove la finestra dalle luci alte
fallisce un assoluto di poesia

feroce ordine dei canti,
mano attonita, eternità
mancata per un soffio
mentre le ore senza corpo comandano
linea colpita in quella rimasta.

Milo De Angelis

da “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, “Lo Specchio” Mondadori, Milano, 2010

Per Vava – Marc Chagall

Marc Chagall, Portrait Of Vava, c.1955

 

Con te io sono giovane
Quando laggiú gli alberi minacciano
E il cielo vanisce in lontananza
I tuoi occhi mi toccano

Quando ogni passo si perde sull’erba
Quando ogni passo sfiora le acque
Quando le onde mi fervono in testa
E dall’azzurro qualcuno mi chiama

Con te io sono giovane
Cadono i miei anni come foglie
E qualcuno colora le mie tele
Allora esse brillano di te

E sul tuo volto il sorriso è radioso
Piú chiaro assai delle nubi piú chiare
Allora io corro dove sei
Dove mi pensi e dove mi attendi

Marc Chagall

(Traduzione di Plinio Acquabona)

dalla rivista “Poesia”, Anno IX, Marzo 1996, N. 93, Crocetti Editore

Rimani in sogno – Alfonso Gatto

Scultura di Yves Pires

 

Era stupore di notte
o anima di vento
la casa leggera che il lume
portava sulla sua ombra.

Rimani in sogno laggiù,
giovane di plenilunio
alle terrazze aperte.

Addormentata in declivio
sul braccio che ti chiude
sei giusta, e salvi ancora
la pace alla mia morte.

Abbiamo freddo insieme
nelle notti se chiami
il tuo nome nel sogno a illimpidirti.
La paura d’esistere non salva
una giornata calma alla bambina
che ricerca nel seno il tuo passato.

Rimani in sogno e come il sogno uguale
trascorra la pianura, il dolce vento.

Alfonso Gatto

da “La memoria felice, 1937-1939”, in “Poesie, 1929-1941”, Mondadori, Milano, 1961

In “Poesie”, Panorama, Milano, 1939 (come già in «Il Frontespizio», 1937, 4) i due versi conclusivi sono : «E t’invento la morte per sollievo / nell’infanzia degli angeli e dei prati.».