Sette paesaggi – Gesualdo Bufalino

I.

Dolce autunno che deliri alle soglie
delle selve, nel lento profumo
dei malinconici canali, vento
dubitoso ti fai fra le mie mani
che si tendono, ed è vespro, ma immenso
mare di rosa e d’indaco, se cade
sul molo l’ombra come una bandiera…

2.

Le capre si sbramano alla dorata
cenere della sera, mansuete
di luna, un tenero fumo si perde
all’orlo dell’acque, l’ora
è cosí tenera e dolce.

3.

Estenuata coppa lunare
sulle sabbie, per sempre; ascolta:
è il grido lungo della scolta
sul faro, davanti al mare…

4.

Lacrime larghe della primavera,
gesti sfiniti e dementi del vento;
e questo cielo precario che sento
sfogliarsi come un fiore nella sera…

5.

La sera è un’acqua verde che trema
fra le tue dita, d’erba
odori ai seni minuti, amore.

6.

Ora i canali amano la stella,
si svegliano le volpi nelle selve
a spiare la luce, sono quieti
i campanili come gesti quando
la stella è colma…

7.           
Carri di notte

Culla di giostra caute
dondolano nella luna: s’aduna
sul fieno alto l’azzurro.

Cantano malinconici di sonno.

Poi un grido li ferma:
come sangue è il colore della luna,
bruca un cavallo bianco l’erba bruna.

Gesualdo Bufalino

da “Rimanenze”, in “Gesualdo Bufalino, L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1996

Congedi – Gesualdo Bufalino

Foto di Nastya Kaletkina

1.

L’angelo cieco ha gridato
sulla tua fronte acerba, si dibatte
l’erba nel vento come un mare.

O statura delusa, e la foglia
guasta t’adorna, il tribolo confina
col tuo capo murato.

Inutile eri e stupenda,
guardavi sulle selci rosse del greto
forsennato il cavallo splendere.

Ora non ho che la tua voce
che folta trasogna e si dispera
nel mio sonno, talvolta.

2.

Passerà sul tuo petto il ferro dei convogli,
e uomini, cantando: è dolce
questa fine d’annata che si spoglia
adagio sulla tua bocca sepolta.

Dolce è la pioggia, ma tu non la senti,
tu piú non senti né pioggia né sole:
come un giornale invecchi e inutilmente
io vado fra me stesso di te dicendo parole.

3.

Venire nel tuo povero reame
quest’inverno, senza rumore,
sentendo d’un tratto nel cuore
la morte come una fame.

Fra i tanti occhi algidi e brulli
trovare i tuoi che mi trovano,
indovinare le tue labbra nuove
sulle mie labbra di terra e di nulla.

E insieme ancora aspettare laggiú,
al traghetto d’un fiume bruno,
come una volta nel quarantuno,
chissà dove, chi lo sa piú.

4.

Oggi d’uccelli cosí spoglio il cielo
parla soltanto con voce di vento,
soffio randagio di foglie infelici,
forestiero lamento che mi cerca.
Sei tu? Non è già tardi per dischiudere
come una volta il mio stipite freddo
al tuo viso che adagio disimparo,
dai grandi occhi di cieca, che precipita
sempre piú giú, per una cruna grigia
di caligine e sonno? Non rispondi,
nemmeno sei quest’alito che torna
a scompigliare inatteso lo sciame
di percalli e di sciarpe; e si scancella
l’alterigia soave del tuo sangue
in un velario di ruggine, funebri
esosi orpelli macchiano gli specchi.
Cosí s’adempie il patto. Piú nessuno
saprà di te ch’era la luna il lembo
della tua veste verde e ne balzavi
con la nuca di luce e il grembo tiepido
rapita al grido dei binari. Io solo
resto per poco al tuo nome d’allora.
Tu dormi, fioca isola di carne,
nella terra nemica e non rammenti.

5.

Una foglia fugace mi si posi sul volto,
e io ripenso un giorno senza sole,
e noi stanchi d’amarci e pieni di parole,
come chi recita la prima volta.

Andavamo nel vento allacciati e furenti
fra due filari di scialbo mattino,
odiandoci e piangendo come bambini.
Volevamo morire, te ne rammenti?

E ora dove sei, che ne è stato di noi,
dei tuoi capelli lisci che il vento turbava?
Io non so piú ritrovare la strada,
dove tu sottoterra dolcemente t’annoi.

6.

Fra croce e croce di pietra nera
un battito di rondine
se s’adira fuggiasco fa bufera
di cielo al buio che ti fascia gli occhi.
Ne tremi, poi piú sordo
odi crescere il rombo di frana
sul tuo capo, e il ricordo come un mare.

7.

Fu una donna nel tempo sereno
che mi venne con mani di demente,
e mi perse la mente sul suo seno.

Di roccia e d’aria passavano nuvole
sul nostri corpi congiunti, dormivo
nei suoi capelli chiusi
come entro un inutile diluvio.

Ancora le sue labbra ascolto,
falce barbara e nuda;
diaccio come uno scudo,
il suo volto mi guarda.

8.

E da te m’accomiato,
piccolo viso di donna, e la voce
che sul mio cuore curvavi
piú non udrò come un prato
stormire, e la strada non ha
che muri muri e logori asfodeli
nel territorio dove non ti trovo.

Ritorna a piovere sulle tue labbra,
sulle tue povere ali recise,
sulle domeniche verdi e perdute…
Un elenco di numeri mi resta:
21 luglio, 13 agosto,
K. 304 ad occhi chiusi;
e cartoline morte in un cassetto.

