Canto general de Chile (Fragmentos) – Pablo Neruda

 

Inno e ritorno

Patria, mia patria, a te volgo il mio sangue.
Ma t’invoco, come fa con la madre il bambino
pieno di pianto.
Accogli questa chitarra cieca
e questa fronte perduta.

Andai a cercarti figli per la terra,
andai a sollevare i caduti col tuo nome di neve,
andai a fare una casa col tuo legno puro,
andai a portare la tua stella a eroi feriti.

E ora voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di penetranti corde
la tua notte di nave, la tua altezza di stella.

Patria mia: voglio mutare d’ombra.
Patria mia: voglio cambiare di rosa.
Voglio mettere il mio braccio sulla tua esile cintura
e sedermi sulle pietre calcinate dal mare
per fermare il grano e guardarlo dentro.

Vado a scegliere la magra flora del nitrato,
vado a filare lo stame glaciale della campana,
e guardando la tua nobile e solitaria schiuma,
tesserò un ramo marino alla tua bellezza.

Patria, mia patria
tutta circondata d’acqua in lotta
e neve combattuta,
in te si unisce l’aquila allo zolfo,
e nella tua mano antartica d’ermellino e di zaffiro
una goccia di pura luce umana
brilla bruciando il cielo nemico.

Salva la tua luce, o patria, mantieni
la tua dura spiga di speranza
in mezzo alla cieca aria temibile.

Nella tua remota terra è caduta
tutta questa difficile luce,
questo destino degli uomini,
che ti fa difendere un fiore misterioso,
solo, nell’immensità dell’America addormentata.

 

Atacama

Voce insopportabile, disseminato
sale, mutata
cenere, ramo nero
alla cui estrema perla appare la luna
cieca, per i corridoi anneriti di rame.
Che sostanza, che cigno concavo
affonda nella sabbia il nudo d’agonia
e fa dura la sua luce liquida e lenta?
Che aspro raggio rompe lo smeraldo
delle sue pietre indomabili
e addensa il sale perduto?
Terra, terra
sopra il mare, sopra l’aria, sul galoppo
dell’amazzone carica di coralli,
cantina dove il grano a mucchi
dorme nel tremulo inizio della campana:
oh, madre dell’oceano, che produci
il cieco diaspro e la dorata silice!
Sulla tua pura scorza di pane, lontano dal bosco
solo le tue linee di segreto,
solo la tua fronte di sabbia,
solo le notti e i giorni dell’uomo,
ma vicino alla sete del cardo,
là dove una carta sommersa e dimenticata, una pietra
segna le profonde culle della spada e della coppa,
indica i piedi addormentati del calcio.

 

Ode invernale al fiume Mapocho

O neve labile,
tremante in pieno fior di neve,
o palpebra boreale, piccolo raggio ghiacciato,
chi fu a chiamarti fino alla grigia valle,
chi ti rotolò dal picco dell’aquila
giú fin dove le tue acque pure
toccano gli orrendi stracci della mia patria?
O fiume, perché muovi
gelida acqua segreta,
acqua che la dura alba delle pietre
tenne nella sua cattedrale inaccessibile,
fino ai piedi feriti del mio popolo?
Torna, torna alla tua cima di neve, fiume amaro,
torna alla tua cima di brina spaziosa,
affonda la tua radice d’argento nella segreta origine,
o precipita e spézzati in altro mare senza lacrime!
O fiume Mapocho, quando la notte
viene e come abbattuta nera statua
dorme sotto i tuoi ponti con un grappolo scuro
di teste colpite dal freddo e dalla fame
come da due aquile enormi, o fiume,
o aspro fiume nato dalla neve,
perché non ti sollevi come un fantasma immenso
o come nuova croce di stelle per i dimenticati?
No, la tua pungente cenere continua a correre
insieme al singhiozzo gettato all’acqua nera,
alla manica rotta che il vento indurito
fa tremare sotto le foglie di ferro;
fiume Mapocho dove porti
piume di ghiaccio per sempre ferite,
sempre stretto alla tua livida sponda
nascerà il fiore selvaggio morso dai pidocchi
e la tua lingua di freddo roderà le gote
della mia patria nuda?
                                         Oh, mai non sia,
oh, mai non sia che una goccia della tua schiuma nera
salga dal limo al fiore del fuoco
e precipiti il seme dell’uomo!

