Lettera alla sposa – Miklós Radnóti

Miklós Radnóti e Fanni Gyarmati a Svábhegyen, c. 1930

 

Nei mondi taciturni della profondità muta
il silenzio urla nel mio orecchio, lancio un grido,
ma non può rispondermi nessuno dalla distante
Serbia svenuta in guerra
e tu sei lontana. La tua voce intreccia il mio sogno –
e di giorno la ritrovo di nuovo nel mio cuore –
dunque taccio, mentre mi ronzano attorno ritte
tante felci orgogliose dal tocco fresco.

Non so più quando potrò vederti di nuovo,
tu che eri certa e pesante come il salmo,
e bella come la luce, bella come l’ombra,
colei che ritroverei anche da cieco e muto,
ora ti nascondi nel paesaggio e affiori dall’interno
nei miei occhi, è così che ti proietta la mente;
eri realtà, e sei diventata di nuovo sogno,
ricadendo nel pozzo dell’adolescenza

ti interrogo geloso, mi ami?
un giorno alla fine della mia giovinezza
sarai la mia sposa, spero di nuovo –
torno in me,
so che lo sei. Sposa e amica –
solo sei lontana. Oltre tre confini selvaggi.
E sta già arrivando l’autunno. Anche l’autunno mi dimentica qui?
Dei nostri baci il ricordo è più acuto;

avevo creduto nei miracoli e ho dimenticato i loro giorni,
squadre di bombardieri sfilano sopra di me;
stavo ammirando nel cielo l’azzurro dei tuoi occhi,
ma s’è annuvolato, e le bombe in alto dagli aerei
avevano voglia di precipitare. Vivo contro di loro –
e sono prigioniero. Ho ponderato tutto quello in cui spero,
ciò nonostante so che ti ritroverò,
ho percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima –,

e strade di paesi; se serve con una magia attraverserò
braci di porpora, fiamme che precipitano, ma tornerò;
se serve sarò coriaceo, come il callo sull’albero,
mi tranquillizza la calma degli uomini selvaggi
che vivono nei guai e in pericolo costante,
aspirando alle armi e al potere,
e come un’onda fredda
mi cade addosso il buon senso del 2 x 2.

Miklós Radnóti

(Lager Heideman sulle montagne di Žagubica, 1944)

(Traduzione di Edith Bruck)

da “Mi capirebbero le scimmie”, Donzelli Poesia, 2009

∗∗∗

Levél a hitvehez

A mélyben néma, hallgató világok,
üvölt a csönd fülemben s felkiáltok,
de nem felelhet senki rá a távol,
a háborúba ájult Szerbiából
s te messze vagy. Hangod befonja álmom,
s szivemben nappal ujra megtalálom,—
hát hallgatok, míg zsong körém felállván
sok hűvös érintésü büszke páfrány.

Mikor láthatlak ujra, nem tudom már,
ki biztos voltál, súlyos, mint a zsoltár,
s szép mint a fény és oly szép mint az árnyék,
s kihez vakon, némán is eltalálnék,
most bujdokolsz a tájban és szememre
belülről lebbensz, így vetít az elme;
valóság voltál, álom lettél ujra,
kamaszkorom kútjába visszahullva

féltékenyen vallatlak, hogy szeretsz-e?
s hogy ifjuságom csúcsán, majdan, egyszer,
a hitvesem leszel,—remélem ujra
s az éber lét útjára visszahullva
tudom, hogy az vagy. Hitvesem s barátom,—
csak messze vagy. Túl három vad határon.
S már őszül is. Az ősz is ittfelejt még?
A csókjainkról élesebb az emlék;

sodákban hittem s napjuk elfeledtem,
bombázórajok húznak el felettem;
szemed kékjét csodáltam épp az égen,
de elborult s a bombák fönt a gépben
zuhanni vágytak. Ellenükre élek,—
s fogoly vagyok. Mindent, amit remélek
fölmértem s mégis eltalálok hozzád;
megjártam érted én a lélek hosszát,—

s országok útjait; bíbor parázson,
ha kell, zuhanó lángok közt varázslom
majd át magam, de mégis visszatérek;
ha kell, szívós leszek, mint fán a kéreg,
s a folytonos veszélyben, bajban élő
vad férfiak fegyvert s hatalmat érő
nyugalma nyugtat s mint egy hűvös hullám:
a 2×2 józansága hull rám.

Miklós Radnóti

(Lager Heidenau, Zagubica fölött a hegyekben, 1944)

da “Tajtékos ég: versek”, Révai, 1946

Coscienza – Attila József

Sergio Larrain, Railway station, 1963

1.

