«È stato, accadde, è vero» – Pedro Salinas

Emil Otto Hoppé, Ms. Ann Hayes, 1934

 

[V]

È stato, accadde, è vero.
Fu in un giorno, fu una data
che segna il tempo al tempo.
Fu in luogo che io vedo.
I suoi piedi toccavano il suolo
questo stesso che tutti tocchiamo.
Il suo vestito
era simile ad altri
che indossano altre donne.
Il suo orologio
sfogliava calendari,
senza scordare un’ora:
come contano gli altri.
E quello che lei mi disse
fu in una lingua del mondo,
con grammatica e storia.
Cosí vero
che sembrava menzogna.

No.
Devo viverlo dentro,
me lo devo sognare.
Togliere il colore, il numero,
il respiro tutto fuoco,
con cui mi bruciò nel dirmelo.
Mutare tutto in forse,
in mero caso, sognandolo.
Cosí, quando vorrà smentire
ciò che mi disse allora,
non mi morderà il dolore
d’una felicità perduta
che io tenni fra le braccia,
come si tiene un corpo.
Crederò di aver sognato.
Che tutte quelle cose, cosí vere,
non ebbero corpo, né nome.
Che perdo
un’ombra, un sogno ancora.

Pedro Salinas

(Traduzione di Emma Scoles)

da “La voce a te dovuta”, Einaudi, Torino, 1979

∗∗∗

[V]

Ha sido, ocurrió, es verdad.
Fue un día, fue una fecha
que marca el tiempo al tiempo.
Fue en un lugar que yo veo,
Sus pies pisaban el suelo
este que todos pisamos.
Su traje
se parecía a esos otros
que llevan otras mujeres.
Su reló
destejía calendarios,
sin olvidarse una hora;
como cuentan los demás.
Y aquello que ella me dijo
fue en un idioma del mundo;
con gramática e historia.
Tan de verdad
que parecía mentira

No.
Tengo que vivirlo dentro,
me lo tengo que soñar.
Quitar el color, el número
el aliento, todo fuego
con que me quemó, al decírmelo.
Convertir todo en acaso, en azar puro,
soñándolo.
Y así cuando se desdiga
de lo que entonces me dijo
no me morderá el dolor
de haber perdido una dicha
que yo tuve entre mis brazos,
igual que se tiene un cuerpo.
Creeré que fue soñando,
que aquello tan de verdad,
no tuvo cuerpo, ni nombre.
Que pierdo
una sombra, un sueño más.

Pedro Salinas

da “La voz a ti debida”, Madrid, Signo, 1933

«Dimmi, perché quest’ansia» – Pedro Salinas

Pentti Sammallahti, Helsinki, Finland, 1983

[LVII]

Dimmi, perché quest’ansia
di fare la possibile,
se tu sai di essere quella
che non sarai mai?
Tu al mio fianco, nella tua carne,
nel tuo corpo, sei solo
il grande desiderio inutile
di stare qui al mio fianco
nel tuo corpo, nella tua carne.
In tutto ciò che fai,
di vero, di visibile,
nulla si compie,
e nulla si realizza, no.
Ciò che tu fai altro non è
che ciò che tu vorresti
fare mentre lo fai.
Le parole, le mani
che mi porgi, le bacio
per quella volontà
irrealizzabile e tua
di darmele, nel darmele.
E quanto piú ti accosti a me
e piú ti stringi
contro il no indistruttibile
e nero, piú grandi si fanno
per il desiderio di abolirle,
per l’ansia che non esistano,
le distanze senza fondo
che tu vuoi ignorare
abbracciandomi. E sento
che il vivere tuo con me
è puro segno, indizio,
in baci, in presenze,
dell’impossibile, del
desiderio tuo di vivere
con me, mia, sempre.