 

Voglio tornare nel Sud

Qui infermo a Veracruz, ricordo un giorno
del Sud, mia terra, un giorno d’argento
come un rapido pesce nell’acqua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, sparsi
giú dall’alto, serrati da silenzio e da radici,
sui loro troni di cuoio e di legno.
Il Sud è un cavallo lanciato a precipizio
coronato d’alberi lenti e rugiade;
quando alza il verde muso cadono le gocce,
l’ombra della sua coda bagna l’arcipelago immenso,
nel suo ventre cresce il carbone venerato.
Mai piú, dimmi, ombra, mai piú, dimmi, mano,
mai piú, dimmi, piede, porta, gamba, lotta,
agiterai tu la selva, la strada, la spiga,
la nebbia, il freddo che azzurro guidava
ogni tuo passo continuamente disperso?
Lasciami, o cielo, andare di stella in stella
un giorno calpestando luce e polvere,
gettando il mio sangue fino al nido della pioggia!
                                                                    Voglio andare
su un tronco, lungo la corrente del Toltén
odoroso, voglio uscire dalle segherie,
entrare nelle taverne con i piedi pieni d’acqua,
farmi guidare dalla luce dell’avellano elettrico,
sdraiarmi vicino allo sterco delle vacche,
morire e rivivere mordendo grano.
                                                      Portami, Oceano,
un giorno del Sud, un giorno aggrappato alle tue onde,
un giorno d’albero umido, trascina un vento
azzurro polare alla mia fredda bandiera!

 

Cavaliere sotto la pioggia

Acque come fondo, muri d’acqua,
trifoglio e avena lottata,
cordami uniti alla rete d’una notte
umida, grondante, selvaggiamente filata,
goccia che strazia ripetuta in lamento,
furia diagonale che taglia il cielo.
Galoppano i cavalli di profumo che cola,
sotto l’acqua che batte l’acqua
divisa dalla rete di rami rossi di pelo,
pietra e acqua: e il vapore segue come folle latte
l’acqua inasprita con colombe in fuga.
Non v’è giorno senza rovesci di cisterne
del clima inesorabile, del verde movimento,
e le zampe annodano veloci terra e tempo
fra bestiale odore di cavallo e pioggia.
Mantelli, finimenti, gualdrappe di pelle
serrate in cupe melagrane
sugli ardenti fianchi di zolfo
che battono e piegano la selva.
                                     Piú in là, piú in là, piú in là, piú in là,
piú in là, piú in là, piú in là, piú in làaaaaa,
i cavalieri rompono la pioggia, i cavalieri
passano sotto aspri nocciòli, la pioggia
tesse in tremuli raggi il suo grano eterno.
Ecco la luce dell’acqua, il lampo confuso
dirama sulle foglie, e dal tonfo del galoppo
salta un’acqua senz’ala, ferita a terra.
Umide redini, arco di rami,
passo di passi, pianta notturna
di stelle spezzate come ghiaccio o luna, cavallo
vorticoso coperto di frecce come freddo spettro,
pieno di nuove zampe nate nella furia,
galoppante quartiere assediato dalla paura,
e dal suo grande re dal temibile stendardo.

 

Mari del Cile

In lontane regioni
i tuoi piedi di schiuma, la tua distesa riva
bagnai con pianto d’esilio e forsennato.
Vengo oggi alla tua bocca, oggi alla tua fronte.
Non al corallo di sangue, non all’arsa stella,
a incandescenti e rovesciate acque
consegnai l’umile segreto o la parola.
Serbai la tua voce infuriata, un petalo
d’arena tutelare,
tra i mobili e i vecchi panni.
Una polvere di campane, una rosa umida.
E molte volte era proprio l’acqua
d’Arauco, l’acqua dura:
ma io conservavo la mia sommersa pietra
e, in essa, l’oscillante suono della tua ombra.
O mare del Cile, o acqua
alta e stretta come acuto falò,
impulso e tuono e unghie di zaffiro,
o terremoto di sale e di leoni!
Declivio, origine, costa
del pianeta, le tue palpebre
aprono il mezzogiorno della terra
assalendo l’azzurro delle stelle!
Il sale e il movimento si liberano da te
e diramano l’oceano alle grotte dell’uomo
finché al di là delle isole il tuo peso
rompe e sparpaglia un ramo di sostanze totali.
Mare del Nord deserto, mare che batte il rame
e anticipa il sale sulla mano
dell’abitante solitario e aspro,
tutto uccelli marini e rocce di freddo sole e sterco,
costa bruciata dal passo d’un’aurora non umana,
mar di Valparaíso, onda
di luce solitaria e notturna,
finestra dell’oceano
dove s’affaccia
la statua della mia patria
e guarda con occhi ancora ciechi,
mare del Sud, mar oceano,
mare, luna misteriosa,
lungo Imperial pauroso di roveri,
e Chiloé legato al sangue,
e da Magellano al confine,
tutto il sibilo del sale, tutta la folle luna,
e lo stellare cavallo sfrenato del ghiaccio.

