Risveglio – Pierluigi Cappello

Paul Klee, Landscape with Yellow Birds, 1923

 

Ci si risveglia un giorno e le cose sembrano le stesse
mentre invece dietro a noi si è aperto un vuoto
dopo che tutto è stato fatto per trattenere la vita
in mezzo ad un panorama di pietre sparse e tegole rotte.
Allora uno mette il dentifricio sullo spazzolino
mescola lo zucchero al caffè
con l’attenzione che aveva da scolaro
quando ritagliava dalla carta
file di bambini che si tengono per mano,
piccoli pesci che baciano l’aria.

Pierluigi Cappello

da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010

La strada della sete – Pierluigi Cappello

Foto di Danilo De Marco

 

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso.
Dante, Inferno, XXVI, 142

Sarà stato domani o l’altro ieri: mi sono sentito vecchissimo.
Stavo seduto su di una sedia impagliata, vicino alla finestra,
stava con me la desolazione della stanza vuota con nessuno.
Non parlavo da secoli. Ed erano cresciute erbe selvagge
intorno alla mia voce, oltre la finestra.
La barba aveva messo radici al suolo, il viso era il suo frutto vizzo
e la luce faticava a spartirsi fra le erbe,
toccava le mie ciglia come l’ultimo respiro di Dio.
Quel giorno mi sono sentito talmente vecchio
da dubitare che un insignificante capriccio dell’aria
facesse delle mie dita gessose una polvere soffiata,
i resti di un’antica pergamena imperiale.
Voi, che avete camminato con me, né i vostri passi
né le vostre voci lasciano piú impronte, se non nella forma
di un vasto, risonante silenzio, nel ricordare. Allora
se c’è un tempo, questo è il tempo di raggiungervi, ho pensato,
mentre un ragno cuciva un nido nel mio orecchio.
Avevo smesso di desiderare
da prima che mi accorgessi che ogni desiderio si era spento
e c’era tanto spazio dentro di me, cosí mi sono lasciato cadere
e la fiducia mi è venuta dietro.
Ritrovarsi con il proprio corpo giovane, è cosí che mi è successo
mi sono guardato il petto ed era un petto glabro
mi sono guardato le mani e le dita non erano piú
deviate dagli anni, tormentate come rami incendiati,
ma schiette e dritte, fresche come un torrente montano.
Mi sono guardato i piedi e posavano, forti, su una pietraia.
È a quel punto che mi è parso di essere
nella metà iniziale di una galleria,
la galleria era breve, di là si scorgeva una scarpata
inondata di luce e un verdeggiare in movimento
cosí intenso, nella luce, che le foglie sembravano separarsi
l’una dall’altra, esplodere sinfoniche, lo stormo e il volo.
Da lí, da quel tremare, alte su di me, sono venute a fermare i miei passi
due figure. La prima figura era mio padre
cosí come lo ricordavo, un uomo di mezza età
raccolto, gli zigomi alti, la bocca larga
pronta alla vita, il collo di un cavallo da tiro.
Era lui ma non era lui mentre mi stava davanti
teneva negli occhi una luce senza passione, una forza
trattenuta, la fibra di un arco pronta a scattare
da prima della storia, quando si uccideva con le proprie mani
per un pascolo, una capra, un albero di ulivo.
La seconda figura era quella di un serpente
e mi investí di calore la luce che lo precedeva
e mi sentivo nudo e consegnato in quel precedere che illumina
dalle caviglie al sesso dal sesso al petto dal petto alla radice di me
spogliato anche della mia nudità. Quando mio padre
cominciò a parlare, l’aria sembrò chiamarsi alle sue labbra:
“Il tuo morire non si è ancora compiuto, morirai qui, adesso,
una seconda volta, e tanto ti sarà dato quanto tu hai inflitto in vita.
Ora scegli, me o il serpente?”.
La sua voce si depose intorno a me. Scelsi il serpente,
e la luce che mi aveva investito prese la sua forma,
il dolore fu staccarsi dal dolore.

Eccovi, ecco il fiorire, la memoria si schiuse ai loro volti
come un uovo, i miei occhi si aprirono in tenerezza mentre
li mettevo a fuoco, Bortolo si fece avanti per primo,
aveva la grazia del vento fra i salici, la prontezza
del ragazzo infallibile con la fionda che era stato,
poi vidi mio padre dodicenne, sorridente allungava il polso
per mostrarmi l’orologio nuovo, suo padre era poco dietro di lui,
compiaciuto, alto come una fortezza, i baffi alla umbertina,
le spalle larghe come le strade d’America e poi c’era Giordano,
il misuratore, l’uomo dal quale ti saresti aspettato
disegni sulla sabbia tracciati con una verga sottile di frassino,
Roberto stava piú lontano, si teneva vicino a Gina, la mansueta,
la dissipata, con l’incertezza della lepre, lo splendore degli occhi di Alda
profetici e ciechi. La voce acuta di Rino, lo stalliere,
mi colpí in faccia come una manciata di chiodi, Cesare
mi abbracciò con quelle sue braccia solide, da muratore
e le mani dalle dita spesse, abrasive, la scena chiusa negli occhi
dell’avvocato dal profilo di falco, dai gesti ineffabili
parenti delle nuvole, e a poco a poco, quando ognuno si fu
avvicinato – chi per toccarmi, chi per stringermi, chi semplicemente
per mettere il suo sguardo nel mio e allargare un cerchio di silenzio –
la mia sorpresa si sciolse in calma e la calma in abbandono
e tutti erano in una sola felicità nel vedermi, felicemente vuoti.
“Non so se volevi venire ma io ti ho portato dentro un ricordo”
mi disse Lia, con il candore dei suoi cinque anni.
Le sue parole non si erano spente quando sparí, come sparisce
la luce del lampo, e con lei scomparvero tutti, nessun volto
rimase a guardarmi e come quando la forza dell’acqua rifluisce
lasciandosi dietro soltanto detriti e spezzoni, a me venne lasciata
una solitudine nuda come un sasso, che mi riempiva gli occhi.