Pedro Salinas

(Traduzione di Emma Scoles)

da “La voce a te dovuta”, Einaudi, Torino, 1979

∗∗∗

[LVII]

Dime, ¿por qué ese afán
de hacerte la posible,
si sabes que tú eres
la que no serás nunca?
Tú a mi lado, en tu carne,
en tu cuerpo, eres sólo
el gran deseo inútil
de estar aquí a mi lado
en tu cuerpo, en tu carne.
En todo lo que haces,
verdadero, visible,
no se consuma nada,
ni se realiza, no.
Lo que tú haces no es más
que lo que tú querrías
hacer mientras lo haces.
Las palabras, las manos
que me entregas, las beso
por esa voluntad
tuya e irrealizable
de dármelas, al dármelas.
Y cuanto más te acercas
contra mí y más te estrechas
contra el no indestructible
y negro, más se ensanchan
de querer abolirlas,
de afán de que no existan,
las distancias sin fondo
que quieres ignorar
abrazándome. Y siento
que tu vivir conmigo
es signo puro, seña,
en besos, en presencias,
de lo imposible, de
tu querer vivir
conmigo, mía, siempre.

Pedro Salinas

da “La voz a ti debida”, Madrid, Signo, 1933

«Che corpi lievi, sottili» – Pedro Salinas

Lucien Clergue, Zebra Nude, Arles, 2010

[LXVIII]

Che corpi lievi, sottili,
vi sono, incolori,
vaghi come le ombre,
che non si possono baciare
se non posando le labbra
nell’aria, contro qualcosa
che passa e si rivela!

E che ombre brune vi sono,
cosí dure
che il loro scuro marmo freddo
non potrà mai abbandonarsi
appassionato fra le nostre braccia!

E che viavai, su e giú,
con l’amore che ondeggia,
dai corpi alle ombre,
dall’impossibile alle labbra,
senza sosta, senza sapere mai
se è anima di carne od ombra
di corpo ciò che baciamo,
se pure è qualcosa! Tremanti
di dare amore al nulla!

Pedro Salinas

(Traduzione di Emma Scoles)

da “La voce a te dovuta”, Einaudi, Torino, 1979

***

[LXVIII]

¡Qué cuerpos leves, sutiles,
hay, sin color,
tan vagos como las sombras,
que no se pueden besar
si no es poniendo los labios
en el aire, contra algo
que pasa y que se parece!

¡Y qué sombras tan morenas
hay, tan duras
que su oscuro mármol frío
jamás se nos rendirá
de pasión entre los brazos!

¡Y qué trajín, ir, venir,
con el amor en volandas,
de los cuerpos a las sombras,
de lo imposible a los labios,
sin parar, sin saber nunca
si es alma de carne o sombra
de cuerpo lo que besamos,
si es algo! ¡Temblando
de dar cariño a la nada!

Pedro Salinas

da “La voz a ti debida”, Madrid, Signo, 1933

Eterna presenza – Pedro Salinas

Foto di Anka Zhuravleva

22

Non importa che non ti abbia,
né importa che non ti veda.
Prima ti abbracciavo,
prima ti guardavo,
ti cercavo tutta,
ti volevo intera.
Oggi più non chiedo
agli occhi e alle mani
le ultime prove.
Di stare al mio fianco
ti chiedevo prima;
sì, accanto a me, sì,
sì, però lì fuori.
A me già bastava
sentir le tue mani
darmi le tue mani,
sentire che ai miei occhi
tu davi presenza.
Ma adesso ti chiedo
di più, ben di più
di un bacio o uno sguardo:
di starmi più addosso
di me stesso, dentro.
Come il vento sta
donando, invisibile,
la vita alla vela.
Come sta la luce,
ferma, fissa, immobile,
facendo da centro
che non mai vacilla
al tremulo corpo
della fiamma inquieta.
Come sta la stella,
presente e sicura,
senza voce o tatto,
sul petto disteso,
sereno, del lago.
Quello che ti chiedo
è di essere l’anima
dell’anima mia,
sangue del mio sangue
dentro le mie vene.
È che tu stia dentro
di me come il cuore
mio, che io mai
vedrò, toccherò,
ma il cui palpitare
non sarà mai stanco
di darmi la vita
finché morirò.
E come lo scheletro,
segreto profondo
di me, che soltanto
mi vedrà la terra,
intanto però,
è lui che nel mondo
sostiene il mio peso
di carne e di sogno,
di gioia e di pena
misteriosamente
senza che degli occhi
lo vedano mai.
Quel che ti chiedo
è che la corporea
passeggera assenza
per noi non sia fuga,
mancanza, oblio:
ma che per me sia
possesso totale
dell’anima lontana
eterna presenza.

