Notte di pioggia – Juana de Ibarbourou

Juana de Ibarbourou

 

Piove… Aspetta, non dormire,
Ascolta bene ciò che dice il vento
E ciò che dice l’acqua mentre batte
Con le dita minute contro i vetri.

Tutto il mio cuore diventa orecchio
Per ascoltare l’ammaliata sorella,
Che ha dormito nel cielo,
Che ha visto il sole da vicino,

E adesso scende elastica e allegra
Dalla mano del vento,
Come una viaggiatrice
Che torna dal regno delle meraviglie.

Come sarà felice il grano morbido!
Con quanta avidità s’offrirà l’erba!
Quanti diamanti penderanno adesso
Dal fogliame profondo nei pineti!

Aspetta, non dormire. Ascoltiamo
Il ritmo della pioggia
Appoggia tra i miei seni
La fronte silenziosa.

Io sentirò pulsare le tue tempie
Palpitanti e tiepide
Come fossero dei martelli vivi
Battendo sulla mia carne.

Aspetta, non dormire. Questa notte
Noi due siamo un mondo,
Isolato dal vento e dalla pioggia
Dentro il tiepido rifugio dell’alcova.

Aspetta, non dormire. Questa notte
Siamo forse la radice sublime
Dalla quale germinerà domani
Il tronco bello di una stirpe nuova.

Juana de Ibarbourou

(Traduzione di Martha Canfield)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore

***

Noche de lluvia

Llueve… Espera, no te duermas,
Estáte atento a lo que dice el viento
Y a lo que dice el agua que golpea
Con sus dedos menudos en los vidrios.

Todo mi corazón se vuelve oídos
Para escuchar a la hechizada hermana,
Que ha dormido en el cielo,
Que ha visto al sol de cerca,

Y baja ahora elástica y alegre
De la mano del viento,
Igual que una viajera
Que toma de un país de maravilla.

¡Cómo estará de alegre el trigo ondeante!
¡Con qué avidez se esponjará la hierba!
¡Cuántos diamantes colgarán ahora
Del ramaje profundo de los pinos!

Espera, no te duermas. Escuchemos
El ritmo de la lluvia.
Apoya entre mis senos
Tu frente taciturna.

Yo sentiré el latir de tus dos sienes
Palpitantes y tibias,
Como si fueran dos martillos vivos
Que golpearan mi carne.

Espera, no te duermas. Esta noche
Somos los dos un mundo
Aislados por el viento y por la lluvia
Entre la cuenca tibia de una alcoba.

Espera, no te duermas. Esta noche
Somos acaso la raíz suprema
De donde debe germinar mañana
El tronco bello de una raza nueva

Juana de Ibarbourou

da “Obras escogidas”, Andres Bello, 1998

Monologo del Non so – Mariangela Gualtieri

Man Ray, Solarisation, 1931

 

Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
è intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
è un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio di ali, sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.

Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore

sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi
e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere qui presente fra le vite degli
altri.

Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.

Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.

Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri 
che si innamorano.

Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi eredi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.
Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi un canto della
guarigione, non so farvi da balsamo

io non so mettervi nel coraggio essenziale,
nello slancio, nel palpito.

Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento
volte.

Io non so se le particelle piriche del mio 
disagio fanno una miccia che incendia.
Non so se l’Attila del mondo ha
una forza che straborda le mie
dita pacifiche, non so se indurlo a
guerrigliare, non so se indurlo
se sedurlo se ridurlo a sagoma
di sogno, non so se alzare bandiera bianca
o finirò impantanato nella sua
normalità stupefacente, nella sua
normalità di Attila che
fa terra bruciata, non so se battermi,
essere patriota di un’idea sollevata, non so
se fare il giuramento alla
primavera che dice la sua infiorando e
incantando, non so se slanciarmi
nel cataclisma barbarico e dare
un goccio d’acqua alle bocche
screpolate dei fratelli, non so
se fare il giuramento a questa tregua
domestica, se fare il giuramento delle
pance satolle o azionare un voltafaccia
che strozza ogni boccone. Non so se nell’uno o
nell’altro caso sono salvo, se sono salvo
quando viene l’angelo
col suo atto d’accusa, e ci condanna ancora
ad una logica finanziaria
e poi dà l’ordine di sospendere le vite.

Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perché
mi trovo qui, in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perché stando ad occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci sono grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.

Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.
È poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.