Pablo Neruda

(Traduzione di Salvatore Quasimodo)

da “Pablo Neruda, Poesie”, Einaudi, Torino, 1952

∗∗∗

Canto general de Chile (Fragmentos)

 

Himno y regreso

Patria, mi patria, vuelvo hacia ti la sangre.
Pero te pido, como a la madre el niño
lleno de llanto.
Acoge esta guitarra ciega
y esta frente perdida.

Salí a encontrarte hijos por la tierra,
salí a cuidar caídos con tu nombre de nieve,
salí a hacer una casa con tu madera pura,
salí a llevar tu estrella a los héroes heridos.

Ahora quiero dormir en tu substancia.
Dame tu clara noche de penetrantes cuerdas,
tu noche de navío, tu estatura estrellada.

Patria mía: quiero mudar de sombra.
Patria mía: quiero cambiar de rosa.
Quiero poner mi brazo en tu cintura exigua
y sentarme en tus piedras por el mar calcinadas,
a detener el trigo y mirarlo por dentro.

Voy a escoger la flora delgada del nitrato,
voy a hilar el estambre glacial de la campana,
y mirando tu ilustre y solitaria espuma
un ramo litoral tejeré a tu belleza.

Patria, mi patria
toda rodeada de agua combatiente
y nieve combatida,
en ti se junta el águila al azufre,
y en tu antártica mano de armiño y de zafiro
una gota de pura luz humana
brilla encendiendo el enemigo cielo.

Guarda tu luz, oh patria!, mantén
tu dura espiga de esperanza en medio
del ciego aire temible.

En tu remota tierra ha caído toda esta luz difícil,
este destino de los hombres,
que te hace defender una flor misteriosa
sola, en la immensidad de América dormida.

 

Atacama

Voz insufrible, diseminada
sal, substituída
ceniza, ramo negro
en cuyo extremo aljófar, aparece la luna
ciega, por corredores enlutados de cobre.
Qué material, qué cisne hueco
hunde en la arena su desnudo agónico
y endurece su luz líquida y lenta?
Qué rayo duro rompe su esmeralda
entre sus piedras indomables hasta
cuajar la sal perdida?
Tierra, tierra
sobre el mar, sobre el aire, sobre el galope
de la amazona llena de corales:
bodega amontonada donde el trigo
duerme en la temblorosa raíz de la campana:
oh madre del océano!, productora
del ciego jaspe y la dorada sílice:
sobre tu pura piel de pan, lejos del bosque
nada sino tus líneas de secreto,
nada sino tu frente de arena,
nada sino las noches y los días del hombre,
pero junto a la sed del cardo, allí
donde un papel hundido y olvidado, una piedra
marca las hondas cunas de la espada y la copa,
indica los dormidos pies del calcio.

 

Oda de invierno al Río Mapocho

Oh, sí, nieve imprecisa,
oh, sí, temblando en plena flor de nieve,
párpado boreal, pequeño rayo helado
quién, quién te llamó hacia el ceniciento valle,
quién, quién te arrastró desde el pico del águila
hasta donde tus aguas puras tocan
los terribles harapos de mi patria?
Río, por qué conduces
agua fría y secreta,
agua que el alba dura de las piedras
guardó en su catedral inaccesible,
hasta los pies heridos de mi pueblo?
Vuelve, vuelve a tu copa de nieve, río amargo,
vuelve, vuelve a tu copa de espaciosas escarchas,
sumerge tu plateada raíz en tu secreto origen
o despéñate y rómpete en otro mar sin lágrimas!
Río Mapocho cuando la noche llega
y como negra estatua echada
duerme bajo tus puentes con un racimo negro
de cabezas golpeadas por el frío y el hambre
como por dos inmensas águilas, oh río,
oh duro río parido por la nieve,
por qué no te levantas como inmenso fantasma
o como nueva cruz de estrellas para los olvidados?
No, tu brusca ceniza corre ahora
junto al sollozo echado al agua negra,
junto a la manga rota que el viento endurecido
hace temblar debajo de las hojas de hierro,
Río Mapocho, adónde llevas
plumas de hielo para siempre heridas,
siempre junto a tu cárdena ribera
la flor salvaje nacerá mordida por los piojos
y tu lengua de frío raspará las mejillas
de mi patria desnuda?
                                 Oh, que no sea,
oh, que no sea, y que una gota de tu espuma negra
salte del légamo a la flor del fuego
y precipite la semilla del hombre!

