La veneziana – Roberto Mussapi

Foto di Ann Skuld

 

Fu oltre Murano, verso il mare aperto,
un’onda più alta nell’improvvisa tempesta,
acqua nera negli occhi, e la sua mano
sfiorò la mia, stringendo bolle,
la ricordo riaprirsi e richiudersi disperatamente
poi la sua ombra fluttuò sopra di me,
ormai lontana, ormai nell’altro regno,
e sentii l’acqua raggiungere gli occhi
da dentro, io in suo possesso
fui spinta da una corrente come un’ombra
lungo il fondale e mi fermai qui
nell’acqua quieta di questa calle
dietro la Misericordia, riposo mossa
da lievi soffi di corrente, sospiri
comunicanti dalle acque del Canal Grande
e ripercossi vibrando per tutte le acque
fino qui a queste silenziose e rinchiuse
come in una mano o una culla.
Fu a Murano, nell’isola del vetro,
ma qui ero destinata per l’ultimo viaggio,
ondeggio tra le alghe, respiro coi mitili,
vedo il cielo aprirsi nella scia delle barche,
le bolle spumeggiare come vetro in fusione
e poi rinchiudersi in un mondo di cristallo
sfrangiato da infiniti pizzi e merletti,
uccelli che si tuffano, sassi
lanciati da visitatori incantati
da queste fondamenta edificate sull’acqua,
come tante prue immobili, con i palazzi
che sorgono magicamente dalle plance
come galeoni spagnoli dalle balaustre sporgenti,
con le infinite finestre che brillano nel buio
su questo grande vascello ancorato per sempre.
Noi conosciamo il segreto del vetro,
non abbiamo paura del fondo:
conoscevo questa vegetazione marcescente,
l’intreccio acquatico di vita e putrescenza
prima della mia nascita e prima della mia morte.
A volte l’acqua sale e inonda la piazza
e io mi sento sollevare e percorro
granito scuro e marmo di Verona,
scivolo sulla pietra lucente e ridiscendo
in questa zona d’acqua ferma,
tacita e muta, ma ricordo.

Ricordo il mio segreto, la mia storia.
Più chiare, ma più ingenue,
quelle istoriate nei mosaici,
il grande Diluvio Universale e l’Arca,
Noè, gli uomini con le vesti d’oro e azzurre,
e gli animali preservati, il pavone turchese,
la colombella bianca, l’uccello nero smagliante
col petto bianchissimo, la storia dei salvati,
una storia già nota riscritta dall’artista
per il piacere di accostare le tessere,
le piccole piastrine colorate e lucenti
che messe insieme compongono una storia.
La mia è di quelle che nessuno conosce,
le storie più segrete e profonde,
scritte tra il velo e il fondale dell’acqua,
difficile da udire nella mia voce
che raramente parla e si fa udibile
(un mormorare improvviso di corrente,
un gorgo creato da una raffica di vento,
o il sottofondo dello sciacquio della banchina)
la storia che custodisco tra le alghe, nel fondo.
Non solo quella della mia vita mutata in ombra
e scivolata come un’onda fin qui da Murano,
ma anche la sua, la storia di quel braccio
che inutilmente si tuffò sott’acqua
per afferrarmi e fu portato via
col resto di se stesso e del suo corpo:
lo vidi ancora aggrapparsi a una tavola
e poi doppiai la morte e fui corrente.
So che riuscì a salvarsi, fu tratto a bordo
da pescatori che tornavano al porto
più esperti di lui ad affrontare la tempesta,
ma soprattutto su un legno più grande
che non si ruppe al primo squasso del mare
insorto all’improvviso come dall’inferno.
So quello che avvenne, di lui e altro,
perché qui, tra i pali intrisi di molluschi,
qui passa la conoscenza del mondo tra le acque,
le storie si sciolgono e diffondono
in ogni piccola onda, in ogni goccia.
Quando tornò a Venezia non era più lo stesso,
guardava il mare con odio rancoroso,
si era rotto in lui il patto con le acque
che ogni anno il Doge celebra dal Canal Grande,
quell’anello tuffato gli faceva ribrezzo,
per questo decise di partire,
di unirsi a suo padre e allo zio Matteo
diretti al regno dei Tartari in Oriente.