Mariangela Gualtieri

da “Fuoco centrale e altre poesie per il teatro”, Einaudi, Torino, 2003

Labirinto – Wisława Szymborska

Foto di Chema Madoz

 

– e ora qualche passo
da parete a parete,
su per questi gradini
o giù per quelli,
e poi un po’ a sinistra,
se non a destra,
dal muro in fondo al muro
fino alla settima soglia,
da ovunque, verso ovunque
fino al crocevia,
dove convergono,
per poi disperdersi
le tue speranze, errori, dolori,
sforzi, propositi e nuove speranze.

Una via dopo l’altra,
ma senza ritorno.
Accessibile soltanto
ciò che sta davanti a te,
e laggiù, a mo’ di conforto,
curva dopo curva,
e stupore su stupore,
e veduta su veduta.
Puoi decidere
dove essere o non essere,
saltare, svoltare
pur di non farti sfuggire.
Quindi di qui o di qua
magari per di lì,
per istinto, intuizione,
per ragione, di sbieco,
alla cieca,
per scorciatoie intricate.
Attraverso infilate di file
di corridoi, di portoni,
in fretta, perché nel tempo
hai poco tempo,
da luogo a luogo,
fino a molti ancora aperti,
dove c’è buio ed incertezza
ma insieme chiarore, incanto
dove c’è gioia, benché il dolore
sia pressoché lì accanto
e altrove, qua e là,
in un altro luogo e ovunque
felicità nell’infelicità
come parentesi dentro parentesi,
e così sia
e d’improvviso un dirupo,
un dirupo, ma un ponticello,
un ponticello, ma traballante,
traballante, ma solo quello,
perché un altro non c’è.

Deve pur esserci un’uscita,
è più che certo.
Ma non tu la cerchi,
è lei che ti cerca,
e lei fin dall’inizio
che ti insegue,
e il labirinto
altro non è
se non la tua, finché è possibile,
la tua, finché è tua
fuga, fuga –

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Due punti / Qui”, Libri Scheiwiller, 2010

∗∗∗

Labirynt

− a teraz kilka kroków
od ściany do ściany,
tymi schodkami w górę,
czy tamtymi w dół,
a potem trochę w lewo,
jeżeli nie w prawo,
od muru w głębi muru
do siódmego progu,
skądkolwiek, dokądkolwiek
aż do skrzyżowania,
gdzie się zbiegają,
żeby się rozbiegnąć
twoje nadzieje, pomyłki, porażki,
próby, zamiary i nowe nadzieje.

Droga za drogą,
ale bez odwrotu.
Dostępne tylko to,
co masz przed sobą,
a tam, jak na pociechę,
zakręt za zakrętem,
zdumienie za zdumieniem,
za widokiem widok.
Możesz wybierać
gdzie być albo nie być,
przeskoczyć, zboczyć
byle nie przeoczyć.
Więc tędy albo tędy,
chyba że tamtędy,
na wyczucie, przeczucie,
na rozum, na przełay,
na chybił trafił,
na splątane skróty.
Przez któreś z rzędu rzędy
korytarzy, bram,
prędko, bo w czasie
niewiele masz czasu,
z miejsca na miejsce
do wielu jeszcze otwartych,
gdzie ciemność i rozterka
ale prześwit, zachwyt,
gdzie radość, choć nieradość
nieomal opodal,
a gdzie indziej, gdzieniegdzie,
ówdzie i gdzie bądź
szczęście w nieszczęściu
jak w nawiasie nawias,
i zgoda na to wszystko
i raptem urwisko,
urwisko, ale mostek,
mostek, ale chwiejny,
chwiejny, ale jedyny,
bo drugiego nie ma.

Gdzieś stąd musi być wyjście,
to więcej niż pewne.
Ale nie ty go szukasz,
to ono cię szuka,
to ono od początku
w pogoni za tobą,
a ten labirynt
to nic innego jak tylko,
jak tylko twoja, dopóki się da,
twoja, dopóki twoja,
ucieczka, ucieczka −

Wisława Szymborska

da “Dwukropek”, Wydawnictwo a5, Kraków, 2005

«Il fiore di geranio che dal davanzale» – Roberto Mussapi

Donata Wenders, Zora, Paris, France, 2002

 