Concentrai la mia desolazione nel primo urlo,
dopo che mi ero lasciato cadere sulle ginocchia, il secondo urlo
tagliò l’aria con la forza del ferro che apre una pancia,
poi urlai finché potei, e ogni volta l’eco che tornava a me
misurava l’intensità della mia separazione, urlai finché
l’eco non tornò piú e l’urlo non fu altro che un soffio, il gorgogliare
di un animale colpito, la gola attraversata da un pasto di lame.
Quando puntai sulle palme per alzarmi, il costato
scricchiolò come un canestro e l’impassibilità sovrana
di chi non ha piú niente dietro di sé scese su di me:
con meditata lentezza, mi guardai attorno, per capire
dove mi trovavo. Una profonda bassura, circolare,
chiusa ai margini da una scarpata di massi e pietrisco rossastri
era il luogo che aveva trattenuto le mie urla, un posto che sembrava
bruciato dall’interno dove pietre, polvere, colore
erano una cosa sola con il caldo che mi premeva le tempie,
che riempiva i polmoni, che faceva di me un organismo
indifferente, obbediente al suo funzionamento primordiale: sangue,
circolazione, respiro. Presi una direzione qualsiasi, deciso
a salire un punto qualsiasi della scarpata, lo feci conquistandone
le asperità metro per metro, sdrucciolando, sbucciandomi le ginocchia,
ricadendo e risalendo, con l’ostinazione di un insetto dentro un bicchiere
e quando superai l’orlo, mi apparve la vastità di un deserto,
raccolto nel suo silenzio; il suolo era di un giallo quasi bianco,
salino, segnato da una ragnatela di crepe che accompagnavano
il mio sguardo verso l’orizzonte: era come se lembo dopo lembo
si fosse lacerato da sé, per fare posto all’acqua che non c’era.
Il riverbero del sole allo zenit era accecante, bruciava le congiuntive.
Strinsi le palpebre per vedere meglio dove il cielo si separava dalla terra
ma la linea d’orizzonte era piú intuita che reale, piú un passaggio
lento, sfumato dal quasi bianco del suolo al bianco del cielo,
opaco per il calore. Ecco che cos’è essenziale, una linea
che non c’è ma c’è, di una semplicità che non ammette errori
il segno sul quale piegarsi per decifrare. L’enorme libertà
delle direzioni fece muovere i miei passi, m’inoltrai nella sete
con lo sguardo basso, un piede dopo l’altro, e mentre camminavo
commisuravo la mia biologia alla durezza del luogo.
Camminai e camminai, qualche volta mi fermavo
per scrutare il cielo, ma il sole era inchiodato al suo zenit,
ebbi l’impressione di camminare per sempre, per sempre
misurandomi, fermandomi, scrutando, finché, le fauci
in fiamme, gli occhi bruciati, i gesti sempre piú slegati
l’uno dall’altro, la mia volontà perse la presa e caddi
e lasciai che il calore del suolo mi scottasse
il petto e la guancia, sentii il sudore raccogliere la polvere.

A faccia in giú, gli occhi chiusi, premetti i polpastrelli al suolo
e il suolo non era piú polvere e calore ma qualcosa di solido e fresco
e quella freschezza passò per la guancia e il petto
si versò tutta nel mio corpo, allora aprii gli occhi, sollevai la testa,
piano, come l’erba dopo che è stata calpestata, mi accorsi di giacere
su di un lastricato: a due passi, ancora fuori fuoco, c’era l’ombra
di una pergola e, piú in là, una fontana; mi trascinai verso l’ombra
sotto il pergolato, mi voltai e mi abbandonai a quel benessere
come quando ci si lascia galleggiare, sostenuti dalla confidenza
dell’acqua. Non so quanto rimasi lí, nell’abbandono. Rialzarmi
fu qualcosa di liquido, armonico, andai verso la fontana e bevvi
o mi parve di bere, il grigio delle pietre e il verde intenso della pergola
passarono per la mia pelle, chinai la testa sotto la fontana
come per un battesimo, l’acqua si infilò nel nero dei capelli
ne sentii le dita fresche passare fra le scapole, correre il mio corpo
riempire il campo arso che ero stato. Come se io fossi
un’infanzia: lei mi apparve cosí, e sembrava lí, da sempre.
Con la presa che hanno in noi i nostri gesti piú consueti
impossibili da descrivere e da separare da noi stessi.
Posso dire dei suoi capelli, che avevano la consistenza della luce
e sottili e lunghi erano un corpo solo con l’aria o della linea
delle braccia che le accompagnava i fianchi con la dolcezza
di un soffio su uno specchio d’acqua, o del turchese
innaturale dello sguardo, un turchese che soltanto i bambini
possono immaginare uguale, se non hanno mai visto il mare;
ma la sorpresa che mi schiuse alla commozione come un frutto
quando mi accorsi della sua ombra, è difficile da dire:
era una sorpresa che non era una sorpresa, era l’evidenza
delle cose ovvie quando all’improvviso si aprono
e ti aggrediscono e afferrano il tuo sguardo, lo riportano
alla prima nudità. “Hai un’ombra, il tuo corpo sembra avere peso,
sei viva in questa terra di morti, da dove vieni e chi ti ha portata
qui?”, le domandai, arreso. E, alla domanda, l’indulgenza
e la compassione segnarono il suo volto di un sorriso che mi avvolse.
“Vengo da una distanza che non puoi commensurare.
L’esponente si accartoccerebbe sotto il peso del numero
espresso e poiché la tua mente è piccola e la distanza è grande
non pensarla mai, dovresti farti cosí vasto da scomparire
se la pensassi”. Il cielo era sotto di noi quando me lo disse.

“Egli si sentí svanire”.

Pierluigi Cappello

da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010

Anello – Pierluigi Cappello

 

Quando la passione dura, tutto un mondo scompare
e la tua mano non è piú la tua mano
e la mia mano non è piú nella tua.

Quando sto con il mio silenzio nel tuo
il mio silenzio splende di giovinezza
e un mondo – che era nascosto – riappare.