Dalla terra il cielo scioglie l’alba
e alla sua mite parola pura
gli insetti ed i bambini
alla luce del sole si levano.
L’aria è senza vapori.
Vibrano lucide minuzie.
Sono volate stanotte sugli alberi
come minime farfalle le foglie.

2.

Ho visto in sogno figure screziate
di blú, di rosso, di giallo.
Quello era – sentivo in me – l’ordine:
non un grano di pulviscolo mancava.
Ora qui vola dentro le mie membra
il sogno. Ordine è il mondo di ferro.
Di giorno sorge in me la luna; e se fuori
è notte, qui risplende dentro un sole.

3.

Sono magro, solo pane
mangio qualche volta. Fra queste anime
vane, ciarliere, cerco inutilmente
qualcosa piú certo del dado da giuoco.
Mai che un pezzo d’arrosto mi si strusci
alla bocca ed un bambino al cuore.
Oh, si ingegna! Ma il gatto non sa
prendere il topo, insieme, dentro e fuori.

4.

Come catasta di legna
sta in un cumulo il mondo.
Stringe, spinge, rinserra
una cosa l’altra cosa
e ciascuno cosí è determinato.
Solo quel che non è, mette rami.
Solo quel che sarà, è il fiore.
Quello che è, si disfa.

5.

Lungo lo scalo merci
mi ero annidato ai piedi dell’albero
come un pezzo di silenzio. Una gramigna
mi sfiorava le labbra, aspra, stranamente dolce.
Morto, spiavo il guardiano
e tra i vagoni muti ostinato
i balzi della sua ombra sui lampi
del carbone bagnato di rugiada.

6.

Ecco, la pena è qui dentro.
Ma è fuori, lí, quel che la spiega.
Il mondo è la tua piaga. Brucia, arde;
e tu la tua anima senti, la febbre.
Schiavo se il cuore soltanto è in rivolta
non sarai libero finché per te
non avrai costruito una casa
e non per un padrone.

7.

Ho guardato dalla sera in alto
verso la ruota dei cieli:
con i lucidi fili del caso
si tesseva al telaio del passato la legge.
E ancora ho guardato verso il cielo
su dai sogni delle mie nebbie
e ho veduto: ora qui, ora là si sdruciva
la trama della legge sempre.

8.

Il silenzio ascoltava. Un colpo suonò.
Puoi la tua gioventú rivedere
tra cemento di umide mura
e immaginare qualche libertà,
pensavo. Ma, levandomi, su in alto
stelle e carri dell’Orse
brillavano come le sbarre
sopra la cella muta.

9.

Ho sentito gemere il ferro.
Ho sentito ridere la pioggia.
Vedevo, era rotto il passato,
solo quel che si immagina si perde
e io non so altro che amare,
curvo sotto i miei pesi…
Perché si deve fare di te
un’arma, coscienza d’oro!

10.

Adulto è chi non ha
né padre né madre nel cuore,
che sa di ricevere come
in aggiunta alla morte la vita;
come oggetto trovato sa renderla
in qualunque momento e per questo la serba;
chi non è prete o dio
né per se stesso né per nessuno.

11.

Io l’ho vista, la felicità:
morbida, bionda, piú d’un quintale.
Sull’erba austera del cortile
il suo sorriso ricciuto barcollava.
Sdraiata nel tepore della melma
grugní ammiccando verso di me.
Vedo ancora come indecisa
fra i crini la luce esitava.

12.

Abito lungo la ferrovia. Qui molti
treni vengono e vanno e mi piace
guardare le luci che volano
sul fondo sventolío del buio.
Cosí filano nella notte eterna
i giorni illuminati
e io sono nella luce di ogni scompartimento
mi appoggio sul gomito e non parlo.

