In endecasillabi – Giuseppe Conte

Foto di Alexandra Kirievskaya

 

A sedici anni, lettore poiché era giusto
allora soltanto di Catullo e di Shakespeare
scrissi per una compagna di liceo
versi come «Nessuna donna mai
fu amata tanto,/ quanto tu sei…»
Dio, non sapevo niente di donne, di amore.
Quella ragazzina bruna, dalle labbra
sporgenti, gli occhi grandi come
due albicocche, ci erano usciti tutti
con lei, fuorché io, il suo cantore.
Io la guardavo, sperduto. Come avrei
voluto abbracciarla, tempestarle
il capo di quel segreto che erano i baci.
Io la guardavo a scuola, per strada,
la domenica alla messa nella Chiesa
detta dai frati. Poi tornavo a casa, aprivo
i libri, Lesbia, Rosalind, Ofelia
e lei, e i sogni su lei, in endecasillabi.

Giuseppe Conte

da “Dialogo del poeta e del messaggero”, “Il Nuovo Specchio” Mondadori, 1992

Dopo Marzo – Giuseppe Conte

Telemaco Signorini, Marina a Viareggio, 1860

 

Dimenticare città, nomi, desideri
di uomo: voglio solo fiorire, rivivere, io
non più io, ibisco, acacia,
conca aperta e tremante di un anemone.

Avere piedi e nodi d’erba, io
non più io, mani guantate
di germogli, ciglia nuove blu, di
scorza il torace, spezzato e vivo.

Ho dimenticato tutto, scrivo
perché dimenticare è un dono: non
desidero più che alberi, alberi, prode
di vento, onde che vanno e tornano, l’eterno

rinascere sterile e muto delle

cose

«Marzo è stato freddo e triste, ma
poi l’Aprile, praterie, portenti
di scarlatto lieve, ciliege, e le prime

rose» 

Giuseppe Conte

da “L’Oceano e il ragazzo”, Rizzoli, Milano, 1983 

Metamorfosi d’amore – Giuseppe Conte

Foto di Rimel Neffati

Though they sink through the sea they
shall rise again;
Though lovers be lost love shall not¹. 
                                 Dylan Thomas, And death shall have
                                                                                       no dominion

Giuseppe era il mio nome di
cristiano, ora non ho più nome: sono
api e lucertole, pietre e mimose, il
mare: lei non mi potrà riconoscere.

Lei non mi potrà più dire: amore.
Potremo volare insieme all’alveare
del sole, vicini e sconosciuti, rovinare
in frane scoscese sulle spiagge

rocciose, essere due conchiglie nel silenzio

del fondale.

Giuseppe Conte

¹ «Per quanto anneghino in mare sorgeranno ancora; / Per quanto gli amanti si perdano, l’amore resterà.» (Trad. di Roberto Sanesi.)

da “L’Oceano e il Ragazzo”, Rizzoli Editore, 1983

Parole estranee a sua moglie – Giuseppe Conte

Peter Marlow, Kingswear Castle, Devon, England, 1998

 

Saranno state le due le tre l’altra
mattina quando sono entrato nel letto e ti ho
parlato. Tu dormivi e ho premuto la
mia palpebra contro la tua calda. Volevo

dirti parole che ci sono estranee, quelle
dell’amore che eterna: era tragica
la mia resa: le regole del gioco cadute. Così dietro

le nostre palpebre non gli occhi, le orbite. Le

nostre dita di pietra i nostri fianchi fondali e
laghi i nostri piedi fluiti e ormai viticci
e nidi per le civette. Non saremo più
insieme. Non ne parleremo mai più. Futuri

venti soffieranno sulle nostre finestre dal mare
lontano noi saremo topi meduse

fiori.

Giuseppe Conte

da “L’Oceano e il ragazzo”, Rizzoli, Milano, 1983 

da «Sul Golfo del Bengala» – Giuseppe Conte

Roberto Nespola, Ostia, settembre 2016

NON SIAMO SIMILI
You, you are all unloving, loveless, you
D. H. Lawrence, The sea

Non siamo simili, mare,
né amici né fratelli,
tu ricco, profondo, infinito
tu il primo tra i sogni di Brahma
quando sognò la trama
della materia vivente
tu arido, rubescente, iniziale,
tu indifferente a tutto, ai lutti, ai naufragi
specchio del sole e della luna.
Io povero, io niente, una
creatura sottoposta alle leggi
della nascita e della mortalità,
uno di quelli che la vita ha
stremato con troppa gioia e troppo dolore.
Perché ho gioito, mare, a te lo posso dire,
anche sul Golfo del Bengala stasera.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.