Pierluigi Cappello

da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010 

Il me Donzel – Pierluigi Cappello

Foto di Danilo De Marco

O me donzel! Jo i nas ta l’odòur che la ploja a suspira tai pras di erba viva… i nas tal spieli da la roja.
P. P. Pasolini
I

Di insom tant che lusôr
o tant che ’ne montane
la gnot, la nere, e frue
chel pôc di cîl ch’al trame.

E rue par rue dal cîl
denant, daûr dal dì
ta fueis di chest aiâr
e poe la man felpade.

Dî sì, tu sês l’agâr,
la roe ch’e sgote in nuie
chel ch’o vin dit o fat

bessôi, cence savê
se dî di sei par pierdisi
o pierdisi par sei.

Dall’alto come lucore o quanto un fiume in piena la notte, la nera, consuma quel poco di cielo che trema. E piega per piega dal cielo, davanti, dietro il giorno, nelle foglie di questo acero posa la sua mano felpata. Dire sí, tu sei l’acquaio, la roggia che sgocciola nel nulla quel che abbiamo detto o fatto da soli, senza sapere se dire di essere per perdersi o perdersi per essere.
II 

Sium, sium dentri inte sium
lûs di ce che nol è
e vôs di chel ch’al jere
neri butul de gnot

ch’al impromet sflandôr
tiere fate di niule
niule fate ladrîs
man çampe inte man drete

sium cjapimi me sium
cjampanule di scûr
flamule benedete

declinazion di poete
ch’al impromet amôr
e ôr dal ôr e gnot.

Sogno, sogno dentro il sonno, luce di ciò che non c’è e voce di quello che c’era, nero bocciolo della notte che promette splendore, terra fatta di nuvola, nuvola fatta radice, mano sinistra dentro la destra, sogno, prendimi pure, sogno, campanula di buio, fiammella benedetta, declinazione di poeta che promette amore e orlo d’orlo e notte.
III

Donzel, la gnot plui biele
e je chê ch’e mi tâs
dentri, minude come
un centesim di pâs

te sachete dal cûr
dulà che il cuart di lune
intal cidin dal cîl
al lûs come un rincjin

e la maràngule e rît
che, frut, faseve pôre
e al tâs il crît dal dì

e nô no si è plui nô
e il dolç mancjâsi dentri
nol è ancjemò durmî.

Donzel, la notte piú bella è quella che mi tace dentro, minuta come un centesimo di pace dentro la tasca del cuore, dove il quarto di luna nel silenzio del cielo brilla come un orecchino e il gattomammone sorride, che da bambino faceva paura, e tace l’urlío del giorno e noi non si è piú noi e il dolce cadersi dentro non è dormire ancora.
IV

Achì soi jo, par dentri
une gnot che no je
e cidin tal cidin
florît di piere e gno.

Achì soi jo, a scurîmi
cul scurîsi de gnot
frescje e scuride ator
ator come di scune.

Achì soi jo, ch’o strenç
lis mans tor dai zenôi
i zenôi dongje il cûr

dentri il cercli dai vôi
il cercli da la lune
fin a vignî bambin.

Io sono qui, dentro una notte che non c’è e silenzioso nel silenzio fiorito di pietra e mio. Io sono qui, a scurirmi con lo scurirsi della notte fresca e scurita intorno come di culla. Io sono qui, che stringo le mani alle ginocchia, le ginocchia accanto al cuore, dentro il cerchio degli occhi il cerchio della luna fino a tornare bambino.
“E jo cjanti, cjanti, cjanti
e no sai bielsôl parcè.
E jo cjanti solamentri
che par consolâmi me”.
 

Un rai – il prin – di soreli
mancul che une cjarece
sofli d’aur o cjaveli
te miezegnot dal cûr;

un rai cerçât sul ôr
di veri da la tace
cul tenar dai miei lavris
tal neri dal cafè;

un rai ch’al sedi screi
se no ancjemò lusôr
o buinore dai vîfs

tal screi di vierte d’aur;
un rai – chest prin – ch’al è
par colorâmi me.

Un raggio – il primo – di sole, meno che una carezza, soffio d’oro o capello nella mezzanotte del cuore; un raggio gustato sull’orlo di vetro del bicchiere col tenero delle mie labbra nel nero del caffè; un raggio che sia il primo segno se non ancora luce o la buonora dei vivi nell’apertura d’oro della primavera; un raggio – questo primo – che sta per colorare me.
VI

Dî ch’al è vert il vert
no mi samee, di plui
mi môf se il ros de fuee
ros tal amont di Lui

al va e al ven tal vert
cul lâ e tornâ dal vint
cussì nol è plui vert
il vert nì fuee la fuee

ma ros di cûr ch’al trime
batiât dentri l’arint
da li’ stelis: ma velis

– li’ stelis – maravee
su la gnot dai vignâi
il colôr dai colôrs.

Dire che è verde il verde non mi assomiglia, di piú mi muovo se il rosso della foglia, rosso nel tramonto di luglio, va e viene nel verde con l’andare e il tornare del vento, cosí non è piú verde il verde né la foglia foglia ma rosso di cuore che trema battezzato dentro l’argento delle stelle: ma eccole – le stelle – meraviglia sulla notte dei vigneti il colore dei colori.
VII

Tal cjalt, tal sîr rabiôs
te briscule incjocade
dai temporâi d’Avost
no viôt començament

Donzel, anime magre,
peraule di cjatâ;
mi vûl une rosade
disore cheste sagre

di cartelons e spots
e trends e leasings, bars
e marketings e stops

che, cotulis di bande,
a balin di lusôr
parsore il cidinôr.

