Granisce nel suo apice oro-brace – Mario Luzi

Roberto Nespola, Perugia, agosto 2020

 

Granisce nel suo apice oro-brace
lei maturità
di fruge allo zenith dell’anno;
                                                                        flagra,
azzurro e suoi barbagli,
luglio, la gremita pigna
a picco sulla voragine.
                                                                         Siamo,
coro di cicale,
                                                              presi
noi pure in quell’ardore,
ci tiene
                                           la celestiale fabbrica
impaniati nel suo miele,
racchiusi nei suoi stampi.
Forse
nemmeno lo vorremmo, eppure
ci informa di sé, di sé ci brucia
estate la consustaziata carne,
ci mette nelle arterie luce,
ne espelle opacità,
tossici –
                                          o nuda
creatura che divampi
e canti il tuo plenario assenso
a non sai che – lo sa
però il tuo canto, lo reca in sé.

Mario Luzi

da “Sotto specie umana”, Garzanti, 1999

È mite il ghirigoro (pensato in disparte) – Mario Luzi

Laurie Steen

(pensato in disparte)

È mite il ghirigoro
                                   d’aria e luce
che accompagna
                            al suolo
la resa delle foglie
sui viali lungo il fiume.
perché rompo, persona,
il muto canto?
                                         Sarebbe
senza me uniforme,
pieno, invasato della propria inopia,
festoso.
                        Così scende
la vita, scende incontrastato,
pare, il suo sfacelo
a rigenerarsi nella morte
per il dopo, per il principio.

Mario Luzi

da “Temporada I”, in “Sotto specie umana”, Garzanti, 1999

da «Monologo» – Mario Luzi

 

I

Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d’essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte…
Era, donde scendesse, un salto d’acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d’astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l’angoscia d’esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.

Con lo sgomento d’una porta
che s’apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d’eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest’ora ti edifica e ti schianta.

L’uno ancora implacato, l’altro urgeva —
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n’ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,
vita tu irreparabile, dovuta,
prima ancora che accolta già caduta
fuori di me, nel fiume indifferente.

Mario Luzi

da “Poesie sparse (1945-48)”, in “Il giusto della vita”, Garzanti, Milano, 1960

«Lasciami, non trattenermi» – Mario Luzi

Mario Giacomelli, da Carolin Branson, 1971-1983

 

Lasciami, non trattenermi
nella tua memoria
era scritto nel testamento
ed era un golfo
di beatitudine nel nulla
                     o un paradiso
di luce e vita aperta
senza croce di esistenza
che sorgeva dalle carte
ammuffite nello scrigno.
E lei non ne fu offesa,
le nascevano, né sentì prima rimorso
e poi letizia, impensate latitudini
nelle profondità del desiderio,
ecco, la trascinava
una celestiale oltremisura
fuori di quella ministoria, oh grazia.
Si scioglievano
l’uno dall’altro i due
e ogni altro compresente,
si perdevano sì,
                             però si ritrovavano
perduti nell’infinito della perdita −
era quello il sogno umano
della pura assolutezza.

Mario Luzi

da “Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime”, Garzanti, 2009

Il pescatore – Mario Luzi

Florence Henri, Vue de ma fenêtre, 1935

 

Viene gente per acqua. Gente muta
rasenta le murate delle navi alla fonda,
si riscuotono all’urto dell’attracco.

                                                               Il soffio
di prima estate vola basso, sfiora
le tende, l’erba, eccita i capelli.
È l’alba ed è anche l’ora che si tirano le reti,
ora che in un brivido d’attesa
e d’incertezza luminosa guizza
di casa in casa, crea vuoti ed immagini
che se guardi da presso si dissolvono
rapidi sopra gli alberi e oltre i ponti.

Tempo sospeso ad alcunché tra oscuro
e manifesto quando pare certo
che il vero non sia in noi, ma in un segreto
o un miracolo prossimo a svelarsi,
tempo che illude gli uomini e se desta
speranza è la speranza di un prodigio.

L’inquietudine fa remote,
strane le ombre là sulla battigia
e sulla rena umida che scruto
tra queste antenne e questi alberi nani.

Perdonami, è parte dell’umano
cercare come fo in luoghi arcani
quel ch’è prossimo a noi umile e vero
oppure in nessun luogo. Tendo il viso,
seguo con gli occhi ansiosi il pescatore
mentre viene sul frangiflutti e reca
dal mare quel che il mare lascia prendere,
pochi doni, del suo perpetuo affanno.

Mario Luzi

1954

da “Onore del vero”, Neri Pozza Editore, Venezia, 1957