Quando morrò voglio… – Pablo Neruda

Emilio Sommariva, Hands, 1935

 

LXXXIX

Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio che la luce e il frumento delle tue mani amate
passino una volta ancora su di me la loro freschezza:
sentire la soavità che cambiò il mio destino.

Voglio che tu viva mentr’io, addormentato, t’attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l’aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l’arena che calpestammo.

Voglio che ciò che amo continui a esser vivo
e te amai e cantai sopra tutte le cose,
per questo continua a fiorire, fiorita,

perché raggiunga tutto ciò che il mio amore ti ordina,
perché la mia ombra passeggi per la tua chioma,
perché così conoscano la ragione del mio canto.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Cento sonetti d’amore”, Passigli Poesia, 1996

∗∗∗

LXXXIX

Cuando yo muera quiero tus manos en mis ojos:
quiero la luz y el trigo de tus manos amadas
pasar una vez más sobre mí su frescura:
sentir la suavidad que cambió mi destino.

Quiero que vivas mientras yo, dormido, te espero,
quiero que tus oídos sigan oyedo el viento,
que huelas el aroma del mar que amamos juntos
y que sigas pisando la arena que pisamos.

Quiero que lo que amo siga vivo
y a ti te amé y canté sobre todas las cosas,
por eso sigue tú floreciendo, florida,

para que alcances todo lo que mi amor te ordena,
para que se pasee mi sombra por tu pelo,
para que así conozcan la razón de mi canto.

Pablo Neruda

da “Cien sonetos de amor”, Buenos Aires: Losada, 1960

Giochi ogni giorno – Pablo Neruda

Harold Cazneaux, “Neath the Vine”, Sydney, 1931

 

14.

Giochi ogni giorno con la luce dell’universo.
Sottile visitatrice, giungi nel fiore e nell’acqua.
Sei più di questa bianca testina che stringo
come un grappolo tra le mie mani ogni giorno.

A nessuno rassomigli da che ti amo.
Lasciami stenderti tra ghirlande gialle.
Chi scrive il tuo nome con lettere di fumo tra le stelle del sud?
Ah lascia che ti ricordi com’eri allora, quando ancora non esistevi.

Improvvisamente il vento ulula e sbatte la mia finestra chiusa.
Il cielo è una rete colma di pesci cupi.
Qui vengono a finire tutti i venti, tutti.
La pioggia si denuda.

Passano fuggendo gli uccelli.
Il vento. Il vento.
lo posso lottare solamente contro la forza degli uomini.
Il temporale solleva in turbine foglie oscure
e scioglie tutte le barche che iersera s’ancorarono al cielo.

Tu sei qui. Ah tu non fuggi.
Tu mi risponderai fino all’ultimo grido.
Raggomitolati al mio fianco come se avessi paura.
Tuttavia qualche volta corse un’ombra strana nei tuoi occhi.

Ora, anche ora, piccola, mi rechi caprifogli,
ed hai persino i seni profumati.
Mentre il vento triste galoppa uccidendo farfalle
io ti amo, e la mia gioia morde la tua bocca di susina.

Quanto ti sarà costato abituarti a me,
alla mia anima sola e selvaggia, al mio nome che tutti allontanano.
Abbiamo visto tante volte ardere l’astro baciandoci gli occhi
e sulle nostre teste ergersi i crepuscoli in ventagli giranti.

Le mie parole piovvero su di te accarezzandoti.
Ho amato da tempo il tuo corpo di madreperla soleggiata.
Ti credo persino padrona dell’universo.
Ti porterò dalle montagne fiori allegri, copihues,
nocciole oscure, e ceste silvestri di baci.
Voglio fare con te
ciò che la primavera fa con i ciliegi.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”, Passigli Poesia, 1996

∗∗∗

14. Juegas todos los días

Juegas todos los días con la luz del universo.
Sutil visitadora, llegas en la flor y en el agua.
Eres más que esta blanca cabecita que aprieto
como un racimo entre mis manos cada día.

A nadie te pareces desde que yo te amo.
Déjame tenderte entre guirnaldas amarillas.
Quién escribe tu nombre con letras de humo entre las estrellas del sur?
Ah déjame recordarte cómo eras entonces, cuando aún no existías.