Nel caldo , nel siero rabbioso, nella briscola ubriacata dei temporali d’agosto non vedo cominciamento, Donzel, anima magra, parola da trovare; mi serve un velo rorido sopra questa sagra di cartelloni e spot e trend e leasing, bar e marketing e stop, che come gonne di latta ballano di luccichío sopra il silenzio.
VIII 

Oh, cjale chest Setembar
cjale jenfre e parsore
il plan cemût ch’al vîf
e che s’inflame e indore

e cjalilu stinît
sul ôr sul fîl d’atom
ch’al cjante e si distude
ta ruis di chest morâr;

alore scrîf e clâr
scrivimilu sul fuei
che muart tant che puisie

di ducj nome un vistît
un sôl e mi domande
ma chel ch’al è plui biel.

Oh, guarda questo settembre, guarda nel mezzo e sopra la pianura com’è che vive e che s’infiamma e indora, e guardalo allibito sull’orlo, sul filo dell’autunno che canta e che si spegne nelle pieghe di questo gelso; allora scrivi e scrivimelo sul foglio chiaramente, che sia morte che poesia, di tutti soltanto un abito, uno solo me ne richiede, ma quello che è piú bello.
IX 

Jo, ch’o ti samei a mi
ma par semeâmi miôr
semence mai vignude
a flôr, fuei vueit, intîr

misure dal pinsîr
ch’al nas e al mûr tal blanc
gjespe ch’e svirgulee
e spiç tal flanc di arsenic;

jo, ch’o soi ma no soi
ce ch’o soi stât, ch’o stoi
– cumò ch’o soi – ma come

ch’o fos ce ch’o sarai
vuê o ti consegni un fuei:
chest al è il plen, il vueit.

Io, che ti assomiglio a me, ma per assomigliarmi meglio, semenza mai venuta a fiore, foglio vuoto, intero, misura del pensiero che nasce e muore nel bianco, vespa che svirgola e stocco d’arsenico nel fianco; io, che sono, ma non sono quel che sono stato, che sto – adesso che sono – ma come fossi quel che sarò, oggi ti consegno un foglio: questo è il pieno, il vuoto.
X

Vuê ch’al è unvier di frêt
spieli di frêt sul fuei
e il cûr mi trimulee
come un ramaç discolç;

vuê che dî al è partî
e amôr di me s’innee
fra la peraule dite
e chê ancjemò di dî;

scoltimi ben che ben
jo o sai murîmi a mi
Donzel, numar d’amôr:

fra me e me anime mê
soi jo che o sighi jo
ta l’aur dal cidinôr.

Oggi che è inverno di freddo, specchio di freddo sul foglio, e il cuore trema come un ramo scalzo; oggi che dire è partire e amor di me si annega tra la parola detta e quella ancora da dire; ascoltami bene, che bene so morire a me, Donzel, cifra d’amore: fra me e me anima mia ci sono io che grido io nell’oro del silenzio.
XI

Nol è nome nevere
di floc parsore floc
o blanc cidinorôs
par dispocâmi il poc

dal gno sintî dolôr,
il blanc da la nevere:
nì companie di glace
par disglaçâ la place

suturne dal gno cûr
o pûr il vueit dal grim;
ma chel dutun de tiere

un pas prime dal scûr
tal palidôr dal cîl
al è sigâ d’amôr.

Non è soltanto una nevicata di fiocco sopra fiocco o bianco silenzioso per spuntare lo stocco del mio sentire dolore, il bianco della nevicata: né compagnia di ghiaccio per disgelare la piazza amara del mio cuore oppure il vuoto del grembo; ma quel tuttuno della terra, un passo prima del buio nel pallore del cielo è gridare amore.
XII

Chel che tu viôts cumò
un passar nome passar
un pugn dutun cun sè
intal so sei di niule

coltade tai miei vôi
cressude spetenade
là ch’o comenci jo
om vîf intal gno sei

di cjar dentri intal frêt
di frêt dentri i cjavêi
di passar nome passar

ch’a mi à viodût cumò
doman, Donzel, tal frêt
cjantaràial inmò?

Quello che vedi adesso, un passero che è soltanto passero, un pugno tutto compreso in sé nel suo essere di nuvola coltivata nei miei occhi, cresciuta spettinata là dove comincio io, uomo vivo nel mio essere di carne dentro il freddo, di freddo dentro i capelli, di passero solo passero che mi ha scorto adesso, domani, Donzel, nel freddo canterà ancora?
XIII 

Intal rivâl di jerbis
lizeris di Zenâr
e lungjis tant che il rai
che si distude in lôr

podê polsâ, polsâ…
tra dî e pensâ, sentât
sul nuie tirâ il flât
gjavâ scae sore scae

il mâl dai pas puartâts
e di puartâ ogni dì.
E po tornâ a partî

cu l’anime par troi
ch’al è vivâr di viers
amâr amâr amâr.

Su questo poggio d’erbe leggere di gennaio e lunghe quanto il raggio che si spegne in loro, poter riposare, riposare… tra il dire e il pensare, seduto sul nulla, riprendere fiato, levare scheggia dopo scheggia il male dei passi portati e da portare ogni giorno. E dopo ripartire, con per sentiero l’anima, che è vivaio di versi, amaro amaro amaro.
XIV

Jo o fâs fadìe par fâ
dut, fadìe par vistîmi,
Donzel, fadìe a mangjâ
fadìe a durmî e par fâ

l’amôr, fadìe a cjalâ
la zilugne a Fevrâr
come ch’e fos la prime
floride arbe d’Avrîl

fadìe a smenteâ
che di nô al restarà
un jevâsi intal scûr

cence fadìe un poiâsi
tal scûr, cul nuie devant,
cence nuie daûr.

Io faccio fatica per fare tutto, fatica a vestirmi, Donzel, fatica a mangiare, fatica a dormire e per fare l’amore, fatica a guardare la brina a febbraio come fosse la prima fiorita erba d’aprile, fatica a dimenticare che di noi resterà un levarsi nel buio senza fatica un posarsi nel buio, col niente davanti, senza aver niente dietro.
XV

Ce ch’o vorès restâ
Donzel, mancul che il plui
dismenteât dai oms
dispetenât salvadi

fradi dal prât poiât
su la verde lusere
dal prât, ce ch’o vorès
la caretât dal vint

a cjarinâmi mans
e çarneli, e cui vôi
çupâ lassù la polpe

fonde dal cîl, e dentri
sintî passâ la rabie
cuietade dal mâr.