Pedro Salinas

(Traduzione di Valerio Nardoni)

da “Il corpo, favoloso. Lungo lamento”, Passigli Poesia, 2015

∗∗∗

Eterna presencia 

No importa que no te tenga,
no importa que no te vea.
Antes te abrazaba,
antes te miraba,
te buscaba toda,
te quería entera.
Hoy ya no les pido,
ni a manos ni a ojos,
las últimas pruebas.
Estar a mi lado
te pedía antes;
sí, junto a mí, sí,
sí, pero allí fuera.
Y me contentaba
sentir que tus manos
me daban tus manos,
sentir que a mis ojos
les dabas presencia.
Lo que ahora te pido
es más, mucho más,
que beso o mirada:
es que estés más cerca
de mí mismo, dentro.
Como el viento está
invisible, dando
su vida a la vela.
Como está la luz
quieta, fija, inmóvil,
sirviendo de centro
que nunca vacila
al trémulo cuerpo
de llama que tiembla.
Como está la estrella,
presente y segura,
sin voz y sin tacto,
en el pecho abierto,
sereno, del lago.
Lo que yo te pido
es sólo que seas
alma de mi ánima,
sangre de mi sangre
dentro de las venas.
Es que estés en mí
como el corazón
mío que jamás
veré, tocaré,
y cuyos latidos
no se cansan nunca
de darme mi vida
hasta que me muera.
Como el esqueleto,
el secreto hondo
de mi ser, que sólo
me verá la tierra,
pero que en el mundo
es el que se encarga
de llevar mi peso
de carne y de sueño,
de gozo y de pena
misteriosamente
sin que haya unos ojos
que jamás le vean.
Lo que yo te pido
es que la corpórea
pasajera ausencia
no nos sea olvido,
ni fuga, ni falta:
sino que me sea
posesión total
del alma lejana,
eterna presencia.

Pedro Salinas

da “Poemas Sueltos” (1937 – 1939), in “Largo lamento”, Alianza Editorial, 1989

Addio con variazioni – Pedro Salinas

Rodney Smith, Bernadette Twirling, 1997

18

Ma che peccato, peccato, peccato
che quel divano dov’era sdraiato
il tuo corpo serenissimo,
come una sera sopra il suo orizzonte,
fosse di quel colore azzurro unanime!
Ah, se avesse avuto
la sua tela con disegni geometrici
ad indicarci norme o un seminato
di dolci fiorellini colorati,
per calmare la smania dei giardini,
senza pianti, così le quattro e mezza
sarebbero state ben altro: tutto,
la morte di orologi e di stagioni.
E chiamando una macchina
noi saremmo saliti, tra la neve,
a cercar manichini, a farci fare
un buon amore invernale su misura.
Ma quella tela azzurra, azzurra, azzurra,
a te dette un colore d’eternità, infinita.
Ed io mi figurai che su quel fondo
mai ti saresti mossa da te stessa.

Che peccato
che tu non fossi uscita dalla stanza
— dove, incredibile, in dieci minuti,
si trasformò il carbone in un diamante
che porterai sempre all’anello —,
come ti è naturale — tu, splendore —:
sfondando il tetto come per miracolo,
dissolvendoti tutta verso l’alto;
o al contrario, gettandoti
giù da quaranta piani mascherata
da una lettera con una scrittura
minuscola e che scende così lenta
che quando arriva a terra è ormai bianchissima
ed ha lasciato in aria la sua storia
perché gli uccelli imparino a cantare!
Che errore, andare via con le tue gambe,
nel fondo corridoio, ed accettando,
la porta stretta — uso secolare:
mentre io guardavo il tuo corpo
rimpicciolire nell’allontanarsi,
senza vederlo, se non nello specchio,
rimpiccolente, con la cornice d’acqua,
attaccato sopra il camino.
Perché ti ho visto andartene così, diminuendo?
Si stringeva il tuo petto, ormai impossibile
che lì vivessero due, e lo sguardo,
diventato il tuo volto così piccolo,
restò sospeso in aria, sostenuto
da due ali di lacrime.
Al contrario della rosa,
te ne andasti chiudendoti — agonia
nel mercurio convesso —, esaurendo
la tua splendida vita ad ogni passo,
per le stesse ragioni della sera
quando la luce dilegua, in gennaio,
che eran le cinque e un quarto
e in un altro emisfero ti aspettavano.
Anch’io ti aspetto. Si resuscita
sempre dentro lo stesso specchio
dove si muore. Io passerò gli anni
andando dal mercurio ai laghi,
semmai tu ti stancassi
d’essere, giorno giorno, il tuo ricordo.