De pronto el viento aúlla y golpea mi ventana cerrada.
El cielo es una red cuajada de peces sombríos.
Aquí vienen a dar todos los vientos, todos.
Se desviste la lluvia.

Pasan huyendo los pájaros.
El viento. El viento.

Yo sólo puedo luchar contra la fuerza de los hombres.
El temporal arremolina hojas oscuras
y suelta todas las barcas que anoche amarraron al cielo.

Tú estás aquí. Ah tú no huyes.
Tú me responderás hasta el último grito.
Ovíllate a mi lado como si tuvieras miedo.
Sin embargo alguna vez corrió una sombra extraña por tus ojos.

Ahora, ahora también, pequeña, me traes madreselvas,
y tienes hasta los senos perfumados.
Mientras el viento triste galopa matando mariposas
yo te amo, y mi alegría muerde tu boca de ciruela.

Cuánto te habrá dolido acostumbrarte a mí,
a mi alma sola y salvaje, a mi nombre que todos ahuyentan.
Hemos visto arder tantas veces el lucero besándonos los ojos
y sobre nuestras cabezas destorcerse los crepúsculos en abanicos girantes.

Mis palabras llovieron sobre ti acariciándote.
Amé desde hace tiempo tu cuerpo de nácar soleado.
Hasta te creo dueña del universo.

Te traeré de las montañas flores alegres, copihues,
avellanas oscuras, y cestas silvestres de besos.

Quiero hacer contigo
lo que la primavera hace con los cerezos.

Pablo Neruda

da “Veinte poemas de amor y una canción desesperada”, Editorial Nascimento, 1924

Sete di te m’incalza… – Pablo Neruda

Camille Claudel, La valse, 1891

 

Sete di te m’incalza nelle notti affamate.
Tremula mano rossa che si leva fino alla tua vita.
Ebbra di sete, pazza di sete, sete di selva riarsa.
Sete di metallo ardente, sete di radici avide.
Verso dove, nelle sere in cui i tuoi occhi non vadano
in viaggio verso i miei occhi, attendendoti allora.

Sei piena di tutte le ombre che mi spiano.
Mi segui come gli astri seguono la notte.
Mia madre mi partorì pieno di domande sottili.
Tu a tutte rispondi. Sei piena di voci.
Àncora bianca che cadi sul mare che attraversiamo.
Solco per il torbido seme del mio nome.
Esista una terra mia che non copra la tua orma.
Senza i tuoi occhi erranti, nella notte, verso dove.

Per questo sei la sete e ciò che deve saziarla.
Come poter non amarti se per questo devo amarti.
Se questo è il legame come poterlo tagliare, come.
Come, se persino le mie ossa hanno sete delle tue ossa.
Sete di te, sete di te, ghirlanda atroce e dolce.
Sete di te, che nelle notti mi morde come un cane.
Gli occhi hanno sete, perché esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete, perché esistono i tuoi baci.
L’anima è accesa di queste braccia che ti amano.
Il corpo, incendio vivo che brucerà il tuo corpo.
Di sete. Sete infinita. Sete che cerca la tua sete.
E in essa si distrugge come l’acqua nel fuoco.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Il fromboliere entusiasta”, in “Pablo Neruda, Poesie d’amore”, Newton Compton, Roma, 1975 

∗∗∗

Sed de ti me acosa… 

Sed de ti me acosa en las noches hambrientas.
Trémula mano roja que hasta tu vida se alza.
Ebria sed, loca sed, sed de selva en sequía.
Sed de metal ardiendo, sed de raíces ávidas.
Hacia dónde, en las tardes que no vayan tus ojos
en viaje hacia los ojos, esperándote entonces.

Estás llena de todas las sombras que me acechan.
Me sigues como siguen los astros a la noche.
Mi madre me dio lleno de preguntas agudas.
Tú las contestas todas.
Eres llena de voces.
Ancla blanca que cae sobre el mar que cruzamos.
Surco para la turbia semilla de mi nombre.
Que haya una tierra mía que no cubra tu huella.
Sin tus ojos viajeros, en la noche, hacia dónde.