Non ho conosciuto il mestiere
della colpa e della santità.
Sono come te, mare.
Mi sono sempre sentito innocente,
almeno in questo ti somiglio.
Sono stato per troppo tempo figlio
di una gioia senza nome
fatta sempre di meraviglia e amore
di alberi azzurri e di aurore.
E ho sofferto tanto per l’incolore
ansia che strangola e non sai perché
per i vortici di stravolte domande
su Dio, come posso toccarlo, dov’è?
Ero un bambino voluto, curato, amato,
nella casa di via Carducci 3
quando avevo paura di te, mare,
e vedevo la sera che veniva
mentre tornavo dal campo di gioco
e si accendevano le luci alle finestre
e le stelle sui tetti a poco a poco:
perché c’era la sera? c’era il cielo?
E tutto si nascondeva dentro il velo
di un senso che non capivo.
Per questo ancora adesso sono qui e scrivo.
Ma ora, mare, io mi fido
di te. Sono solo di fronte a te
e so che dai vita e distruzione
so che sei necessario, sei vero
e sei maya, illusione.
La vita mi ha punito.
Ha fatto di me uno zero.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, e mi perdo.

Sono solo più di tutti, mare, persino di te.
Tu sei arido, celibe, rude
ma sei ricco, profondo, infinito
io un fragile figlio di donna
una medusa spiaggiata, un ramo sfiorito.
Nessun potere, nessuna ricchezza
una meta ignota e cercata invano
come qualcuno che con la mano
volesse raccoglierti, mare,
e portarti con sé lontano.
Ininterrotte adolescenze amare.
Nessuna certezza, nessun colpo d’ala.
Solo, qui, sul Golfo del Bengala
a parlare con te come fanno i dementi
con te, mare, vincitore brutale
con te che schiumi ingravidato dai venti
e che non ami e non ricevi amore.
Io fragile figlio di donna,
perdente nato, sballottato, rifiuto.
Eppure ancora sempre innamorato.

TU MARE NON AMI
You are celibate and single, scorning a comrade even
D.H. Lawrence, The sea

Tu mare non ami nessuno
e io invece amo, amo lei,
lei, sempre lei, ne sono sicuro,
amare è la mia essenza
amare la mia ossessione
è questa la differenza
più inconciliabile tra noi.
Perché tu vai bene al di là
dell’amore com’è tra gli umani
tu te ne lavi le mani
sei calmo quando sei calmo
mosso quando sei mosso
solitario, sterile, puro
bastevole a te stesso.
Io cosa vuoi che sia
un povero essere umano
uno che vive scisso, di solitudine,
giorno per giorno come un’abitudine.
Eppure io amo, mare, amo lei
ne ho bisogno, ne sono sicuro,
amare è la mia essenza
e se tu non ci credi
mi dispiace per te.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.

Chi sei, essere oscuro, indifferente
alla grazia, all’amore, al perdono
chi sono queste donne che vanno e vengono
con vesti di luce, chi sono?

Parliamone qui stasera
in questo dicembre tropicale
dammi una risposta sincera
dimmi se faccio male:
io amo, al contrario di te,
io sono eternamente innamorato.
Per noi esseri umani
limitati per definizione
privi di coralli e correnti
privi di riflessi e di venti
per noi c’è questo abisso
più profondo dei tuoi, mare.
Il baratro, il precipizio
senza fondo dov’è l’io,
dov’è Dio, il sesso.
Questo cieco bisogno di amare,
di amare senza sapere
perché né chi, ma sempre
amare, anche adesso.

MARE NON HAI CHIESE
Antes que el sueño (o el terror) tejiera
Mitologías y cosmogonías,
Antes que el tiempo se acuñara en días,
El mar, el siempre mar, ya estaba y era.
J.L. Borges, El mar

Tu mare non hai chiese
non hai sacerdoti, sacramenti,
non hai preghiere, monumenti
né riti né elemosine,
e non hai mai avuto pietà.
Eppure sei sacro, divino.
Ti somigliano certe cattedrali al mattino
in Liguria, tutte riflessi azzurri
mobili per i soffi dei tuoi venti
ti somigliano le moschee
con i loro minareti e i lamenti
ondeggianti dei muezzin,
ti assomiglia Jama Masjid
dal cortile sconfinato, assolato
colore di un tappeto di alghe
e di porpora
che milioni di piedi hanno calpestato
ti assomigliano i templi dei sikh
come quello di Guru Sahib
dalle cupole d’oro, dai porticati bianchi.
Ma più di tutti ti assomigliano
i gopuram dei templi indù
con la loro rincorsa trapezoidale
verso l’alto del cielo, lo zenit,
simile alla tua rincorsa quando un temporale
un vento di libeccio o di levante
ti scuote in mille onde
che si alzano frementi.
E ti ricorda che la tua culla
fu lo spazio infinito
e ti protendi verso il nulla
che noi uomini non possiamo
reggere, mare, e non lo puoi
neppure tu
tanto che dobbiamo pregare,
insieme scalare il cielo,
credere nelle ombre
di Shiva e di Visnu.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.

Chi sei, essere oscuro, indifferente
alla grazia, all’amore, al perdono?
Chi sono queste donne che vanno e vengono
con vesti di luce, chi sono?

Giuseppe Conte

Pondichery, New Delhi, dicembre 2011

da “Inediti”, in Giuseppe Conte, Poesie (1983-2015)”, Mondadori, 2015

Le tre poesie qui riportate (Non siamo simili, Tu mare non ami, Mare non hai chiese) fanno parte di una suite più lunga scritta fra New Delhi e Pondichery dove ero invitato per tenere conferenze e letture dall’Institut Français nel dicembre del 2011. (Giuseppe Conte)