Dismisura – Piero Bigongiari

Foto di Nastya Kaletkina

 

Fra strazi di sonagli al muto riso
dei neri astri dal suo paradiso
il tuo delirio sugge dalle palme
tese al vuoto una nuova metamorfosi.

Chi ti sostenne se tu osi ancora,
o dismisura, fare tuo lo spazio
aperto da una lacrima? son rosi
gli alveari da valvole di miele,

precipitano rose funerarie,
nappi su stele pallide son porti
da una mano recisa a labbra estinte,
e l’aria ancora annuvolan, topazi

gemebondi, i passi per cui qui teco
venimmo: te in oscura eco ravvolta
risalgono, fiori lancinanti,
cenere di disastri, risa, pianti.

Tra elitre notturne il tuo canto
ancora canta i miei persi dolori,
e le altre stelle fioriscono, malori
divini, sulle braccia che auliscono.

Piero Bigongiari

da “La figlia di Babilonia”, 1942, in “Stato di cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 1968

Volo di uccelli che sentono la tempesta – Piero Bigongiari

Foto di Mario Giacomelli

 

D’uno in altro finito nelle azzurre
caverne l’infinito schiuma al vento
che involve nel suo fulgido tormento
il colore dei prati, l’ali eterne
di primavera dei sommessi alati:
mare che non ha requie sulle tombe
umane, dove i petti ansano invano,
mare che spinge il suo sorriso a fiore
strano tra scogli e addii. Ad ali tese
precedono gli uccelli la tempesta,
celesti ne disegnano le corolle,
grigi barlumi insegnano alle zolle
e in alto al nido, fermo
ingorgo di mota, di sterpi, d’amore
ch’altro rapprese e sollevò tra i rami
e le grondaie. Altro percorre il fiume
fin oltre la sorgente, un altro lume
avvena le tue mani, ulcera gli occhi.
Chiamami dalla tua sorda caverna,
io sono in basso, tento il piede, salgo
alla tua verna altissima e non ti odo,
amore penetrato come un chiodo
sul legno delle croci che fioriscono.

Piero Bigongiari

[20 luglio ’56]

da “Le mura di Pistoia”, “Lo Specchio” Mondadori, 1958

Tra la legge e la leggenda – Piero Bigongiari

Anka Zhuravleva, Driada

 

Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse perché amo farmi là raggiungere
dove non sono, mentre guardo il mare
che insinua tra le sue macerie il grido
del gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto che galleggia tra le schegge,
al contrario del gran depistatore,
perché so che è difficile seguire
chi, indeciso sulla propria meta,
ma forse proprio in essa pesticciando,
si distrae dietro un viso, si nasconde
dietro il dito che indica le onde
che asciugano e bagnano la riva
del paese natale, la deriva
della luce che liquida ne assale
le sponde e nella mente la ravviva.

Amo confondere il cricchio del tarlo
a un andante di Mozart…, mescolare
il passo del viandante per la via
con quello di chi risale le scale
a semicerchio della nostalgia.

Amo dimenticare il profumo della cedrina
su quello della tua pelle. Del tutto
ricordare la parte più obliata,
del frutto il seme ch’entro sé difende
la sua amarezza in duro tegumento.
Ma se mento, non mento che a me stesso
per dirti la verità che nello stesso
errore è celata, difesa, abbandonata
a crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni elementari – è lì
che ogni due si unifica, nei suoi
seminali abbandoni.

                                       Amo guardarti
mentre riveli in te una dolcezza
che è quella della fata che nascosta
tra gli alberi occhieggia che nessuno
la segua andando verso il suo tugurio
arredato come una reggia se tu
ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia impazzita tra gli altri balocchi
del destino che l’uomo chiama vita.

Cammino dietro a poche cose, quelle
meno necessarie, le più volatili,
le meno rare. Forse in mano ad esse
è il codice per leggere il messaggio
che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto, semicancellato,
fra terribilità e dolcezza.
Ma se tengo le mani ad un tempo
sui due telai, è che amo riprendere
dal secondo la tela che Penelope
sta sfacendo: è solo con quel filo
– altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito –
che sull’altro ritesso la leggenda.
Tu che la leggi strappane la benda
dei segni che l’accertano o la mettono
in forse, perché, vedi, sotto sanguina.

Piero Bigongiari

18 – 20 marzo ’90

da “La legge e la leggenda” (1986-1991), “Saggi e testi” Mondadori, 1992

A volte penso che sia troppo – Piero Bigongiari

 

A volte penso che sia troppo, scrivere,
quasi scriversi addosso, quasi vivere.
È un quasar questo foglio che s’impenna
tra morte e vita. Tu, mio Dio, perdonami.

Troppi gli avvenimenti che non furono,
e i pensieri, i pensati e gli impensati,
tradiscono qualcosa, il non pensiero.
Merito forse io di dire agli altri

che il dolore confina con la gioia,
se la noia del passero travalica
l’incredula felicità? Io passo,
forse son io che lascio i fuochi spenti

nei bivacchi che incontro, io che ai torrenti
d’altri fuochi stellari mi guardai
cercandovi l’opaco per vedermi.
Tu lasciami Signore, la mia mano

non è degna di te: devo seguire
quanto non ti somiglia, rialzare
le erbe che calpesto, amare quanto
non è degno d’amore. E lo sapevo…

Gli spazi dell’orrore e del sorriso
si possono, chi è desto, sovrammettere.
Quanto di sé non vede, un viso dice,
ma quanto dice, fu visto per sempre.

Piero Bigongiari

21 aprile ’81

da “Nel delta del poema”, “Lo Specchio” Mondadori, 1989

Tu resta, danzatrice – Piero Bigongiari

Foto di René Groebli

 

L’astro che ti corruppe nel silenzio
il grido, dal ciglio delle pensées,
delirante attentato fece eterno
un canto d’usignoli. E dal perduto
nostro muro notturno empí un nitrito
di cavalle.

                   Perdesti a un gesto calle
d’avorio che la notte aveva chieste.
Calpestavi i tuoi sandali. Finestre
di fuoco arderono sui tuoi capelli
dilatati le parole piú vere.

(Tu resta, danzatrice,
a commentare in segreto.)

Piero Bigongiari

da “La figlia di Babilonia”, 1942, in “Stato di cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 1968