 

Quiero volver al Sur

Enfermo en Veracruz, recuerdo un día
del Sur, mi tierra, un día de plata
como un rápido pez en el agua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, desde arriba
esparcidos, rodeados por silencio y raíces,
sentados en sus tronos de cueros y maderas.
El Sur es un caballo echado a pique
coronado con lentos árboles y rocío,
cuando levanta el verde hocico caen las gotas,
la sombra de su cola moja el gran archipiélago
y en su intestino crece el carbón venerado.
Nunca más, dime, sombra, nunca más, dime, mano,
nunca más, dime, pie, puerta, pierna, combate,
trastornarás la selva, el camino, la espiga,
la niebla, el frío, lo que, azul, determinaba
cada uno de tus pasos sin cesar consumidos?
Cielo, déjame un día de estrella a estrella irme
pisando luz y pólvora, destrozando mi sangre
hasta llegar al nido de la lluvia!
                                                  Quiero ir
detrás de la madera por el río
Toltén fragante, quiero salir de los aserraderos,
entrar en las cantinas con los pies empapados,
guiarme por la luz del avellano eléctrico,
tenderme junto al excremento de las vacas,
morir y revivir mordiendo trigo.
                                                 Océano, tráeme
un día del Sur, un día agarrado a tus olas,
un día de árbol mojado, trae un viento
azul polar a mi bandera fría!

 

Jinete en la lluvia

Fundamentales aguas, paredes de agua, trébol
y avena combatida,
cordelajes ya unidos a la red de una noche
húmeda, goteante, salvajemente hilada,
gota desgarradora repetida en lamento,
cólera diagonal cortando cielo.
Galopan los caballos de perfume empapado,
bajo el agua, golpeando el agua, interviniéndola
con sus ramajes rojos de pelo, piedra y agua:
y el vapor acompaña como una leche loca
el agua endurecida con fugaces palomas.
No hay día sino los cisternales
del clima duro, del verde movimiento
y las patas anudan veloz tierra y transcurso
entre bestial aroma de caballo con lluvia.
Mantas, monturas, pellones agrupados
en sombrías granadas sobre los
ardientes lomos de azufre que golpean
la selva decidiéndola.
                                  Más allá, más allá, más allá, más allá,
más allá, más allá, más allá, más alláaaaaa,
los jinetes derriban la lluvia, los jinetes
pasan bajo los avellanos amargos, la lluvia
tuerce en trémulos rayos su trigo sempiterno.
Hay luz del agua, relámpago confuso
derramado en la hoja, y del mismo sonido del galope
sale un agua sin vuelo, herida por la tierra.
Húmeda rienda, bóveda enramada,
pasos de pasos, vegetal nocturno
de estrellas rotas como hielo o luna, ciclónico caballo
cubierto por las flechas como un helado espectro,
lleno de nuevas manos nacidas en la furia,
galopante manzana rodeada por el miedo
y su gran monarquía de temible estandarte.

 