Come vorrei rimanere, Donzel, meno che il piú dimenticato degli uomini spettinato e selvatico, fratello del prato posato sulla luce verde del prato, come vorrei la carità del vento a carezzarmi mani e fronte e con gli occhi succhiare lassú la polpa profonda del cielo, e dentro sentirmi attraversare la rabbia pacificata del mare.
XVI

Îr vuê dam e vuadagn
e l’un dentri intal doi
ma il doi che nol è l’un
e jo nì chest nì chel

spiâmi chel ch’o jeri
che no sarai doman;
îr vuê dam e vuadagn
denant al bruse l’îr

ma dentri intal doman
e ogni ricuart ch’al sedi
al lûs come un scarpion

îr vuê doman jo o scjampi…
“Tu scjamparessis sì
ma par tornâ indaûr”.

Ieri oggi danno e guadagno e l’uno dentro il due ma il due che non è l’uno e io né questo né quello, spiarmi quello che ero, che non sarò domani; ieri oggi danno e guadagno, davanti brucia lo ieri ma dentro il domani e ogni ricordo che sia dà luce come uno scorpione, ieri oggi domani scappo… “Tu scapperesti, sí, ma per tornare indietro”.
XVII

No savarès Donzel
fadìe, no savarès
l’imbast e chel daspâ
e chel tasêmi dentri

intal sec criçulâ
des cuestis, e il zimul
sfuarçâ da lis zimis
lis primis, a Fevrâr;

no savarès tal sanc
nì il cjalt dal cjaminâ
nì il fresc gotâ de polse

no savarès nuealtri
di me se no savès
di me che o soi forest.

Non saprei, Donzel, fatica, non saprei affanno e quello scalpitare e quel tacermi dentro nel secco scricchiolio delle costole e lo sforzo gemello delle gemme, le prime, a febbraio; non saprei nel sangue né il caldo del camminare né il fresco gocciolio della sosta, non saprei nient’altro di me se non sapessi di me che sono straniero.
XVIII

Vino di lâ, ma cuant
cumò? Che presonîrs
preson nô o sin di nô.
Cjalìn la muse lustre

dal vert tal zâl dal cîl
di vierte ch’e s’invere
ma o sin ancjemò dentri
cumò ch’al è sotsere.

Pierdûts in cheste vuere.
E pûr Donzel scoltìn
– no flôr nancje semence –

scoltìn il nestri pas
di çucule ch’e ròdule
ch’e ròdule par tiere.

Dobbiamo andare, ma quando, adesso? Che prigionieri siamo prigione di noi stessi. Guardiamo la faccia lucida del verde dentro il giallo del cielo di primavera che s’invera, ma siamo ancora dentro adesso sottosera. Perduti in questa guerra. Eppure ascoltiamo, Donzel – non fiore né semenza – ascoltiamo il nostro passo di pigna che rotola, che rotola per terra.
XIX

Lassaitmi cussì come
ch’o stoi cence rasons
cence vuadagn nì dam
doi vôi davierts ai fonts

rasonaments dal cîl
ch’al sta parcè che o stedi
fer cussì come ch’o stoi.
Lassaitmi achì ch’o sedi

la sissule plui scarte
ta l’aiarfuart di Avrîl,
il svoledon di cjarte

poiât tal vert dal prât,
la maravee dal frut
ch’al dîs ch’al à svolât.

Lasciatemi cosí come rimango, senza ragioni, senza guadagno né danno, due occhi aperti ai fondi ragionamenti del cielo che sta perché io stia fermo cosí come rimango. Lasciatemi qui, che io sia la scheggia piú a buon prezzo dentro l’ariaforte di aprile, l’aeroplano di carta posato nel verde del prato, la meraviglia del bambino che dice che ha volato.
XX

Un murmui mi è l’aiar
chest chì lizêr di Avrîl,
vite cence semence
in tant gurgùi di vite

e vôs cence une muse
e mans ch’a mi son flôrs
sul blanc daviert des mês:
jo, ch’o puarti intal sanc

la miserie dai prâts
di Zenâr, vuê o mi soi
cjatât tal bonodôr

di savudâr, maravee
contentade tal stâ
dal cîl, achì difûr.

Un mormorio mi è il vento, questo qui leggero di Aprile, vita senza semenza in tanto rotolio di vita e voce senza viso e mani che mi sono fiori sul bianco aperto delle mie: io, che porto nel sangue la miseria dei prati a gennaio, oggi mi sono trovato nel buonodore di sambuco, meraviglia accontentata nel sostare del cielo, qua fuori.
XXI

Tal mieç da la planure
doi rôi e un cocolâr
plui in jù, oltri il soriâl
un rocul bandonât.

Disore cualchi ucel
sierât intune rie,
grignâi di nûi smavîts
e lûs che mi dislûs.

Disore lôr il cîl
ligul linçûl e grîs
chel tant di melodie

ch’a si displume in nuie
e jo ca jù cun te
Donzel, la sô ladrîs.

In mezzo alla pianura due roveri e un noce, piú giú, oltre i saggiuoli, un roccolo abbandonato. Sopra, qualche uccello chiuso in una fila, rovelli di nuvoli senza colore e luce che m’acceca. Sopra di loro il cielo, lenzuolo liso e grigio, quel po’ di melodia che si dispiuma in niente e io quaggiú con te, Donzel, la sua radice.
XXII

Fin cuant ch’a ’nd è ch’a ’nt vegni
di chestis soregladis
lizeris sui balcons;
un come me ch’al stedi

davûr di chestis lastris
dôs mans blancjis poadis
doi vôi sul lustri e il rusin
d’Avrîl jù pai vignâi

ogni pensîr dal mont
petenât di lusôr
denant di chestis lastris

come il butul dal flôr
il blancôr di chês niulis
fermis ta l’aiar, finis.