Por eso eres la sed y lo que ha de saciarla.
Cómo poder no amarte si he de amarte por eso.
Si esa es la amarra cómo poder cortarla, cómo.
Cómo si hasta mis huesos tienen sed de tus huesos.
Sed de ti, sed de ti, guirnalda atroz y dulce.
Sed de ti que en las noches me muerde como un perro.
Los ojos tienen sed, para qué están tus ojos.
La boca tiene sed, para qué están tus besos.
El alma está encendida de estas brasas que te aman.
El cuerpo incendio vivo que ha de quemar tu cuerpo.
De sed.
Sed infinita.
Sed que busca tu sed.
Y en ella se aniquila como el agua en el fuego.

Pablo Neruda

da “El hondero entusiasta (1933)”, in “Pablo Neruda, Obra poética”, Volume 2, Cruz del Sur, 1947

Canto general de Chile (Fragmentos) – Pablo Neruda

 

Inno e ritorno

Patria, mia patria, a te volgo il mio sangue.
Ma t’invoco, come fa con la madre il bambino
pieno di pianto.
Accogli questa chitarra cieca
e questa fronte perduta.

Andai a cercarti figli per la terra,
andai a sollevare i caduti col tuo nome di neve,
andai a fare una casa col tuo legno puro,
andai a portare la tua stella a eroi feriti.

E ora voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di penetranti corde
la tua notte di nave, la tua altezza di stella.

Patria mia: voglio mutare d’ombra.
Patria mia: voglio cambiare di rosa.
Voglio mettere il mio braccio sulla tua esile cintura
e sedermi sulle pietre calcinate dal mare
per fermare il grano e guardarlo dentro.

Vado a scegliere la magra flora del nitrato,
vado a filare lo stame glaciale della campana,
e guardando la tua nobile e solitaria schiuma,
tesserò un ramo marino alla tua bellezza.

Patria, mia patria
tutta circondata d’acqua in lotta
e neve combattuta,
in te si unisce l’aquila allo zolfo,
e nella tua mano antartica d’ermellino e di zaffiro
una goccia di pura luce umana
brilla bruciando il cielo nemico.

Salva la tua luce, o patria, mantieni
la tua dura spiga di speranza
in mezzo alla cieca aria temibile.

Nella tua remota terra è caduta
tutta questa difficile luce,
questo destino degli uomini,
che ti fa difendere un fiore misterioso,
solo, nell’immensità dell’America addormentata.

 

Atacama

Voce insopportabile, disseminato
sale, mutata
cenere, ramo nero
alla cui estrema perla appare la luna
cieca, per i corridoi anneriti di rame.
Che sostanza, che cigno concavo
affonda nella sabbia il nudo d’agonia
e fa dura la sua luce liquida e lenta?
Che aspro raggio rompe lo smeraldo
delle sue pietre indomabili
e addensa il sale perduto?
Terra, terra
sopra il mare, sopra l’aria, sul galoppo
dell’amazzone carica di coralli,
cantina dove il grano a mucchi
dorme nel tremulo inizio della campana:
oh, madre dell’oceano, che produci
il cieco diaspro e la dorata silice!
Sulla tua pura scorza di pane, lontano dal bosco
solo le tue linee di segreto,
solo la tua fronte di sabbia,
solo le notti e i giorni dell’uomo,
ma vicino alla sete del cardo,
là dove una carta sommersa e dimenticata, una pietra
segna le profonde culle della spada e della coppa,
indica i piedi addormentati del calcio.

 

Ode invernale al fiume Mapocho

O neve labile,
tremante in pieno fior di neve,
o palpebra boreale, piccolo raggio ghiacciato,
chi fu a chiamarti fino alla grigia valle,
chi ti rotolò dal picco dell’aquila
giú fin dove le tue acque pure
toccano gli orrendi stracci della mia patria?
O fiume, perché muovi
gelida acqua segreta,
acqua che la dura alba delle pietre
tenne nella sua cattedrale inaccessibile,
fino ai piedi feriti del mio popolo?
Torna, torna alla tua cima di neve, fiume amaro,
torna alla tua cima di brina spaziosa,
affonda la tua radice d’argento nella segreta origine,
o precipita e spézzati in altro mare senza lacrime!
O fiume Mapocho, quando la notte
viene e come abbattuta nera statua
dorme sotto i tuoi ponti con un grappolo scuro
di teste colpite dal freddo e dalla fame
come da due aquile enormi, o fiume,
o aspro fiume nato dalla neve,
perché non ti sollevi come un fantasma immenso
o come nuova croce di stelle per i dimenticati?
No, la tua pungente cenere continua a correre
insieme al singhiozzo gettato all’acqua nera,
alla manica rotta che il vento indurito
fa tremare sotto le foglie di ferro;
fiume Mapocho dove porti
piume di ghiaccio per sempre ferite,
sempre stretto alla tua livida sponda
nascerà il fiore selvaggio morso dai pidocchi
e la tua lingua di freddo roderà le gote
della mia patria nuda?
                                         Oh, mai non sia,
oh, mai non sia che una goccia della tua schiuma nera
salga dal limo al fiore del fuoco
e precipiti il seme dell’uomo!