Mares de Chile

En lejanas regiones
tus pies de espuma, tu esparcida orilla
regué con llanto desterrado y loco.
Hoy a tu boca vengo, hoy a tu frente.
No al coral sanguinario, no a la quemada estrella,
ni a las incandescentes y derribadas aguas
entregué el respetuoso secreto, ni la sílaba.
Guardé tu voz enfurecida, un pétalo
de tutelar arena,
entre los muebles y los viejos trajes.
Un polvo de campanas, una mojada rosa.
Y muchas veces era el agua misma
de Arauco, el agua dura:
pero yo conservaba mi sumergida piedra
y en ella, el palpitante sonido de tu sombra.
Oh, mar de Chile, oh, agua
alta y ceñida como aguda hoguera,
presión y trueno y uñas de zafiro,
oh, terremoto de sal y leones!
Vertiente, origen, costa
del pianeta, tus párpados
abren el mediodía de la tierra
atacando el azul de las estrellas!
La sal y el movimiento se desprenden de ti
y reparten océano a las grutas del hombre
hasta que más allá de las islas tu peso
rompe y extiende un ramo de substancias totales.
Mar del desierto Norte, mar que golpea el cobre
y adelanta la sal hacia la mano
del habitante solitario y áspero,
todo alcatraz y rocas de frío sol y estiércol,
costa quemada al paso de una aurora inhumana
Mar de Valparaíso, ola
de luz sola y nocturna,
ventana del océano
en que se asoma
la estatua de mi patria
mira con ojos todavía ciegos,
mar del Sur, mar océano,
mar, luna misteriosa,
por Imperial aterrador de robles,
por Chiloé a la sangre asegurado
y desde Magallanes hasta el límite
todo el silbido de la sal, toda la luna loca,
y el estelar caballo desbocado del hielo.

Pablo Neruda

da “Canto General”, Buenos Aires, Editorial Losada, 1950 

Qui ti amo – Pablo Neruda

Pablo Neruda y Matilde Urrutia en Isla Negra

 

18. 

Qui ti amo.
Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s’inseguono.

La nebbia si scioglie in figure danzanti.
Un gabbiano d’argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte, stelle.

O la croce nera di una nave.
Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.

Qui ti amo e invano l’orizzonte ti nasconde.
Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.

La mia vita s’affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”, Passigli Poesia, 1996

∗∗∗

18. Aquí  te amo

Aquí  te amo.
En los oscuros pinos se desenreda el viento.
Fosforece la luna sobre las aguas errantes.
Andan días iguales persiguiéndose.

Se desciñe la niebla en danzantes figuras.
Una gaviota de plata se descuelga del ocaso.
A veces una vela. Altas, altas estrellas.

O la cruz negra de un barco.
Solo.
A veces amanezco, y hasta mi alma está húmeda.
Suena, resuena el mar lejano.
Éste es un puerto.
Aquí te amo.

Aquí te amo y en vano te oculta el horizonte.
Te estoy amando aún entre estas frías cosas.
A veces van mis besos en esos barcos graves,
que corren por el mar hacia donde no llegan.
Ya me veo olvidado como estas viejas anclas.
Son más tristes los muelles cuando atraca la tarde.

Se fatiga mi vida inútilmente hambrienta.
Amo lo que no tengo. Estás tú tan distante.
Mi hastío forcejea con los lentos crepúsculos.
Pero la noche llega y comienza a cantarme.
La luna hace girar su rodaja de sueño.

Me miran con tus ojos las estrellas más grandes.
Y como yo te amo, los pinos en el viento,
quieren cantar tu nombre con sus hojas de alambre.

Pablo Neruda

da “Veinte poemas de amor y una canción desesperada”, National Editorial, 1924

Ode a Federico García Lorca – Pablo Neruda

 

Se potessi piangere di paura in una casa solitaria,
se potessi cavarmi gli occhi e divorarli,
lo farei per la tua voce d’arancio in lutto
e per la tua poesia che esce come un grido.

Perché dipingono per te di azzurro gli ospedali
e crescono le scuole e i rioni del porto,
e si popolano di piume gli angeli feriti,
e i pesci nuziali si coprono di squame,
e volano verso il cielo i ricci del mare:
per te le sartorie con le nere membrane
si riempiono di cucchiai e di sangue,
e ingoiano nastri rotti, e si uccidono di baci,
e si vestono di bianco.

Quando voli vestito di pesco,
quando ridi con risa di riso preso d’uragano,
quando per cantare scuoti le arterie e i denti,
la gola e le dita,
vorrei morire tanto dolce tu sei,
morirei per i laghi rossi
dove dentro l’autunno tu vivi
con un corsiero caduto e un dio insanguinato,
vorrei morire per i cimiteri
che come fiumi grigi passano
con acqua e tombe,
di notte, fra campane annegate:
fiumi densi come dormitori
di soldati ammalati, che all’improvviso crescono
verso la morte in fiumi con numeri di marmo
e corone marcite, e oli funerari:
morirei per vederti di notte
guardare le croci sommerse che passano,
in piedi e piangendo,
perché davanti al fiume della morte piangi
come ferito, abbandonatamente,
piangi piangendo, con gli occhi pieni
di lacrime, di lacrime, di lacrime.

