
Francesco Jappelli, Praga, Campanile del Tempio di San Nicola
Qualche tempo fa ho letto sui giornali
che non so dove intendono proibire
di scampanare con le campane.
Diminuiscono cosí il numero dei decibel
nel trafelato baccano delle città.
La colpa è delle campane.
Dunque tàcciano.
D’altronde, non vi fossero campane sulle torri,
non vi sarebbe metallo sufficiente
per shrapnel e granate.
I cannoni non avrebbero lavoro
e non vi sarebbero guerre.
La signora Laetitia Dytrych,
ultima di coloro
che sanno colare le campane,
potrebbe riporre le braccia in grembo.
Ma i poeti?
Sono ossessionati dal desiderio
d’essere uditi anche loro in quel fracasso.
Quando scrivono, vengono momenti
in cui il buio si rovescia sul dorso,
mezzanotte si schianta,
l’orologio sopra di lei si spegne,
il silenzio batte i denti
e la bufera strappa i capelli alle sorgenti.
Dite, che fare dei poeti,
i quali vogliono esserci
quando sotto i colpi della civiltà
cominceranno a sgranarsi i bulloni del mondo,
e nei càmici bianchi degli scienziati
le cuciture si strapperanno?
I poeti vogliono a ogni costo
finir di piangere la canzone.
Quel che qui ti bisbiglio io
sono però solo due silenziose parole.
Niente piú.
E le parole cadono solo nei tuoi occhi.
Forse hanno ancora il profumo di quei fiori
che tremolavano sul carro funebre
mentre passava.
Jaroslav Seifert
(Traduzione di Sergio Corduas)
da “La colata delle campane”, in “Jaroslav Seifert, Vestita di luce”, Einaudi, Torino, 1986
∗∗∗
Před nedávnem…
Před nedávnem jsem čed v novinách,
že kdesi hodlají zakázat,
aby se vyzvánělo zvony.
Sníží tak počet decibelů
v uříceném hlomozu města.
Vinny jsou zvony.
At’tedy zmlknou.
Ostatně nebýt zvonů na věžích,
nebylo by dostatek kovu
na šrapnely a granáty.
Děla by neměla co dělat
a nebylo by válek.
Paní Laetitia Dytrychová,
poslední z těch,
kdož umějí odlévat zvony,
mohla by složit ruce do klína.
Ale co s básníky?
Jsou posedlí touhou,
aby byli také slyšeni v té vřavě.
Když píší, nastanou okamžiky,
že se obrací naruby tma,
skácí se půlnoc,
hodiny na ní zhasnou,
ticho jektá zuby
a vichřice rve vlasy studánkám.
Řekněte, co s básníky,
kteří chtějí být při tom,
až pod údery civilizace
začnou se rozsypávat nýty světa
a na bílých pláštích vědců
budou praskat švy?
Básníci chtějí mermomocí
doplakat svou píseň.
To však, co ti tu šeptám já,
je jen pár tichých slov.
Nic víc.
A slova padají jen do tvých očí.
Snad ještě trochu voní po květinách,
které se otřásaly na pohřebním voze,
když jel mimo.
Jaroslav Seifert
da “Odlʹevʹanʹi zvonů”, Ceskoslovensky spisovatel, 1967
Dove impera il materialismo piu abietto, i poeti, come campane, non servono. Si ostinano a cogliere la riflessa divina bellezza nel mondo,anelli, essi stessi, di collegamento tra il qui e l oltre, tra lo spirito e il terreno. Intessono lodi (a volte ardite ingannevoli trame) per celebrare la vita o la morte, proprio come le campane che cantano di gioia per un battesimo,o piangono, annunciando una fine ed accompagnando quel -niente più -di cui solo così , forse, si può prendere coscienza.I poeti non servono, proprio perché non -servono-.Come campane sono sospesi nell incredibile,protesi verso la meraviglia.
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