 

Voglio tornare nel Sud

Qui infermo a Veracruz, ricordo un giorno
del Sud, mia terra, un giorno d’argento
come un rapido pesce nell’acqua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, sparsi
giú dall’alto, serrati da silenzio e da radici,
sui loro troni di cuoio e di legno.
Il Sud è un cavallo lanciato a precipizio
coronato d’alberi lenti e rugiade;
quando alza il verde muso cadono le gocce,
l’ombra della sua coda bagna l’arcipelago immenso,
nel suo ventre cresce il carbone venerato.
Mai piú, dimmi, ombra, mai piú, dimmi, mano,
mai piú, dimmi, piede, porta, gamba, lotta,
agiterai tu la selva, la strada, la spiga,
la nebbia, il freddo che azzurro guidava
ogni tuo passo continuamente disperso?
Lasciami, o cielo, andare di stella in stella
un giorno calpestando luce e polvere,
gettando il mio sangue fino al nido della pioggia!
                                                                    Voglio andare
su un tronco, lungo la corrente del Toltén
odoroso, voglio uscire dalle segherie,
entrare nelle taverne con i piedi pieni d’acqua,
farmi guidare dalla luce dell’avellano elettrico,
sdraiarmi vicino allo sterco delle vacche,
morire e rivivere mordendo grano.
                                                      Portami, Oceano,
un giorno del Sud, un giorno aggrappato alle tue onde,
un giorno d’albero umido, trascina un vento
azzurro polare alla mia fredda bandiera!

 

Cavaliere sotto la pioggia

Acque come fondo, muri d’acqua,
trifoglio e avena lottata,
cordami uniti alla rete d’una notte
umida, grondante, selvaggiamente filata,
goccia che strazia ripetuta in lamento,
furia diagonale che taglia il cielo.
Galoppano i cavalli di profumo che cola,
sotto l’acqua che batte l’acqua
divisa dalla rete di rami rossi di pelo,
pietra e acqua: e il vapore segue come folle latte
l’acqua inasprita con colombe in fuga.
Non v’è giorno senza rovesci di cisterne
del clima inesorabile, del verde movimento,
e le zampe annodano veloci terra e tempo
fra bestiale odore di cavallo e pioggia.
Mantelli, finimenti, gualdrappe di pelle
serrate in cupe melagrane
sugli ardenti fianchi di zolfo
che battono e piegano la selva.
                                     Piú in là, piú in là, piú in là, piú in là,
piú in là, piú in là, piú in là, piú in làaaaaa,
i cavalieri rompono la pioggia, i cavalieri
passano sotto aspri nocciòli, la pioggia
tesse in tremuli raggi il suo grano eterno.
Ecco la luce dell’acqua, il lampo confuso
dirama sulle foglie, e dal tonfo del galoppo
salta un’acqua senz’ala, ferita a terra.
Umide redini, arco di rami,
passo di passi, pianta notturna
di stelle spezzate come ghiaccio o luna, cavallo
vorticoso coperto di frecce come freddo spettro,
pieno di nuove zampe nate nella furia,
galoppante quartiere assediato dalla paura,
e dal suo grande re dal temibile stendardo.

