Risveglio – Cesare Pavese

Peter Marlow, Kingswear Castle, Devon, England, 1998

     

       Lo ripete anche l’aria che quel giorno non torna.
La finestra deserta s’imbeve di freddo
e di cielo. Non serve riaprire la gola
all’antico respiro, come chi si ritrovi
sbigottito ma vivo. È finita la notte
dei rimpianti e dei sogni. Ma quel giorno non torna.

     Torna a vivere l’aria, con vigore inaudito,
l’aria immobile e fredda. La massa di piante
infuocata nell’oro dell’estate trascorsa
sbigottisce alla giovane forza del cielo.
Si dissolve al respiro dell’aria ogni forma
dell’estate e l’orrore notturno è svanito.
Nel ricordo notturno l’estate era un giorno
dolorante. Quel giorno è svanito, per noi.

     Torna a vivere l’aria e la gola la beve
nella vaga ansietà di un sapore goduto
che non torna. E nemmeno non torna il rimpianto
ch’era nato stanotte. La breve finestra
beve il freddo sapore che ha dissolta l’estate.
Un vigore ci attende, sotto il cielo deserto.

Cesare Pavese

[7-8 novembre 1937]

da “Poesie del disamore”, Einaudi, Torino, 1951

Il cuore, l’acqua non intorbidita – Yves Bonnefoy

Édouard Boubat, Lella, France, 1949

 

Sei allegra o triste?
– Come saperlo,
Salvo che nulla pesa
Al cuore senza ritorno.

Nessun passo d’uccello
Su questa vetrata
Del cuore attraversato
Da giardini ed ombra.

Un pensiero di te
Che ha bevuto la mia vita
Ma tra queste foglie
Nessun ricordo.

Sono l’ora semplice
E l’acqua non intorbidita.
Ho saputo amarti,
Non sapendo morire?

Yves Bonnefoy

(Traduzione di Fabio Scotto)

da “Pietra scritta” (1965), in “Yves Bonnefoy, Seguendo un fuoco”, Crocetti Editore, 2003 

***

Le cœur, l’eau non troublée 

Es-tu gaie ou triste?
– Ai-je su jamais,
Sauf que rien ne pèse
Au cœur sans retour.

Aucun pas d’oiseau
Sur cette verrière
Du cœur traversé
De jardins et d’ombre.

Un souci de toi
Qui a bu ma vie
Mais dans ce feuillage
Aucun souvenir.

Je suis l’heure simple
Et l’eau non troublée.
Ai-je su t’aimer,
Ne sachant mourir?

Yves Bonnefoy

da “Pierre Écrite” (1965), in “Poèmes (1945-1974)”, Mercure de France, 1977

credo – Roberta Dapunt

David Turnley, Fearful Palestinian Girl, 1995

 

Credo nelle anime sante,
nella loro indipendenza conquistata sui sensi di una preghiera.
Credo nel lamento di un uomo in agonia,
inaccessibile silenzio degli ultimi istanti in una vita.
Credo nel lavaggio del suo corpo fermo,
nel suo vestito a festa e nell’incrocio delle mani,
testimoni di un battesimo confidato.

Credo nella gloria dei vinti.
Credo nelle loro carni piegate sotto le macerie,
i loro respiri cessati.
Credo nelle distese di orti trasformati,
dentro al loro recinto le ossa dei popoli ammazzati.
Credo nei miserabili che annegano alle porte d’Italia.
Credo in quelli che rimangono e il giorno dopo chiamiamo clandestini.
Credo nelle loro bambine vendute ai nostri piaceri,
nella loro tristezza che sorride vittima di un rossetto ingrato.

Credo negli angeli senza ali,
in quelli che a piedi nudi camminano dentro una fede.
Credo nel mondo,
quello fuori dalla vetrina in ginocchio a guardare dentro.
Credo nel colore delle pelli che indossa,
negli occhi neri dei figli che perde affamati.

Credo nella verità delle madri e del loro amore.
Credo nella miseria e nell’umiltà di questi versi.
Credo nella bellezza
e qui conviene fermarmi.

Roberta Dapunt

da “La Terra piú del paradiso”, Einaudi, Torino, 2009

«Sono testimone del tuo grido antico» – Gëzim Hajdari

Foto di Nastya Kaletkina

 

Sono testimone del tuo grido antico
e di quelli che ti hanno chiamato e respinto.
Cosa cerchi con occhi spalancati nel buio,
mia bellezza d’argilla e sangue?

Quante volte ti ho visto piangere la sera
trascinando la tua vita nel freddo.
Sono corso da te scalzo e impaurito
e ti ho accarezzato la fronte tenebrosa.

Sei voce straziante della mia carne assetata
che brucia nel fuoco della tua selva.
Non c’è veleno che calmi le nostre passioni
in questa collina brulla e impazzita.

Gëzim Hajdari

da “Antologia della pioggia”, Edizioni Ensemble, Roma, 2018

∗∗∗

«Jam dëshmitare i klithmës sate të lashtë»

Jam dëshmitare i klithmës sate të lashtë
dhe i atyre që të kanë thirrur e sprapsur.
Çfarë kërkon sypërveshur netëve të gjata
e bukura ime prej argjile dhe gjaku?