Se potessi di notte, perdutamente solo,
accumulare dimenticanza e ombra e fumo
su treni e vapori,
con un imbuto nero,
mordendo le ceneri
lo farei per l’albero nel quale cresci,
per i nidi d’acque dorate che riunisci,
per il rampicante che copre le tue ossa
rivelandoti il segreto della notte.

Città con odore di cipolla umida
aspettano che tu passi cantando raucamente,
e verdi rondini fanno nido nei tuoi capelli,
e silenziose navi di sperma ti perseguitano,
e poi lumache e settimane,
e alberature aggrovigliate e ciliege
girano continuamente quando affiora
la tua pallida testa con quindici occhi
e la tua bocca affondata nel sangue.

Se potessi riempire di fuliggine i palazzi comunali
e, singhiozzando, abbattere orologi,
lo farei per vedere quando alla tua casa
arriva l’estate con le labbra spaccate,
arriva gente col vestito d’agonia,
arrivano regioni di triste splendore,
arrivano aratri morti e papaveri,
arrivano becchini e cavalieri,
arrivano pianeti e carte geografiche con sangue,
arrivano palombari coperti di cenere,
arrivano maschere che trascinano fanciulle
trafitte da grandi coltelli,
arrivano radici, vene, ospedali,
sorgenti, formiche,
arriva la notte con il letto
dove muore fra i ragni un ussero solitario,
arriva una rosa di odio e spilli,
arriva una barca giallognola,
arriva un giorno di vento con un bambino,
e poi arrivo io con Oliverio, Norah,
Vicente Aleixandre, Delia,
Maruca, Malva Marina, María Luisa e Larco,
la Rubia, Rafael Ugarte,
Cotapos, Rafael Alberti,
Carlos, Bebé, Manolo Altolaguirre,
Molinari,
Rosales, Concha Méndez,
e altri che non ricordo.

Vieni perché t’incontri, giovane della salute
e della farfalla, giovane puro
come un lampo nero eternamente libero,
e conversando fra noi,
ora, quando non c’è piú nessuno fra le rocce,
diciamoci semplicemente come sei tu e come sono io:
a che cosa servono i versi se non per la rugiada?
A che cosa servono i versi se non per quella notte
quando un pugnale amaro ci scopre, per quel giorno,
per quel crepuscolo, per quell’angolo rotto
dove il colpito cuore dell’uomo si dispone a morire?

E piú di notte,
di notte ci sono molte stelle,
tutte dentro un fiume,
come un nastro presso alle finestre
delle case piene di povera gente.

Là qualcuno è morto,
forse hanno perduto il lavoro all’officina,
negli ospedali, negli ascensori
nelle miniere,
soffrono gli uomini ostinatamente feriti
e dovunque c’è proposito e pianto,
mentre le stelle corrono dentro un fiume senza fine
c’è molto pianto alle finestre,
le soglie sono corrose dal pianto,
le stanze sono bagnate dal pianto,
che arriva in forma di onda a mordere i tappeti.

Federico,
tu vedi il mondo, le strade,
l’aceto,
gli addii nelle stazioni
quando il fumo alza le sue ruote decisive
verso luoghi dove non ci sono che distacchi,
pietre, strade ferrate.

C’è molta gente che fa domande
in ogni luogo;
e il cielo è sanguinante, e l’adirato, e l’affranto,
e il miserabile, e l’albero delle unghie,
e il bandito con l’invidia sulle spalle.

Cosí è la vita, Federico,
ecco ciò che può darti l’amicizia
d’un malinconico uomo molto maschio.
Da te stesso, tu sai già molte cose,
e altre andrai imparando lentamente.

Pablo Neruda

(Traduzione di Salvatore Quasimodo)

da “Pablo Neruda, Poesie”, Einaudi, Torino, 1952

∗∗∗

Oda a Federico Garcìa Lorca

Si pudiera llorar de miedo en una casa sola,
si pudiera sacarme los ojos y comérmelos,
lo haría por tu voz de naranjo enlutado
y por tu poesía que sale dando gritos.

Porque por ti pintan de azul los hospitales
y crecen las escuelas y los barrios marítimos,
y se pueblan de plumas los ángeles heridos,
y se cubren de escamas los pescados nupciales,
y van volando al cielo los erizos:
por ti las sastrerías con sus negras membranas
se llenan de cucharas y de sangre
y tragan cintas rotas, y se matan a besos,
y se visten de blanco.