 

Mari del Cile

In lontane regioni
i tuoi piedi di schiuma, la tua distesa riva
bagnai con pianto d’esilio e forsennato.
Vengo oggi alla tua bocca, oggi alla tua fronte.
Non al corallo di sangue, non all’arsa stella,
a incandescenti e rovesciate acque
consegnai l’umile segreto o la parola.
Serbai la tua voce infuriata, un petalo
d’arena tutelare,
tra i mobili e i vecchi panni.
Una polvere di campane, una rosa umida.
E molte volte era proprio l’acqua
d’Arauco, l’acqua dura:
ma io conservavo la mia sommersa pietra
e, in essa, l’oscillante suono della tua ombra.
O mare del Cile, o acqua
alta e stretta come acuto falò,
impulso e tuono e unghie di zaffiro,
o terremoto di sale e di leoni!
Declivio, origine, costa
del pianeta, le tue palpebre
aprono il mezzogiorno della terra
assalendo l’azzurro delle stelle!
Il sale e il movimento si liberano da te
e diramano l’oceano alle grotte dell’uomo
finché al di là delle isole il tuo peso
rompe e sparpaglia un ramo di sostanze totali.
Mare del Nord deserto, mare che batte il rame
e anticipa il sale sulla mano
dell’abitante solitario e aspro,
tutto uccelli marini e rocce di freddo sole e sterco,
costa bruciata dal passo d’un’aurora non umana,
mar di Valparaíso, onda
di luce solitaria e notturna,
finestra dell’oceano
dove s’affaccia
la statua della mia patria
e guarda con occhi ancora ciechi,
mare del Sud, mar oceano,
mare, luna misteriosa,
lungo Imperial pauroso di roveri,
e Chiloé legato al sangue,
e da Magellano al confine,
tutto il sibilo del sale, tutta la folle luna,
e lo stellare cavallo sfrenato del ghiaccio.

Pablo Neruda

(Traduzione di Salvatore Quasimodo)

da “Pablo Neruda, Poesie”, Einaudi, Torino, 1952

∗∗∗

Canto general de Chile (Fragmentos)

 

Himno y regreso

Patria, mi patria, vuelvo hacia ti la sangre.
Pero te pido, como a la madre el niño
lleno de llanto.
Acoge esta guitarra ciega
y esta frente perdida.

Salí a encontrarte hijos por la tierra,
salí a cuidar caídos con tu nombre de nieve,
salí a hacer una casa con tu madera pura,
salí a llevar tu estrella a los héroes heridos.

Ahora quiero dormir en tu substancia.
Dame tu clara noche de penetrantes cuerdas,
tu noche de navío, tu estatura estrellada.

Patria mía: quiero mudar de sombra.
Patria mía: quiero cambiar de rosa.
Quiero poner mi brazo en tu cintura exigua
y sentarme en tus piedras por el mar calcinadas,
a detener el trigo y mirarlo por dentro.

Voy a escoger la flora delgada del nitrato,
voy a hilar el estambre glacial de la campana,
y mirando tu ilustre y solitaria espuma
un ramo litoral tejeré a tu belleza.

Patria, mi patria
toda rodeada de agua combatiente
y nieve combatida,
en ti se junta el águila al azufre,
y en tu antártica mano de armiño y de zafiro
una gota de pura luz humana
brilla encendiendo el enemigo cielo.

Guarda tu luz, oh patria!, mantén
tu dura espiga de esperanza en medio
del ciego aire temible.

En tu remota tierra ha caído toda esta luz difícil,
este destino de los hombres,
que te hace defender una flor misteriosa
sola, en la immensidad de América dormida.

 

Atacama

Voz insufrible, diseminada
sal, substituída
ceniza, ramo negro
en cuyo extremo aljófar, aparece la luna
ciega, por corredores enlutados de cobre.
Qué material, qué cisne hueco
hunde en la arena su desnudo agónico
y endurece su luz líquida y lenta?
Qué rayo duro rompe su esmeralda
entre sus piedras indomables hasta
cuajar la sal perdida?
Tierra, tierra
sobre el mar, sobre el aire, sobre el galope
de la amazona llena de corales:
bodega amontonada donde el trigo
duerme en la temblorosa raíz de la campana:
oh madre del océano!, productora
del ciego jaspe y la dorada sílice:
sobre tu pura piel de pan, lejos del bosque
nada sino tus líneas de secreto,
nada sino tu frente de arena,
nada sino las noches y los días del hombre,
pero junto a la sed del cardo, allí
donde un papel hundido y olvidado, una piedra
marca las hondas cunas de la espada y la copa,
indica los dormidos pies del calcio.