Fin quando ce n’è, ne vengano, di queste soleggiate leggere sulle finestre; uno come me stia pure dietro queste lastre, due mani bianche posate, due occhi sul lucido e sull’ossido d’aprile per vigneti, ogni pensiero del mondo pettinato di luce davanti a queste lastre come il bocciolo del fiore, il biancore di quelle nuvole, ferme nell’aria, sottili.
XXIII

Jerbe lescje il savôr
da la plui frescje niule
d’Avrîl vuê che Donzel
nuie, il mancul il plui

mancul inmò il compagn
lontanance di me
lontan no mi slontane;
jenfri il mont ch’al è il mont

e il cîl il cîl ch’o viôt
crepe di vueit mi son
inte spiete lis oris

a segnâ la mancjance
cul dam, come di dincj
te polpe di une pome.

Erba secca il sapore della piú fresca nuvola d’aprile oggi che, Donzel, niente, il meno il piú, meno ancora l’uguale lontananza di me, lontano, non mi allontana; tra il mondo che è il mondo e il cielo il cielo che vedo, crepa di vuoto mi sono nell’attesa le ore a segnare la mancanza col danno, come di denti nella polpa di un pomo.
XXIV 

O vin dit dut, par dut
ma il dut al è ancjemò
cussì cumò ch’o viôt
chê sinfonie di jerbis

jerbe o soi ancje jo
se al baste aiar di Mai
par dî, cjantâ di sei
o nini o frut, Donzel.

Memorie e passe vie
par sot, magari sot
chest tei e l’armonie

dai nûi, ma, cualchi volte,
si distrie tant che brame
o lampe di cjavêi.

Abbiamo detto tutto, per tutto, ma tutto vuole dire ancora, cosí, adesso che vedo quella sinfonia d’erbe, erba sono anch’io se basta aria di maggio per dire, cantare d’essere o “nini” o “frut”, Donzel. Memoria scorre sotto, magari sotto questo tiglio e l’armonia dei nuvoli, ma qualche volta si dismaga quanto brama o lampo di capelli.
XXV

Oltri l’ôr di cheste taule
i doi balcons davierts
tal zucar dal soreli
sore verts e çarneli

une buinore nete
come la prime peraule
dal mont: sveâsi adore,
l’odôr de gnot intor

denant il bonodôr
madûr de primevere
cence dam nì travai

la cocule lusinte
da la zornade gnove,
vuê, trentedoi di Mai.

Oltre l’orlo di questo tavolo le due finestre aperte: nello zucchero del sole, sopra verdi e fronte una mattina pulita come la prima parola del mondo: svegliarsi di buonora, l’odore della notte addosso, davanti il buonodore maturo della primavera, senza danno né travaglio il nocciolo lucente della giornata nuova, oggi, il trentadue di maggio.
XXVI 

O ài daviert i miei vôi
tai vôi colôr trist timp
dal cîl; lassù Donzel
nus menarà tampieste

tampieste e po tampieste
sul trimulâ dai flôrs:
inte prime sgoriade
di vint sore dai verts

o ài nasât cu l’odôr
da lis jerbis di ploie
l’odôr penç da l’amôr

come che amôr mi fos
il pês intîr di un cîl
sore il tenar di un flôr.

Ho aperto i miei occhi negli occhi color tempocattivo del cielo; lassú, Donzel, ci porterà tempesta, tempesta e poi tempesta sul tremolio dei fiori: nella prima frustata di vento sopra i verdi, ho annusato con l’odore delle erbe di pioggia l’odore denso d’amore, come se amore mi fosse il peso intero di un cielo sulla tenerezza di un fiore.

Pierluigi Cappello

da “Assetto di volo. Poesie 1992-2005”, Crocetti Editore, 2006

Amôrs – Pierluigi Cappello

Foto di Danilo De Marco

I

Cîr par lampâ lampâ pal cîl blancjìis
e torne achì, che piel plui piel lumere
un nassi al fâs e un cressi di lumere
dai tiei vôi in amôr. Fûr al è il frêt
il cjalt dentri inte’ pleis da la cuvierte
il clip la piel ch’o cor da la tô cuesse
sgrisul i dêts, sofli sul bosc adôr
da la tô fuesse, cîl Domine al è
il cîl daviert de tô cu la mê bocje
sbissule rosse flamisele ros
florisel te fumantere d’unvier
la tô lenghe ch’o vîf.

Cerca, per accenderti, accendere nel cielo chiarori e torna qui, che pelle piú pelle lumiera, fa dei tuoi occhi in amore un nascere e un crescere di lumiera. Fuori è il freddo, il caldo è dentro le pieghe della coperta, il tepore la pelle che corro della tua coscia, brivido le dita, soffio sul bosco attorno alla tua fossa, cielo Domine è il cielo aperto della tua con la mia bocca, serpentella rossa, fiammicella, rosso fioricello dentro la bruma d’inverno la tua lingua che vivo.
II 

Tô la mê bocje amôr sul to savôr
la mê vergogne di vivi cumò
ch’o ti tocji ch’o ti sflori e o ti cor
come inte gnot un gjat adôr dai mûrs;
jo o ti cor come un gjat adôr dai mûrs
siben ch’o sai che intai conts di amôr
doi mancul un mancul di zeri al fâs
e un plui un un al varès di fâ,
siben che e reste cumò che tu vâs
la mê cerce di te su la tô piel
su la mê il risinâ dai tiei cjavei

e je dentri te tô la mê pôre
di smenteâmi di me.