Ah donna donna, dovunque tu sia,
dalla tua stella d’eterno fumo,
dimmi il tuo nome, sii di nuovo un nome,
rovescia il senso della ruota, scavalca
mille leghe di niente con un sorriso,
ripassa il fiume, torna accanto a me,
quando annotta ritrovami la mano…

Gesualdo Bufalino

da “Annali del malanno”, in “Gesualdo Bufalino, Opere: 1 [1981, 1988]”, Bompiani, 2006

Appuntamento presso un bunker abbandonato – Gesualdo Bufalino

Ferdinando Scianna, Deauville, Francia: la coppia sotto la pioggia, 1933

 

Io ti dico parole imparate a memoria:
le ascolti appena, frastornata dalla pioggia
che cade sul bunker di Punta Scalambra
e annunzia lungamente un altro addio.

Com’è lontano il mare, a guardarlo da qui,
da questi strombi sbreccati e inermi,
come lontana anche tu, e cangiata da ieri…
Per rivederti devo chiudere gli occhi.

Devo chiudere gli occhi per rivedere i tuoi,
invaghiti e ridenti, per risentire il fatuo
minuetto dell’aria fra i tuoi capelli,
i chiusi trambusti del cuore.

Cosí dunque ci gioca il tempo e ci convince:
basta una raffica sbieca, un giornale che voli,
stremata procellaria, sul dirotto frangente;
quel cencio d’alga che ripugna fra le dita…

poco basta per dirci che l’estate è già morta,
gioventú menzognera dell’anno,
e che di noi, di lei non rimane che un solo
cieco pugno di polvere e di pioggia.

Anch’io, come un maltempo, sopra i tuoi giorni d’oro
recato non ho che deformi
relitti e presagi di fine
e qualche lamentosa fuggitiva pietà.

Un regalo di morte che butterai domani,
questo di me ti lascio, e null’altro, perdonami:
non potevo di piú, io non so camminare
che a braccio d’un fantasma, oppure solo.

Ora lo sai, lo vedi: che servirebbe torcersi
le mani, piangere, stampare in un libro
che siamo stati felici, che un altr’anno
incontrandoci qui sorrideremo?

Lasciami allora andare solo incontro alla notte.
Tu resta a guardare la striscia di sole che torna,
l’airone sul grigio cemento lavato
che s’asciuga le vecchie penne.

Gesualdo Bufalino

da “La festa breve”, in “Gesualdo Bufalino, Opere: 1 [1981, 1988]”, Bompiani, 2006

Poscritto, dopo molti anni – Gesualdo Bufalino

Foto di Francesca Woodman

 

Se qualcuno stasera è infelice come me,
qualcuno come me, sprangato in una stanza,
dopo aver visto due volte lo stesso film,
solo con un baule di parole sbagliate,
di ricordi bugiardi, in un paese di neve,
fra due lenzuola bianchissime, solo;
se qualcuno stasera è come me nel mondo
uno straniero che domani se n’andrà…

Amico che di là dei monti
per ascoltarmi stringi gli occhi come una volta,
ricordi i balli prima della guerra,
e Jole e Minia e la signora forestiera,
ricordi il sole del trentanove
sui nostri visi brutti, le nostre risa di poveri,
l’intercalare  «Quien sabe?»  di moda tutta un’estate,
finché significò qualcosa…

Poi la luna si chiuse nei pozzi,
l’unghia d’inverno recise
i mazzi di robinie spruzzolati di sangue,
migrarono gli uccelli dai nidi delle caserme…
Chi guarirà dentro di noi tutti quei morti
che palpano con mani cieche
la notte smisurata che li mura?
Chi nel nero tizzone risveglierà una guancia
per ripetere «t’amo» al ponte della Bettola?

Giorni piú neri altrove m’aspettavano:
mi punse il petto la febbre
con lunghe aguzze scapole di vergine,
scaltro venne un sensale
a contare i miei passi, il mio respiro…
Insolente proposta di esistere,
inutilmente al balcone
il grido del gallo un’alba mi chiamò.

Da allora chiuso nel mio cunicolo, e pieno
d’un minuto rancore, d’un bambino rancore,
come un guardiano di faro infedele
vivo in attesa d’un naufragio, m’affeziono
ai minimi relitti che la tempesta mi porge,
dirigo sugli scogli ogni barca che mi cerca,
rido da solo strofinandomi le mani…

Dio, tu dici, o chiedi in silenzio:

a guisa dei poliziotti dei romanzi,
ho fiutato nel mondo le Sue peste;
in piedi e in ginocchio, beffato e beffardo,
l’ho ferito e chiamato, l’ho perduto e cercato,
ma il delitto dentro la stanza chiusa
s’è ripetuto ogni volta, all’improvviso…

E poi… ma addio, addio, le parole non servono.

Gesualdo Bufalino

da “L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1996

Progetto di lode – Gesualdo Bufalino

Mario Tozzi, Donna seduta di schiena, 1926, Museo del Paesaggio, Verbania

 

Tu unica, tu viva, tu acqua
e aria del mio vivere
e veemente complice di morte;
tu mio pugno e stendardo
contro le scure procedure della sorte;
tu mio grano, mio grembo, mio sonno,
fuoco d’inverno che sventi l’obliqua
nube di notte dove abita l’Orsa;
tu unica e viva, tu canto
di grave organo e grido
di lenta carne e fiore e cibo, mia roccia
di paragone e tiepida
tana, mia donna, mia donna, tu unica,
tu viva…

Gesualdo Bufalino

da “L’amaro miele”, Einaudi, Torino, 1989