Il fiore di geranio che dal davanzale
entrò in lei una mattina di sole, mentre si vestiva
come i tulipani a Van Gogh, un grido
di luce nella gola e uscendo dalla soglia,
tra i disegni delle portine e gli angoli delle case
scese come piena di fuoco in metropolitana, vide
le are dischiudersi a figure lontane e le anime
salire sulla vettura, alcune serene altre
con gli occhi cupi e le mani sudate
e poi allontanarsi lungo la scia buia
portata dal silenzio delle gallerie, scrutata
dai video che salivano alla regione del cielo
e dopo schiudendo gli occhi ritornare alla luce
fedele al grido rosso di quel mattino, al ronzio
del metrò che la seguiva nel sole come il suono
del mare, la propria immagine
attraversare il cristallo della portineria di riflessi
verdacquei, il sibilo costante dei terminali
come un’energia elettrica che unisse le vene
i volti netti inquadrati nelle finestre segate
nei muri, d’alluminio chiaro. A sera
sentì l’amato penetrarla come una spada
di fuoco e pianse stringendo il suo capo
come dovesse annullarsi e sparire
rientrare nel fiore di geranio che al ritorno
dormiva. Passerà secoli di viaggio nel cunicolo
buio guardando le ombre transitorie come d’oblio
di chi le ha conosciute ed amate
proverà un brivido strano nella portineria
e guarderà l’amato all’improvviso alle spalle
chiunque sarà, quel fuoco transitorio
e perenne che un giorno fu in lei
nel fiore di geranio come nei tulipani
in Van Gogh, lei non ricorderà,
lei non saprà, lei tornerà nei cunicoli
tra i fratelli addolorati e ignari,
ma il suo cuore non cambierà più ragione
e i suoi occhi guarderanno per sempre con un altro
inconsapevole, sovrano amore.

Roberto Mussapi

da “Luce frontale”, Jaca Book, 1998

Campanule d’amore – Patrick Kavanagh

 

Ci saranno campanule che crescono sotto i grandi alberi
E tu sarai lì ed io sarò lì in maggio;
Per qualche altro motivo dovremo ambedue far tardi
La sera a Dunshaughlin – per accontentare
Qualche immaginaria relazione,
Così tutti e due avremo da camminare in quel boschetto.

Ci interesserà l’erba
E il cerchio di un vecchio secchio e l’edera che intesse
Verdi incongruenza tra le foglie morte,
Fingeremo di sorprenderci al passare dei carri –

Guardando di lato solo di tanto in tanto le campanule nel boschetto,
Senza spaventarle mai con esclamazioni troppo concitate.

Saremo cauti e non gli faremo capire
Che le stiamo guardando, altrimenti assumeranno
Una posa di mera apparenza come ragazzi
Colti alla sprovvista in una castità naturale.
Non esigeremo dalle campanule del boschetto
Un’adulazione eccessiva dei nostri desideri.

Avremo altri amori – o così penseranno;
Le primule oppure le felci o le rose canine,
O anche i reticolati arrugginiti,
O le viole all’ombra dei terrapieni di acetosella.
Le campanule del boschetto varranno solo
Come digressione nel nostro segreto contemplare.

Conosceremo l’amore poco a poco, sguardo dopo sguardo.
Ah, la terra sotto queste radici è così bruna!
Andremo a rubare in cielo mentre Dio è in città –
Per puro caso ho scoperto un angelo sorridente
Che sbirciava tra i tronchi del boschetto
Mentre tu ed io camminavamo verso la stazione.

Patrick Kavanagh

(Traduzione di Saverio Simonelli)

da “Andremo a rubare in cielo”, Ancora, 2009

***

Bluebells for love

There will be bluebells growing under the big trees
And you will be there and I will be there in May;
For some other reason we both will have to delay
The evening in Dunshaughlin – to please
Some imagined relation,
So both of us came to walk through that plantation.

We will be interested in the grass,
In an old bucket-hoop, in the ivy that weaves
Green incongruity among dead leaves,
We will put on surprise at carts that pass –

Only sometimes looking sideways at the bluebells in the plantation
And never frighten them with too wild an exclamation.

We will be wise, we will not let them guess
That we are watching them or they will pose
A mere facade like boys
Caught out in virtue’s naturalness.
We will not impose on the bluebells in that plantation
Too much of our desire’s adulation.

We will have other loves or so they’ll think;
The primroses or the ferns or the briars,
Or even the rusty paling wires,
Or the violets on the sunless sorrel bank,
Only as an aside the bluebells in the plantation
Will mean a thing to our dark contemplation.

We’ll know love little by little, glance by glance.
Ah, the clay under these roots is so brown!
We’ll steal from Heaven while God is in the town –
I caught an angel smiling in a chance
Look through the tree-trunks of the plantation
As you and I walked slowly to the station.

Patrick Kavanagh

da “Collected Poems”, W. W. Norton & Company, 1964