Li attendeva da tempo, sapeva che erano ad Acri
in missione per il Gran Khan e prima di ritornare
all’impero di Khublai Khan, signore dell’Oriente
avrebbero sostato qualche mese a Venezia
dove sua madre era morta lasciandolo solo.
Fui solo io a accompagnarlo sulla gondola.
Sognava suo padre, lo sognava di notte,
me lo diceva spesso, ma ricordava soltanto
un uomo giovane che lo teneva in braccio,
e ora, diceva, sono passati quasi vent’anni…
«So che è diventato un grande ambasciatore
e consigliere dell’imperatore più potente del mondo,
ma mia madre sta morendo senza vederlo,
è stata come una vedova, o peggio.
Non partirò mai, Maddalena, resterò a Venezia,
il mio unico viaggio sarà verso Murano
dove hanno trasferito le fabbriche di vetro
(in quel tempo le portarono via da Venezia,
a causa del pericolo continuo di incendi,
impiantarono forni circondati dal mare,
così divenne l’Isola del Vetro),
tra breve sarò maestro e ne conoscerò il segreto
custodito da pochi uomini della nostra repubblica,
quel segreto che se fosse rivelato a uno straniero
sarebbe punito con la morte.
Sai, Maddalena, questo segreto è il nostro miracolo,
i vetri della Cina son colorati e spessi,
soltanto i nostri sono trasparenti,
come le nostre case, le nostre fondamenta.»
Guardava i bicchieri, lo incantava
il loro scintillio, la luce condensata in diamante,
guardava i candelieri, le brocche,
le faceva tintinnare con un colpo dell’unghia,
senti come tintinna, diceva, la gioia
allegra dell’acqua di sorgente,
sarebbe diventato un grande maestro,
e i mercanti, i viaggiatori
quelli come suo padre e suo zio sarebbero venuti
da lui, a casa sua, a pregarlo
di vendere il suo prodotto e portarlo in Oriente,
glielo avrebbe venduto a caro prezzo,
da qui, dal cuore della sua vita, da Venezia.
L’avevo incontrato al mercato una mattina,
comperava l’ultimo merluzzo fritto rimasto,
e quando toccò a me era tutto finito.
Me lo diede, ridendo, mi disse:
«Non preoccuparti, mangerò le seppie,
mia madre le sta già cucinando»
– non era ancora malata, sembrava una ragazza –
«Perché lo fai?» gli chiesi. «Come ti chiami?»
«Per i tuoi occhi lucenti, Maddalena
lucenti come vetro di Murano, sono Marco.»
Di notte mi portava in barca sull’isola
per farmi vedere la fabbrica dal buio,
mi diceva: «Devi vederla così, immagina,
per tutto il giorno io lavoro e studio
in mezzo a forme che nascono come dall’acqua
e prendono trasparenza e lucentezza:
vedi, in questo basso edificio di mattoni e pietre
dalle pareti opache, nel buio,
si nasconde un mondo risplendente,
i segreti del vetro, della trasparenza,
dell’acqua che assume forma stabile
e dura come il diamante, e fragile,
fragile come la vita…».
Questo lo disse più avanti, quando sua madre
tremava e lo guardava dal letto con quegli occhi
umidi e vellutati che lo cercavano,
finché si chiusero con la sua immagine,
sì, l’immagine di Marco, la vidi riflessa
negli occhi della madre che si chiudevano.
Conosco il resto della storia,
i porti attraccati, le acque solcate con giunche leggere
o barche rivestite di pelle e cucite
con fili vegetali essiccati al sole,
i viaggi infiniti nel deserto,
le montagne di sale, i boschi popolati
di predoni o spiriti malvagi,
i sortilegi degli stregoni idolatri,
il Vecchio della Montagna e il finto Paradiso
dove fu prigioniero e riuscì a fuggire,
le montagne dove estraggono turchesi e lapislazzuli,
le pietre azzurre come il cielo d’Oriente.
So della corte dell’imperatore,
dei viali immensi e delle mille fontane,
delle sue vesti e della tavola d’oro
con inciso un leone e un girifalco
che consegnava ai più alti dignitari
rendendoli sacri in tutto l’impero.
Ne ebbe uno con inciso il suo nome,
fu onorato da tutte le corti dell’immenso dominio
di Khublai Khan, fu il consigliere
più amato e ascoltato del grande imperatore,
conobbe tutto il magico mondo
che si spalanca a Oriente da queste rive.
Conosco la storia istoriata, Il Milione,
simile a quelle ripetute nei mosaici e nei quadri,
ma se tu ascolti la mia voce
rara, improvvisa, più un mormorio che una voce,
(nello sciacquio dell’acqua contro la banchina,
o per un incresparsi del velo in una notte di vento),
se guardi in quest’urna ferma e muta
e intoni il tuo orecchio al mormorio,
alla mia voce che sussurra dal fondo,
conoscerai la nostra vera storia:
io che ti appaio solo in un riflesso,
piccola onda, increspatura dello specchio,
forma fluens, vita nuotante sotto il velo,
occhio della laguna, flatus vocis,
io sono il segreto del Milione
e la ragione della sua partenza,
del suo percorrere distanze infinite
perché gli era sfuggita quella di una mano
affondata nell’acqua, appena sfiorata…
Per me partì e volle andare lontano,
io sono il suo principio e la sua fine,
come lo è in ogni avventura l’amore,
lo attendo, portato da correnti lontane
fluttuando sul fondo di altri mari,
io sono Maddalena, la voce della laguna,
la causa del suo viaggio e del suo non ritorno.