Sa herë të kam parë të qashë muzgjeve
tërhequr zvarrë në te ftohtë.
Kam rendur te ty zbathur, i frikur
e të kam përkëdhelur ballin e zymtë.

Je zë sfilitës i mishit tim të etur
që digjet në zjarr të korijes tënde.
S’ka helm t’i qetsojë ndjenjat tona
në kët’kodër të zhveshur e të marrë.

Gëzim Hajdari

da “Antologjia e shiut”, Naim Frashëri, Tirana, 1990 

Come uno buttato ubriaco sul battello postale – John Ashbery

John Ashbery

 

Ho tentato tutto, poco era immortale e libero.
Altrove è come stessimo in un luogo dove il sole
scende sfarinato, un po’ per volta,
ad aspettare che qualcuno venga. Volano parole aspre,
mentre il sole tinge in giallo il verde dell’acero…

Tutto qui, ma ermeticamente
ho avvertito il sommuoversi di un fiato nuovo nelle pagine
che tutto inverno hanno esalato l’odore di un vecchio catalogo.
Nuovi periodi si accendevano. Ma l’estate
era inoltrata, non ancora oltre il mezzo del cammino
ma piena e buia della promessa di quella pienezza,
di quel momento in cui non ci si può più sviare
e perfino i meno attenti ammutoliscono
per contemplare ciò che è pronto ad accadere.

Uno sguardo di specchio ti arresta
e tu passi oltre scosso: ero io il percepito?
Mi hanno notato, stavolta, così come sono,
o tutto è ancora rimandato? I bimbi
ancora intenti ai giochi, nuvole che salgono con agile
impazienza nel cielo pomeridiano, per dissiparsi
quando scende il limpido, denso crepuscolo.
Solo in quel colpo di clacson
là in fondo, per un attimo, ho pensato
che l’insigne evento formale stesse iniziando, orchestrato,
i colori addensati in uno sguardo, ballata
che abbraccia il mondo intero, adesso, ma con dolcezza,
ancora con dolcezza, ma con ampia autorità e tatto.

La prevalenza di quei fiocchi grigi che cadono?
È pulviscolo di sole. Hai dormito al sole
più della sfinge, ma non ne sai più di prima.
Entra. Ho pensato che un’ombra tagliasse la soglia
ma era soltanto lei venuta a chiedere ancora una volta
se intendevo entrare, e in caso contrario di prendermela calma.
La lucentezza della notte s’insedia. Una luna dal pallore cistercense
ha scalato la vetta del firmamento, vi si è installata,
socia adesso nell’affare del buio.
E un sospiro sale da ogni minuscola cosa terrena,
da libri, carte, vecchie giarrettiere, dai bottoni di sottomaglie e mutandoni
riposti in una scatola di cartone bianco chissà dove, e tutte le versioni
inferiori di città rase al suolo dalla livella della notte.
L’estate troppo esige, troppo prende,
ma la notte, schiva, reticente, dona più di ciò che sottrae.

John Ashbery

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “Autoritratto entro uno specchio convesso”, Bompiani, 2019

∗∗∗

As one put drunk into the packet-boat

I tried each thing, only some were immortal and free.
Elsewhere we are as sitting in a place where sunlight
Filters down, a little at a time,
Waiting for someone to come. Harsh words are spoken,
As the sun yellows the green of the maple tree…

So this was all, but obscurely
I felt the stirrings of new breath in the pages
Which all winter long had smelled like an old catalogue.
New sentences were starting up. But the summer
Was well along, not yet past the mid-point
But full and dark with the promise of that fullness,
That time when one can no longer wander away
And even the least attentive fall silent
To watch the thing that is prepared to happen.

A look of glass stops you
And you walk on shaken: was I the perceived?
Did they notice me, this time, as I am,
Or is it postponed again? The children
Still at their games, clouds that arise with a swift
Impatience in the afternoon sky, then dissipate
As limpid, dense twilight comes.
Only in that tooting of a horn
Down there, for a moment, I thought
The great, formal affair was beginning, orchestrated,
Its colors concentrated in a glance, a ballade
That takes in the whole world, now, but lightly,
Still lightly, but with wide authority and tact.

The prevalence of those gray flakes falling?
They are sun motes. You have slept in the sun
Longer than the sphinx, and are none the wiser for it.
Come in. And I thought a shadow fell across the door
But it was only her come to ask once more
If I was coming in, and not to hurry in case I wasn’t.

The night sheen takes over. A moon of cistercian pallor
Has climbed to the center of heaven, installed,
Finally involved with the business of darkness.
And a sigh heaves from all the small things on earth,
The books, the papers, the old garters and union-suit buttons
Kept in a white cardboard box somewhere, and all the lower
Versions of cities flattened under the equalizing night.
The summer demands and takes away too much,
But night, the reserved, the reticent, gives more than it takes.

John Ashbery

da “Self-Portrait in a Convex Mirror”, Penguin Publishing Group, 1972