Tua la mia bocca, amore, sul tuo sapore, la mia vergogna di vivere adesso che ti tocco che ti sfioro e ti corro, come un gatto nella notte rade i muri; io ti corro come un gatto rade i muri, sebbene sappia che nei calcoli d’amore due meno uno dia meno di zero e uno piú uno dovrebbe dare uno, benché resti, adesso che vai, il mio cercarti sulla tua pelle, sulla mia lo stillare dei tuoi capelli, è dentro la tua la mia paura di smemorarmi di me.
III

Tu tu sês la nere, la more,
nere come intal scûr l’ale di un gnotul scure
o come un sium, nere, ma un sium
puartât vie svelt pai lavris da la gnot;
des voltis nol sucêt nuie, amôr, ma nuie:
e ogni peraule ch’o volarès par dîti
pene e pensîr di savêti
e scjampe inte ridade blancje di salvadie
cence tocjâti cence sflorâti;
tu tu ti dâs e jo no ti sai, nì mai,
zimule mê, ti savarai,
tu tu sês dade e tu sês
parceche cussì tu tu âs di sei:
semence, come i flôrs, dal vint
o un vert di prime zime
ch’al sclape scuarce e celest intal celest dal cîl
e benedî – o maludî –
nol è afâ to
ma gno.

Tu sei la nera, la mora, nera come nel buio l’ala d’un nottolo buia o come un sogno, nera, ma un sogno rapito per le labbra della notte; a volte non accade niente, amore, ma niente: e ogni parola che io vorrei per dirti pena e pensiero di saperti fugge nella tua risata bianca di selvaggia senza toccarti senza sfiorarti; tu ti dai, e io non ti so, né mai, gemella mia, ti saprò, tu sei data e sei perché cosí devi essere: seme, come i fiori, del vento o un verde primo di gemma, che spacca scorza e celeste dentro il celeste del cielo e benedire – o maledire – non è affar tuo, ma mio.
IV

La tô man, lassile lâ su la mê
piel, ven dongje che il ben ch’al nas viodinti
viodinti al cres tal lustri dai tiei vôi
tal cûr dai miei vôi, amôr,
ven chì siben che umôr
amôr no sai ce ch’al confont,
i cjavêi ch’a ti petenin l’arc da la schene nude
come la veretât cence vergogne
o il jessiti achì
vite in vite che s’imburìs in vite
cjâf cun cjâf cjavêl cun cjavêl
cjar sanc semence par te
maduride d’amôr cul madurî de lune
cressude in me par madurî l’amôr;

ven chì
ch’o volarès par te la peraule plui alte
alte in chest maltimp d’unvier
come il prin crît de primevere crude
ma tu ven chì distès, la veretât e je intai fruts,
cjar incandive.

La tua mano, lasciala andare sulla mia pelle, vieni vicino, ché il bene che nasce vedendoti, vedendoti cresce nello smalto dei tuoi occhi, nel cuore dei miei occhi, amore, vieni qui, sebbene umore, amore, non so cosa confonda, i capelli che ti pettinano l’arco della schiena nuda come la verità senza vergogna o l’esserti qui, vita in vita che si arroventa in vita, testa con testa, capello con capello, carne sangue seme per te maturata d’amore col maturare della luna, cresciuta in me per maturare l’amore; vieni qui, che io vorrei per te la parola piú alta, alta in questo maltempo d’inverno come il primo grido della primavera cruda, ma tu vieni qui lo stesso, la verità è dentro i bambini, carne che arde.
V

Front a front, amôr, doi cjâfs, il to e il gno:
il gno distirât par cjalâti miôr
il to, plui alt, che a cjalâmi jo viôt
l’arc dal to cei distirâsi in pâs;
difûr dal cuadri dal balcon
il vert des jerbis strafondis d’Avrîl:
dute une primevere tasude
ch’o tas par fâti plui biele.
Dentri il cercli di vert dai tiei vôi
di strac ch’al jere plui font
plui penç al nassarà il mont.

Fronte a fronte, amore, due teste, la tua e la mia: la mia distesa per guardarti meglio, la tua, piú alta, che a guardarmi vedo l’arco del tuo ciglio distendersi in pace; fuori del quadro della finestra il verde delle erbe grondanti d’aprile: tutta una primavera taciuta che taccio per farti piú bella. Dentro il cerchio di verde dei tuoi occhi, da stanco che era, piú profondo piú denso nascerà il mondo.
VI

Mondimi me, che par volê florî
di flôr in flôr florint soi deventât
ramaç no in flôr nì niçulât da l’aiar:
libare tu, Domine mê, la mê
libertât, metimi dentri tai vôi
la lûs tenare e garbe de to piel di vencjâr:
l’amôr al è cuant che i miei deits
a tocjâti a deventin
la ponte dai tiei.

Mondami, che per voler fiorire di fiore in fiore, fiorendo sono diventato un ramo senza fiore, né mosso dal vento: libera tu, Domine, la mia libertà, mettimi dentro gli occhi la luce tenera e aspra della tua pelle di vinco: l’amore è quando le mie dita a toccarti diventano la punta delle tue.
VII

Come lûs che mi svee prin di buinore
cence sunsûr nì peis il solc
dentri il ricuart, aghe lontane,
dai tiei deits su la mê piel di îr.
Fresc, taront come un mêl crei,
l’amôr olme di nô cjalde ta l’ombre,
cuant ch’o mi jevi o mi slei
o cjali cjalant cence viodilu
                                                   il mont

Come luce che mi sveglia prima del mattino, senza rumore né peso il solco dentro il ricordo, acqua lontana, delle tue dita sulla mia pelle di ieri. Fresco, rotondo come una mela acerba, l’amore orma di noi calda nell’ombra, quando mi levo mi slego, guardo guardando senza vederlo, il mondo.
VIII 

Ma jo che fin cumò soi stât bussât
nome de tampieste amôr gno
che fin cumò soi stât bessôl e sec
’ne sepe secje e cence pome intor
che soledât di te, la tô a la mê
mancul lizere, e mi è vignude intor
dulà cjatâle la fuarce cumò
e cuâl e cemût il fûc di cjalâti
o di cjalâ dulà che amôr nol sedi?