 

Oda de invierno al Río Mapocho

Oh, sí, nieve imprecisa,
oh, sí, temblando en plena flor de nieve,
párpado boreal, pequeño rayo helado
quién, quién te llamó hacia el ceniciento valle,
quién, quién te arrastró desde el pico del águila
hasta donde tus aguas puras tocan
los terribles harapos de mi patria?
Río, por qué conduces
agua fría y secreta,
agua que el alba dura de las piedras
guardó en su catedral inaccesible,
hasta los pies heridos de mi pueblo?
Vuelve, vuelve a tu copa de nieve, río amargo,
vuelve, vuelve a tu copa de espaciosas escarchas,
sumerge tu plateada raíz en tu secreto origen
o despéñate y rómpete en otro mar sin lágrimas!
Río Mapocho cuando la noche llega
y como negra estatua echada
duerme bajo tus puentes con un racimo negro
de cabezas golpeadas por el frío y el hambre
como por dos inmensas águilas, oh río,
oh duro río parido por la nieve,
por qué no te levantas como inmenso fantasma
o como nueva cruz de estrellas para los olvidados?
No, tu brusca ceniza corre ahora
junto al sollozo echado al agua negra,
junto a la manga rota que el viento endurecido
hace temblar debajo de las hojas de hierro,
Río Mapocho, adónde llevas
plumas de hielo para siempre heridas,
siempre junto a tu cárdena ribera
la flor salvaje nacerá mordida por los piojos
y tu lengua de frío raspará las mejillas
de mi patria desnuda?
                                 Oh, que no sea,
oh, que no sea, y que una gota de tu espuma negra
salte del légamo a la flor del fuego
y precipite la semilla del hombre!

 

Quiero volver al Sur

Enfermo en Veracruz, recuerdo un día
del Sur, mi tierra, un día de plata
como un rápido pez en el agua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, desde arriba
esparcidos, rodeados por silencio y raíces,
sentados en sus tronos de cueros y maderas.
El Sur es un caballo echado a pique
coronado con lentos árboles y rocío,
cuando levanta el verde hocico caen las gotas,
la sombra de su cola moja el gran archipiélago
y en su intestino crece el carbón venerado.
Nunca más, dime, sombra, nunca más, dime, mano,
nunca más, dime, pie, puerta, pierna, combate,
trastornarás la selva, el camino, la espiga,
la niebla, el frío, lo que, azul, determinaba
cada uno de tus pasos sin cesar consumidos?
Cielo, déjame un día de estrella a estrella irme
pisando luz y pólvora, destrozando mi sangre
hasta llegar al nido de la lluvia!
                                                  Quiero ir
detrás de la madera por el río
Toltén fragante, quiero salir de los aserraderos,
entrar en las cantinas con los pies empapados,
guiarme por la luz del avellano eléctrico,
tenderme junto al excremento de las vacas,
morir y revivir mordiendo trigo.
                                                 Océano, tráeme
un día del Sur, un día agarrado a tus olas,
un día de árbol mojado, trae un viento
azul polar a mi bandera fría!

 

Jinete en la lluvia

Fundamentales aguas, paredes de agua, trébol
y avena combatida,
cordelajes ya unidos a la red de una noche
húmeda, goteante, salvajemente hilada,
gota desgarradora repetida en lamento,
cólera diagonal cortando cielo.
Galopan los caballos de perfume empapado,
bajo el agua, golpeando el agua, interviniéndola
con sus ramajes rojos de pelo, piedra y agua:
y el vapor acompaña como una leche loca
el agua endurecida con fugaces palomas.
No hay día sino los cisternales
del clima duro, del verde movimiento
y las patas anudan veloz tierra y transcurso
entre bestial aroma de caballo con lluvia.
Mantas, monturas, pellones agrupados
en sombrías granadas sobre los
ardientes lomos de azufre que golpean
la selva decidiéndola.
                                  Más allá, más allá, más allá, más allá,
más allá, más allá, más allá, más alláaaaaa,
los jinetes derriban la lluvia, los jinetes
pasan bajo los avellanos amargos, la lluvia
tuerce en trémulos rayos su trigo sempiterno.
Hay luz del agua, relámpago confuso
derramado en la hoja, y del mismo sonido del galope
sale un agua sin vuelo, herida por la tierra.
Húmeda rienda, bóveda enramada,
pasos de pasos, vegetal nocturno
de estrellas rotas como hielo o luna, ciclónico caballo
cubierto por las flechas como un helado espectro,
lleno de nuevas manos nacidas en la furia,
galopante manzana rodeada por el miedo
y su gran monarquía de temible estandarte.