Cuando vuelas vestido de durazno,
cuando ríes con risa de arroz huracanado,
cuando para cantar sacudes las arterias y los dientes,
la garganta y los dedos,
me moriría por lo dulce que eres,
me moriría por los lagos rojos
en donde en medio del otoño vives
con un corcel caído y un dios ensangrentado,
me moriría por los cementerios
que como cenicientos ríos pasan
con agua y tumbas,
de noche, entre campanas ahogadas:
ríos espesos como dormitorios
de soldados enfermos, que de súbito crecen
hacia la muerte en ríos con números de mármol
y coronas podridas, y aceites funerales:
me moriría por verte de noche
mirar pasar las cruces anegadas,
de pie llorando,
porque ante el río de la muerte lloras
abandonadamente, heridamente,
lloras llorando, con los ojos llenos
de lágrimas, de lágrimas, de lágrimas.

Si pudiera de noche, perdidamente solo,
acumular olvido y sombra y humo
sobre ferrocarriles y vapores,
con un embudo negro,
mordiendo las cenizas,
lo haría por el árbol en que creces,
por los nidos de aguas doradas que reúnes,
y por la enredadera que te cubre los huesos
comunicándote el secreto de la noche.

Ciudades con olor a cebolla mojada
esperan que tú pases cantando roncamente,
y golondrinas verdes hacen nido en tuo pelo,
y silenciosos barcos de esperma te persiguen,
y además caracoles y semanas,
mástiles enrollados y cerezas
definitivamente circulan cuando asoman
tu pálida cabeza de quince ojos
y tu boca de sangre sumergida.

Si pudiera llenar de hollín las alcaldías
y, sollozando, derribar relojes,
sería para ver cuándo a tu casa
llega el verano con los labios rotos,
llegan muchas personas de traje agonizante,
llegan regiones de triste esplendor,
llegan arados muertos y amapolas,
llegan enterradores y jinetes,
llegan planetas y mapas con sangre,
llegan buzos cubiertos de ceniza,
llegan enmascarados arrastrando doncellas
atravesadas por grandes cuchillos,
llegan raíces, venas, hospitales,
manantiales, hormigas,
llega la noche con la cama en donde
muere entre las arañas un húsar solitario,
llega una rosa de odio y alfileres,
llega una embarcación amarillenta,
llega un día de viento con un niño,
llego yo con Oliverio, Norah
Vicente Aleixandre, Delia,
Maruca, Malva Marina, María Luisa y Larco,
la Rubia, Rafael Ugarte,
Cotapos, Rafael Alberti,
Carlos, Bebé, Manolo Altolaguirre,
Molinari,
Rosales, Concha Méndez,
y otros que se me olvidan.

Ven a que te corone, joven de la salud y
de la mariposa, joven puro
como un negro relámpago perpetuamente libre,
y conversando entre nosotros,
ahora, cuando no queda nadie entre las rocas,
hablemos sencillamente como eres tú y soy yo:
para qué sirven los versos si no es para el rocío?
Para qué sirven los versos si no es para esa noche
en que un puñal amargo nos averigua, para ese día,
para ese crepúsculo, para ese rincón roto
donde el golpeado corazón del hombre se dispone a morir?

Sobre todo de noche,
de noche hay muchas estrellas,
todas dentro de un río
como una cinta junto a las ventanas
de las casas llenas de pobres gentes.

Alguien se les ha muerto, tal vez
han perdido sus colocaciones en las oficinas,
en los hospitales, en los ascensores,
en las minas,
sufren los seres tercamente heridos
y hay propósito y llanto en todas partes:
mientras las estrellas corren dentro de un río interminable
hay mucho llanto en las ventanas,
los umbrales están gastados por el llanto,
las alcobas están mojadas por el llanto
que llega en forma de ola a morder las alfombras.

Federico,
tú ves el mundo, las calles,
el vinagre,
las despedidas en las estaciones
cuando el humo levanta sus ruedas decisivas
hacia donde no hay nada sino algunas
separaciones, piedras, vías férreas.

Hay tantas gentes haciendo preguntas
por todas partes.
Hay el ciego sangriento, y el iracundo, y el
desanimado,
y el miserable, el árbol de las uñas,
el bandolero con la envidia a cuestas.

Así es la vida, Federico, aquí tienes
las cosas que te puede ofrecer mi amistad
de melancólico varón varonil.
Ya sabes por ti mismo muchas cosas.
Y otras irás sabiendo lentamente.