Roberto Mussapi

da “La stoffa dell’ombra e delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2007

La tuffatrice – Roberto Mussapi

Edward Steichen, Katherine Rawls, 1931

 

Prima di salire c’era il buio. Lo ricordo.
L’ho visto, più presentito che visto.
In basso, laggiù, nel fondo.
Ho avuto paura, una volta. Le scalette
erano ripide, attorno il vuoto, lo conoscevo,
era dentro, tra tempia e tempia, la mia meta
oscura, il fondo, ho avuto paura.
Si sgretolava la scalinata ferma, la lenta ascesa marmorea,
tutto ridiventava inconsistente,
non come pareva, ai lati vuoti,
ma nelle due rampe che dovevo ascendere
per arrivare a dieci metri al fondo vasca.
Ho rivisto quel buio, ad Atene, nell’ascensore
che sostituiva le scale, salivo
come aspirata dal vuoto sottostante.
Non era un viaggio ma un ritorno, mi allontanavo
non so da che cosa, non fuggivo
perché qualcosa tra i glutei e il cervello
vibrava in me come dovessi ascendere
sfiorando il fondo, bruciando me stessa.
Temevo l’errore, temevo l’imperfezione
che muta l’estasi agognata in morte.
Ma io volevo penetrare l’impenetrabile,
essere come ero stata nella mia origine,
senza uno spruzzo, scivolando.
Non so che cosa cercavo, ferma col busto,
spingendo in alto, forte con le braccia,
allora, ascoltami, vedevo me stessa
che si perdeva nell’avvitamento.
Ascoltami, volevo solo spostare il tempo,
fuori di me e fuori da voi tutti.
Sognavo di ritrovarci.
Non conoscevo niente del mio viaggio,
attesa immobile, su uno sgabello.
Tutto era già avvenuto e lo attendevo.
Non il responso, il giudizio, l’evento
trasumanato in numero e astratto
da quella che ero e sono, dal mio corpo
solo, infinitamente, lontano ormai
dal vostro mondo e dalla piattaforma.
E tutto era accaduto in tre secondi.
Dall’aria allo schiaffo dell’acqua, da quel volo
sognato un tempo al fulmineo ritorno.
E tutto era già accaduto, era già stato,
dalla spinta iniziale durante la partenza
tutto già definito e fatto per sempre.
Difficile non sbagliare tra terra e acqua,
e impossibile il volo quand’anche perfetto,
scendevo a te, a voi, nel fondo,
per voi l’ascesa e il vuoto e l’angoscia della pedana,
ma non lo sapevo allora, credevo
che fosse solo il volo d’angelo,
credevo fosse solo me stessa e non qualcosa
che tu volevi e io dovevo darti
fuori di te e di me, in quell’attimo.

Roberto Mussapi

da “La piuma del Simorgh”, “Lo Specchio” Mondadori, 2016

«Il fiore di geranio che dal davanzale» – Roberto Mussapi

Donata Wenders, Zora, Paris, France, 2002

 

Il fiore di geranio che dal davanzale
entrò in lei una mattina di sole, mentre si vestiva
come i tulipani a Van Gogh, un grido
di luce nella gola e uscendo dalla soglia,
tra i disegni delle portine e gli angoli delle case
scese come piena di fuoco in metropolitana, vide
le are dischiudersi a figure lontane e le anime
salire sulla vettura, alcune serene altre
con gli occhi cupi e le mani sudate
e poi allontanarsi lungo la scia buia
portata dal silenzio delle gallerie, scrutata
dai video che salivano alla regione del cielo
e dopo schiudendo gli occhi ritornare alla luce
fedele al grido rosso di quel mattino, al ronzio
del metrò che la seguiva nel sole come il suono
del mare, la propria immagine
attraversare il cristallo della portineria di riflessi
verdacquei, il sibilo costante dei terminali
come un’energia elettrica che unisse le vene
i volti netti inquadrati nelle finestre segate
nei muri, d’alluminio chiaro. A sera
sentì l’amato penetrarla come una spada
di fuoco e pianse stringendo il suo capo
come dovesse annullarsi e sparire
rientrare nel fiore di geranio che al ritorno
dormiva. Passerà secoli di viaggio nel cunicolo
buio guardando le ombre transitorie come d’oblio
di chi le ha conosciute ed amate
proverà un brivido strano nella portineria
e guarderà l’amato all’improvviso alle spalle
chiunque sarà, quel fuoco transitorio
e perenne che un giorno fu in lei
nel fiore di geranio come nei tulipani
in Van Gogh, lei non ricorderà,
lei non saprà, lei tornerà nei cunicoli
tra i fratelli addolorati e ignari,
ma il suo cuore non cambierà più ragione
e i suoi occhi guarderanno per sempre con un altro
inconsapevole, sovrano amore.

Roberto Mussapi

da “Luce frontale”, Jaca Book, 1998