 

Mares de Chile

En lejanas regiones
tus pies de espuma, tu esparcida orilla
regué con llanto desterrado y loco.
Hoy a tu boca vengo, hoy a tu frente.
No al coral sanguinario, no a la quemada estrella,
ni a las incandescentes y derribadas aguas
entregué el respetuoso secreto, ni la sílaba.
Guardé tu voz enfurecida, un pétalo
de tutelar arena,
entre los muebles y los viejos trajes.
Un polvo de campanas, una mojada rosa.
Y muchas veces era el agua misma
de Arauco, el agua dura:
pero yo conservaba mi sumergida piedra
y en ella, el palpitante sonido de tu sombra.
Oh, mar de Chile, oh, agua
alta y ceñida como aguda hoguera,
presión y trueno y uñas de zafiro,
oh, terremoto de sal y leones!
Vertiente, origen, costa
del pianeta, tus párpados
abren el mediodía de la tierra
atacando el azul de las estrellas!
La sal y el movimiento se desprenden de ti
y reparten océano a las grutas del hombre
hasta que más allá de las islas tu peso
rompe y extiende un ramo de substancias totales.
Mar del desierto Norte, mar que golpea el cobre
y adelanta la sal hacia la mano
del habitante solitario y áspero,
todo alcatraz y rocas de frío sol y estiércol,
costa quemada al paso de una aurora inhumana
Mar de Valparaíso, ola
de luz sola y nocturna,
ventana del océano
en que se asoma
la estatua de mi patria
mira con ojos todavía ciegos,
mar del Sur, mar océano,
mar, luna misteriosa,
por Imperial aterrador de robles,
por Chiloé a la sangre asegurado
y desde Magallanes hasta el límite
todo el silbido de la sal, toda la luna loca,
y el estelar caballo desbocado del hielo.

Pablo Neruda

da “Canto General”, Buenos Aires, Editorial Losada, 1950 

Qui ti amo – Pablo Neruda

Pablo Neruda y Matilde Urrutia en Isla Negra

 

18. 

Qui ti amo.
Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s’inseguono.

La nebbia si scioglie in figure danzanti.
Un gabbiano d’argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte, stelle.

O la croce nera di una nave.
Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.

Qui ti amo e invano l’orizzonte ti nasconde.
Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.

La mia vita s’affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”, Passigli Poesia, 1996

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18. Aquí  te amo

Aquí  te amo.
En los oscuros pinos se desenreda el viento.
Fosforece la luna sobre las aguas errantes.
Andan días iguales persiguiéndose.

Se desciñe la niebla en danzantes figuras.
Una gaviota de plata se descuelga del ocaso.
A veces una vela. Altas, altas estrellas.

O la cruz negra de un barco.
Solo.
A veces amanezco, y hasta mi alma está húmeda.
Suena, resuena el mar lejano.
Éste es un puerto.
Aquí te amo.

Aquí te amo y en vano te oculta el horizonte.
Te estoy amando aún entre estas frías cosas.
A veces van mis besos en esos barcos graves,
que corren por el mar hacia donde no llegan.
Ya me veo olvidado como estas viejas anclas.
Son más tristes los muelles cuando atraca la tarde.

Se fatiga mi vida inútilmente hambrienta.
Amo lo que no tengo. Estás tú tan distante.
Mi hastío forcejea con los lentos crepúsculos.
Pero la noche llega y comienza a cantarme.
La luna hace girar su rodaja de sueño.

Me miran con tus ojos las estrellas más grandes.
Y como yo te amo, los pinos en el viento,
quieren cantar tu nombre con sus hojas de alambre.

Pablo Neruda

da “Veinte poemas de amor y una canción desesperada”, National Editorial, 1924