E che peccato, sì, quando ripenso
a quel ballo profondo,
a quel nono piano, sotto terra
 — il cabaret più nuovo —,
e al nostro lento valzer, così lontano dalla vita
al nostro valzer,
al rigoroso livello dei morti!
Che peccato
che ti fossi stancata di ballare con me
proprio quando stava albeggiando
negli alti lampadari, sul soffitto,
in nidi di cristallo il nuovo uccello
che stava per volare al cielo
in cerca di quegli ordini che attendi!
Ma tu eri stanca. Lo capisco.
Avevamo ballato sette giorni
quel valzer lento, molto più che lento,
capendoci solo con gli occhi
e con le maschere sempre sul viso.
Poi venne la mia voce, ad invitarti,
e inchinandomi come
un vecchio frac romantico
con dentro il suo presagio di cadavere,
ti sussurrai, alle tre del mattino:
«Posso forse invitarti a questo ballo?
Discende dalle tube degli angeli,
si balla al loro tempo, e non ne hanno.
Durerà un po’ di più dei balli
soliti con le orchestre
di solitudini o d’usignoli.
E bisogna ballarlo fino in fondo.
Rimarremo da soli
in questa grande sala color mandorla,
a girare e girare
come un mondo noi due, un mondo solo
che gira sul suo amore
secondo quella legge che scoprimmo
nei nostri sguardi una sera d’estate.
E può darsi che prima che l’angelica
musica taccia nei clarini
che percorrono i cieli sulle piume,
qualcuno, nel vederci ancora uniti,
ci salvi e ci dica, collocandoci
fra le immortalità e i cipressi:
‘Ballavan bene, senza mai staccarsi,
e sempre stretti giunsero fin qui’.
(Ultimo qui dell’uomo: il suo scheletro)».
Non accettasti; stanca. Ed io ti porsi il braccio.
Pur trovandoci così in basso,
scendemmo scale,
che non ricordavamo aver salito,
perché eran fatte con gradini d’aria,
di serate, di delizie; e l’amore
si rende conto a che altezza viveva
solo quando riscende, quando conta
quanti scalini era alto il piacere
con cifre di cristallo
che tiepide gli solcano le guance.
Aspettavo alla porta della notte
una carrozza di unicorni
che conducesse a casa i nostri corpi.

In braccio ti portai sull’alta torre
e per non farti male,
per lasciarci senza patire,
io tolsi le mie mani piano piano,
e con qualcosa che era più durevole
e sempre ti amerà, ti abbandonai sulla tua spiaggia,
sulle lenzuola bianche.
E quando vidi chiudersi i tuoi occhi
compresi l’imminente:
che il mare si apprestava a riprendersi il suo.
E che se anche al mondo ci saranno
sempre le stesse aurore ad ogni giorno,
non tutte tornano le luci; un corpo
non albeggerà più con il tuo sguardo.

Pedro Salinas

(Traduzione di Valerio Nardoni)

da “Il corpo, favoloso. Lungo lamento”, Passigli Poesia, 2015

***

Adiós con variaciones 

¡Qué lástima, qué lástima, qué lástima
que el diván donde estaba reclinado
tu cuerpo serenísimo,
lo mismo que una tarde en su horizonte,
fuese de aquel color azul unánime!
Ah, si hubiese tenido
su tela con dibujos geométricos,
que nos marcaran normas, o un sembrado
de leves florecillas de colores,
para calmar el ansia de jardines,
sin tener que llorar, las cuatro y media
no habrían sido lo que fueron: todo,
la muerte del reló y las estaciones.
Y llamando algún coche
hubiésemos salido, entre la nieve,
a buscar maniquíes, a encargarnos
un buen amor de invierno a la medida.
Pero la tela azul, azul, azul,
te dio un color de eternidad, infinita.
Y yo me figuré que en aquel fondo
nunca te moverías de ti misma.

