
Lorenzo Babini, foto di Paola Amato
quan mi soven de la cambra
on a mon clan sai que nuills hom non intra
ARNAUT DANIEL
I
È stato come da bambino l’idea di cadere nel pozzo,
con il suo vuoto di acqua e di foglie
(piuttosto immaginatela così: una stanza assente
piena di assenza, senza rumori,
senza pareti a cui appoggiare le mani).
II
Mi voltavo e non c’eri più.
Ero in una stanza piena di nebbia
e tu non potevi entrare,
grattavi nella porta, come un cane
III
Ora la camera è in cima a una torre. Nell’oscurità
sibila il vento, fa risuonare i cocci di vetro, porta i rumori del bosco.
Un grande albero al centro della stanza
si sbianca nel vento, resiste
all’urto della corrente. Come una nube dorata
si spoglia di tutte le foglie. Resiste
nella sua geometria, si ghiaccia
in un groviglio argenteo di vene
proiettato e fisso
nell’oscurità della notte.
IV
Le radici incrinano rompono il pavimento
e ai piedi è tutto un groviglio di braccia
che si stringono e si attorcigliano.
Le radici si allungano, crescono, salgono
ricoprono la stanza, la circoscrivono
fino a che si ritorna nel chiuso,
nel tepore di una camera, nella penombra,
riscaldata da un camino.
V
Nella camera, finalmente,
nella camera segreta
senza muri
“perché domandi il mio nome, che è ampio
e magnifico?”
tirando le tende, spostandole,
rimanendone avvolto, fasciato,
mentre il punto di fuga si allontana
ho corso, ho corso finché ho potuto, ho corso
ero sfinito…
Cammino ora nell’assenza, nell’impalpabile
oscurità: una figura
si muove, un cigolio.
VI
La figura si avvicinò nell’oscurità
e una luce soffusa si espanse:
“Ora ti vedo stupenda bellezza, bianca
come la luna in questa stanza.
Ricoprimi con le tue braccia che sono rami splendenti,
carichi di neve”
e poi ancora:
“di te parlavano antichi segni
anticamente, che doni grano, miele, vino
e grossi animali dispersi nei boschi”.
Affondò lentamente un pugnale nella spalla nuda
come la chiave per aprire uno scrigno
da cui uscirono i giorni, le notti, le città straniere,
lunghi campi avvolti da nebbie,
l’alta marea, il chiaro di luna, l’albero
coperto di neve, l’avorio splendente, il libro
intellegibile, come era stato e come sarà ancora:
“Tu non sai
che tutto il tempo, ogni ora, ogni minuto
s’intesse in una trama densa, in un tessuto”.
E io, nella camera del desiderio, inginocchiato, con le mani
sotto il suo manto azzurro…
VII
Ti ritrovo qui,
in questa stanza, da dove
non mi muovo da secoli. Anche ora, vedi,
ora che è tutto porto, luce, stagione
dell’estate in un verde azzurro
mediterraneo.
Penso a una stanza piena di vento
e di sole, all’origano, all’esplosione
di un vino arancione nel bicchiere…
e tu, misteriosa,
forse hai camminato per le strade di qualche città
un giorno, se ora
nel cuore della contingenza, nella volgare umiltà
delle cose, ti spogli, ti illumini, ti lasci trafiggere
da questa spada di luce.
VIII
Nella tua camera, sola, nella camera
silenziosa, in cima a una torre
circondata da sabbia e da un alto fossato…
ti hanno rinchiusa qui stirpi di antenati fenici,
popoli venuti dal mare, vecchi marinai,
e io che ti guardo in questo specchio di luce da migliaia di anni
e incanutisco, guardami, sono antichissimo
sono vecchissimo anch’io.
IX
Scintilla l’armatura deposta sulla sedia,
la mano sfoglia il libro, e invecchia.
Vuotiamo lentamente la brocca, si secca
l’acqua alla fontana
e mi pongo domande senza espressione
mentre il sole declina dalle vetrate di questa stanza
e si lancia oltre il paesaggio, dietro le torri
illuminando te, oscura e danneggiata,
illuminandoti di un disperato arancione.
X
Ora noi due nell’autunno dorato a guardarci
senza parlare, nel cuore pulsante
del desiderio…
una luce di lampada si posa
sull’avorio del tuo grembo
e lo veste, lo fa splendere, prima di scendere
nella città della pietra, nei tunnel
oscuri di vie che portano fuori
le mura
corrose, bagnate di pioggia.
E qui, quando sale la bruma dai fossi
con l’erba umida, tu, signora, risplendi e scompari
e ancora una volta io penso:
leggeremo un giorno il libro d’argento
su cui è stata scritta la mia, la nostra avventura.
XI
Ricordati. Non vedrai più forse il mio mantello
quando nel basso della valle guardavo su
verso la torre, a rincorrere una luce scintillante,
un cucchiaio, un pettine, un bottone, una posata d’argento.
XII
Per il desiderio che ho di voi mia donna, mio signore,
per il privilegio di sostare nella stanza, mettetemi alla’prova
nel torneo, nella lotta di ogni giorno. Che cosa volete
ancora da me in questo oscuro tormento, in questo circolo
vertiginoso, in questo impossibile incanto?
Volete che scriva?
Ebbene io sono Arnaldo che l’etere abbraccia,
che desidera ogni giorno oltre misura,
che con la lepre va a caccia del bue,
che vede il sole, come una pioggia, cadere nel mare
e nuota contro la marea che sale.
Lorenzo Babini
dalla rivista “Poesia”, Nuova serie, Anno II, N.7, Maggio / Giugno 2021, Crocetti Editore