Pablo Neruda

da “Residencia en la tierra, II” (1931-1935), Cruz y Raya, Madrid, 1935

Due amanti felici… – Pablo Neruda

Maria Gamundi, Amantes, 2011

XLVIII

Due amanti felici fanno un solo pane,
una sola goccia di luna nell’erba,
lascian camminando due ombre che s’uniscono,
lasciano un solo sole vuoto in un letto.

Di tutte le verità scelsero il giorno:
non s’uccisero con fili, ma con un aroma,
e non spezzarono la pace né le parole.
È la felicità una torre trasparente.

L’aria, il vino vanno coi due amanti,
gli regala la notte i suoi petali felici,
hanno diritto a tutti i garofani.

Due amanti felici non han fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l’eternità della natura.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Cento sonetti d’amore”, Passigli Poesia, 1996

∗∗∗

XLVIII

Dos amantes dichosos hacen un solo pan,
una sola gota de luna en la hierba,
dejan andando dos sombras que se reúnen,
dejan un solo sol vacío en una cama.

De todas las verdades escogieron el día:
no se ataron con hilos sino con un aroma,
y no despedazaron la paz ni las palabras.
La dicha es una torre transparente.

El aire, el vino van con los dos amantes,
la noche les regala sus pétalos dichosos,
tienen derecho a todos los claveles.

Dos amantes dichosos no tienen fin ni muerte,
nacen y mueren muchas veces mientras viven,
tienen la eternidad de la naturaleza.

Pablo Neruda

da “Cien sonetos de amor”, Buenos Aires: Losada, 1960

La notte nell’isola – Pablo Neruda

Foto di Mimmo Jodice

 

Tutta la notte ho dormito con te
vicino al mare, nell’isola.
Eri selvaggia e dolce tra il piacere e il sonno,
tra il fuoco e l’acqua.

Forse assai tardi
i nostri sogni si unirono,
nell’alto o nel profondo,
in alto come rami che muove uno stesso vento,
in basso come rosse radici che si toccano.

Forse il tuo sogno
si separò dal mio
e per il mare oscuro
mi cercava,
come prima,
quando ancora non esistevi,
quando senza scorgerti
navigai al tuo fianco
e i tuoi occhi cercavano
ciò che ora
– pane, vino, amore e collera –
ti do a mani piene,
perché tu sei la coppa
che attendeva i doni della mia vita.

Ho dormito con te
tutta la notte, mentre
l’oscura terra gira
con vivi e con morti,
e svegliandomi d’improvviso
in mezzo all’ombra
il mio braccio circondava la tua cintura.
Né la notte né il sonno
poterono separarci.

Ho dormito con te
e svegliandomi la tua bocca
uscita dal sonno
mi diede il sapore di terra,
d’acqua marina, di alghe,
del fondo della tua vita,
e ricevetti il tuo bacio
bagnato dall’aurora,
come se mi giungesse
dal mare che ci circonda.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “I versi del Capitano”, Passigli Poesia, 2002

∗∗∗

La noche en la isla

Toda la noche he dormido contigo
junto al mar, en la isla.
Salvaje y dulce eras entre el placer y el sueño,
entre el fuego y el agua.

Tal vez muy tarde
nuestros sueños se unieron
en lo alto o en el fondo,
arriba como ramas que un mismo viento mueve,
abajo como rojas raíces que se tocan.

Tal vez tu sueño
se separó del mío
y por el mar oscuro
me buscaba
como antes
cuando aún no existías,
cuando sin divisarte
navegué por tu lado,
y tus ojos buscaban
lo que ahora
— pan, vino, amor y cólera —
te doy a manos llenas
porque tú eres la copa
que esperaba los dones de mi vida.

He dormido contigo
toda la noche mientras
la oscura tierra gira
con vivos y con muertos,
y al despertar de pronto
en medio de la sombra
mi brazo rodeaba tu cintura.
Ni la noche, ni el sueño
pudieron separarnos.

He dormido contigo
y al despertar tu boca
salida de tu sueño
me dio el sabor de tierra,
de agua marina, de algas,
del fondo de tu vida,
y recibí tu beso
mojado por la aurora
como si me llegara
del mar que nos rodea.

Pablo Neruda

da “Los versos del Capitán”, Editorial “Imprenta L’Arte Tipografica”, Nápoles, 1952