¡Qué lástima
que no salieras de aquel cuarto
—donde asombrosamente, en diez minutos,
se trasmutó el carbón en un diamante
que siempre llevarás en la sortija—,
como te es natural —tú, maravilla—
rompiendo el techo por algún milagro,
y toda deshaciéndote hacia arriba;
o al revés, arrojándote
de aquel piso cuarenta,
disfrazada de carta con la letra
muy menuda, y que baja tan despacio
que cuando llega al suelo está blanquísima
y se deja su historia por los aires
para que aprendan a cantar los pájaros!
¡Qué error, irte en tus pasos,
por el corredor hondo, y aceptando,
costumbre secular, la puerta estrecha;
mientras que yo miraba
reducirse tu cuerpo al alejarse
sin verlo, reflejado en el espejo,
diminutivo, con su marco de agua,
colgado encima de la chimenea!
¿Por qué te vi marchar así, menguando?
Se estrechaba tu pecho, ya imposible
que en él vivieran dos, y la mirada
al volvérsete el rostro tan menudo,
se te quedó en el aire, sostenida
en dos alas de lágrimas.
Al revés que la rosa,
te marchaste cerrándote —agonía
en un convexo azogue—, desviviendo
tu hermosa vida a cada nuevo paso,
sin más razones que las de la tarde
cuando se va la luz, por los eneros,
que eran las cinco y cuarto
y que en otro hemisferio te esperaban.
Yo te espero también. Se resucita
siempre en el mismo espejo
donde se ha muerto. Pasaré los años
yendo de los azogues a los lagos,
por si acaso te cansas
de ser, día tras día, tu recuerdo.

¡Y qué lástima, sí, cuando yo pienso
en aquel baile hondo,
en aquel piso nueve, bajo tierra
—el cabaret más nuevo—,
y en nuestro vals, tan lejos de la vida,
en nuestro lento vals,
al nivel riguroso de los muertos!
¡Qué lástima
que te cansaras de bailar conmigo
precisamente cuando alboreaba
en las altas arañas, junto al techo,
en nidos de cristal el ave nueva
que iba a volar al cielo
en busca de las órdenes que aguardas!
Pero estabas cansada. Lo comprendo.
Habíamos bailado siete días
aquel vals lento, mucho más que lento,
entendiéndonos sólo por los ojos,
y con los antifaces siempre puestos.
Por fin llegó mi voz, para invitarte,
e inclinándome al modo
de un viejo frac romántico,
con su presagio de cadáver dentro,
te susurré, a las tres de la mañana:
«¿Podríamos bailar quizá este baile?
Baja desde las tubas de los ángeles,
por su tiempo se cuenta, y no lo tienen.
Durará un poco más de lo que sueles
bailar con las orquestas
de soledades o de ruiseñores.
Hay que bailarlo todo.
Nos quedaremos solos,
en este gran salón color de almendra,
dando vueltas y vueltas
como un mundo los dos, un mundo solo
sobre su amor girando
conforme aquella ley que descubrimos
una tarde de estío en dos miradas.
Y es muy posible que antes que la música
angelical se calle en los clarines
que recorren los cielos sobre plumas,
alguien, al ver que no nos separamos,
nos salve y diga, colocándonos
entre inmortalidades o cipreses:
“Bailaban bien, no se soltaron nunca,
y estrechados llegaron hasta aquí.”
(Último aquí del hombre: su esqueleto.)»
No aceptaste; cansada. Te di el brazo.
Y aunque tan hondo estábamos,
bajamos escaleras,
que no se recordaba haber subido,
porque sus escalones eran de aire,
de tardes, de delicias; y el amor
sólo sabe la altura a que vivía
cuando la ha de bajar, y cuando cuenta
cada peldaño que llevaba al gozo
con cifras de cristal
que tibiamente caen por las mejillas.
Esperaba en la puerta de la noche
el coche de unicornios
a llevar nuestros cuerpos a tu casa.
Te subí en brazos, a la torre alta
y por no hacerte daño,
para dejarte sin que nos doliera,
muy poco a poco me quité las manos,
y con algo que dura más que ellas
y siempre te querrá, te eché en tu playa,
en las sábanas blancas.
Y al ver cómo tus ojos se cerraban
comprendí lo inminente:
que el mar iba a volver por lo que es suyo.
Y que aunque las auroras de este mundo
sigan acaso siendo tan diarias,
hay luces que no vuelven; que un cuerpo
no amanecerá nunca tu mirada.

Pedro Salinas

da “Largo lamento”, Alianza Editorial, 1989