Ma io, che fino adesso sono stato baciato soltanto dalla tempesta, amore mio, che fino adesso sono rimasto solo e secco, un nocciolo secco senza il suo pomo intorno, che la solitudine di te, la tua alla mia meno leggera, mi è arrivata addosso, dove trovarla adesso la forza, e quale e come il fuoco di guardarti o di guardare dove non ci sia amore?
IX

Vorès podêti dî, jo, strac pavêr
da la buinore, dîlu a ti di te,
di clostri fâ di me clâf ch’e spalanche
par misurâ cu la misure tô;
parceche jo – jo – no sai dîti, Domine,
se no il fâsi di nô cjar che nus mene
di sofli in sofli dentri la stravinte
dai cuarps ch’a si pandin. Vorès lusinte
ogni peraule ch’o dîs, indreçade
inte polpe dal to jessi cidine
là che plui e plui scure flàmine e lûs
la cocule tô, fonde di misteri.
Ma come tal neri prime dal mont
a l’om ch’al alçave stangjis tal cîl
par cualchi diu forest da la nature
– fûc o soreli o firmament o lune –
un lunc respîr di cidinôr mi passe
la sfese vierte dai lavris in spiete
e chel – e nome chel – al è peraule
trece d’amôr di un cun chel altri flât
e masse al masse pôc ch’a mi comande.

Vorrei poterti dire, io, stanco lucignolo del mattino, dirlo a te di te, da chiavistello farmi la chiave che apre per misurare con la misura tua; perché io – io – non so dirti, Domine, se non il farsi di noi carne che ci conduce di soffio in soffio dentro la ventata dei corpi che si svelano. Vorrei lucente ogni parola che dico, alzata nella polpa del tuo essere muta, dove piú e piú buia fiamma riluce il nocciolo tuo, profondo di mistero. Ma come nel nero di prima del mondo, all’uomo che levava pertiche in cielo per qualche dio sconosciuto della natura – fuoco o sole o firmamento o luna – un lungo respiro di silenzio trascorre la fessura delle labbra in attesa e quello – e soltanto quello – è parola, treccia d’amore dell’uno con l’altro fiato, e troppo al troppo poco che mi governa.
X

O cerci l’aiar che tu spetenis cu li’ mans
chest dâti e cjolti lusinte tal scûr
di ca la fan, di là il pan da la mê fan
tu floride tal mieç
e flôr la piere ch’e sflorìs in me;
o cerci chest aiar e al bastarès
se par vivi la pôre di vivi no fos
mancul lontane di te.

Assaggio l’aria che spettini con le mani, questo darti e toglierti lucente nel buio, di qua la fame, di là il pane della mia fame, tu fiorita nel mezzo e fiore la pietra che sfiorisce in me; assaggio quest’aria e basterebbe se per vivere la paura di vivere non fosse meno lontana di te.
XI 

S’o cor
fumul tal fumâr compagn dal jever
di chest unvier ch’al strenç ma nol è unvier
se lunc e larc achì no son nì lunc
nì larc e jo soi chì ch’o zorni, farc
da la mê tiere, se jenfri chel ch’o sai
e chel che inmò no sai di me, tu sês
vignude jù, mantîl di cheste vuere
judimi tu, mudant la tô, a mudâ
la mude mê, sem e cjadene.

Se corro, fiato di fumo nella bruma come la lepre di questo inverno che stringe ma non è inverno, se lungo e largo qui non sono né lungo né largo e io son qui che canto, talpa della mia terra, se entro quel che so e quel che non so ancora di me, tu sei venuta giú, mantello di questa guerra, aiutami tu, mutando la tua, a mutare la mia muta, seme e catena.
XII 
e jo i na pos pì da murî, mâri
Ida Vallerugo 

Tu tu mi cjalis, soriane, cun vôi
di maràngule ch’e rît, dal balcon
a la intimele lûs, fuarfe ch’e stoche
siums dal to zardin di siums, l’amôr
ch’al cor inmò pe’ pleis da la cuvierte
e jo dongje ch’o ten la vite dentri
come piere ch’e ten dentri il soreli
e intal cjalâti «vîf» tu tu mi disis
«no sta studâlu, vîf», alore vivi
cun debil flât soflâ cuintri stravinte
ma difûr dulà ch’a si vîf il vint
il vint sul sfalt e sui gjeranios, vint
ch’al mene grande sium dal sium, la lum

ch’al bastarès bussâsi achì tal scûr
cjalcjant une volte lavri cun lavri
dant come dâsi chel ch’a nol pues
jessi plui dât di nô, ch’a nol si pues;
la lum, s’e nas e sclope mûrs, cuvierts
di me, di te, e rimâ scjele cun stele
piçul cul grant si podarès achì
cumò, parceche o sin chì, nô,
butâts jù nûts di lassù, nassûts
inte bocje dal scûr.

Tu mi guardi, soriana, con occhi di gatta che sorride, dalla finestra alla federa luce, forbice che spicca sogni dal tuo giardino di sogni, l’amore che scorre ancora per le pieghe della coperta, e io accanto che tengo la mia vita dentro come pietra che tiene dentro il sole e nel guardarti “vivi” mi dici “non spegnerlo, vivi”, allora vivere, con debole fiato soffiare contro la bufera, ma fuori dove si vive il vento, il vento sull’asfalto e sui gerani, vento che porta un grande sonno del sogno, il lume, che basterebbe baciarti qui nel buio premendo una volta labbra contro labbra, dando come darsi quel che non può essere piú dato di noi, che non si può; la luce, se nasce fa schiudere muri, coperchi di me, di te, e rimare scheggia con stella, piccolo con grande si potrebbe qui, ora, perché siamo qui, noi, gettati nudi di lassú, nati dentro la bocca del buio.
XIII

Tra chel ch’al comence e chel ch’al finìs
scomençâ a finî par començâ a vivi.
Sul cei dai vôi crei nassiment d’unvier
il disdulî come fûc ch’a si distude.
Tu come che tu sês vignude lade:
come une muse vignude dal scûr.

Tra ciò che incomincia e ciò che finisce cominciare a finire per cominciare a vivere. Sul ciglio degli occhi nascita acerba d’inverno il disdolersi come fuoco che si spegne. Tu partita come sei venuta: come una faccia venuta dal buio.

Pierluigi Cappello

da “Assetto di volo. Poesie 1992-2005”, Crocetti Editore, 2006