Attila József

1957

(Traduzione di Franco Fortini)

da “Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia”, “I Supercoralli” Einaudi, 1982 

Voi non vi ha amato nessuno – Agota Kristof

Agota Kristof, foto di Jean-Pierre Baillod

 

Lentamente imbianca la notte sul suo viso senza sole
incessanti le stelle cadono
in profondi laghi scuri cadono
e in profondi boschi scuri cadono
le stelle

bianche
case ai margini della foresta inceneriscono si tende
il corpo di pietra delle strade dolore insensato
si nasconde nelle vene degli alberi
sempre più forte è il vento
sempre più scura la neve

fratelli
voi non vi ha amato nessuno ma domani
metterete piede sui raggi
della luna
i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
dalle vostre mani dalle vostre labbra
attorno a voi cresceranno gli alberi
si placherà anche la notte e il vento porterà
cenere tiepida sulle vostre terre sterili

Agota Kristof

(Traduzione di Vera Gheno)

da “Chiodi”, Edizioni Casagrande, 2018

∗∗∗

Titeket senki sem szeretett

Lassan megőszül az éj naptalan arcán
a csillagok egyre hullnak
sötét mély tavakba hullnak
és sötét mély erdőkbe hullnak
a csillagok

fehér
erdőszéli házak hamvadnak el megfeszül
az utak kő teste esztelen fájás
bujkál a fák ereiben
egyre erősebb a szél
egyre sötétebb a hó

testvéreim
titeket senki sem szeretett de holnap
kiléptek a hold
sugaraira
szemetek megszépül vérfoltokat mostok
kezeitekről ajkaitokról
körétek nőnek a fák
megcsendesül az éj is s langyos hamut hord
a szél meddő földjeitekre

∗∗∗

Vous n’étiez aimés de personne

Lentement la nuit devient vieille sur son visage pâle
les étoiles tombent sans arrêt
tombent dans les profondes rivières sombres
et dans les sombres forêts profondes tombent
les étoiles

blanches
maisons à la lisière de la forêt en cendres se tend
le corps caillouteux des routes la douleur insensée
se dérobe dans les veines des arbres
le vent est de plus en plus fort
et la neige de plus en plus sombre

mes frères
vous n’étiez aimés de personne mais demain
vous marcherez sur les rayons
de la lune
vos yeux pleins de beauté vous laverez les taches de sang
sur vos mains sur vos lèvres
autour de vous pousseront des arbres
la nuit aussi se calmera et la cendre tiède
le vent la portera sur vos terres stériles

Agota Kristof

(Traduit du hongrois par Maria Maïlat)

da “Agota Kristof, Clous -Szögek”, Poèmes hongrois et français, Éditions Zoé, 2016

Ti aspettavo – Agota Kristof

Foto di Alex Howitt

 

Ti aspettavo in fondo alla strada nella pioggia
andavo a capo chino ti vedevo lo stesso
ma non riuscivo a sfiorarti la mano

Ti aspettavo su una panchina le ombre degli alberi
cadevano sulla ghiaia fresca
come anche la tua ombra mentre ti avvicinavi

Ti aspettavo una volta di notte sul monte
crepitavano i rami quando li hai scostati
dal tuo viso e mi hai detto che non potevi restare

Ti aspettavo a riva con l’orecchio incollato
a terra sentivo il tonfo dei tuoi passi
sulla sabbia morbida poi si fece silenzio

Ti aspettavo quando arrivavano i treni lontani
e le persone tornavano tutte a casa
mi hai fatto un cenno da un finestrino il treno non si è fermato

Agota Kristof

(Traduzione di Vera Gheno)

da “Chiodi”, Edizioni Casagrande, 2018

∗∗∗

Vártalak

Vártalak az út végén az esőben
lehajtott fejjel mentem így is láttalak
de nem tudtam megérinteni a kezed

Vártalak egy padon a fák árnyai
hűvös kavicsokra hulltak
mint a te árnyékod is ahogy közeledtél

Vártalak egyszer éjszaka fönt a hegyen
zörögtek az ágak mikor félrehajtottad
arcod elől és szóltál nem maradhatsz

Vártalak a parton fülemet a földre
szorítva hallottam lépteid dobbanását
a puha homokon aztán csend lett

Vártalak mikor érkeztek a távoli vonatok
és az emberek akik mind hazajöttek
felém intettél egy ablakból a vonat nem állt meg

∗∗∗

Je t’attendais

Je t’attendais au bout de la route sous la pluie
marchant tête baissée et même comme cela je te voyais
mais je ne pouvais pas toucher ta main

Je t’attendais sur un banc les ombres des arbres
tombaient sur le gravier refroidi
comme ton ombre pendant que tu t’approchais

Je t’attendais une fois dans la nuit en haut de la montagne
les branches cliquetaient lorsque tu les a écartées
de ton visage et m’as dit que tu ne pouvais rester

Je t’attendais sur le rivage l’oreille collée à la terre
j’ai entendu le battement de tes pas
dans le sable mou puis le silence fut

Je t’attendais lorsque les trains lointains arrivaient
et les hommes sont tous rentrés à la maison
tu m’as fait signe par la fenêtre le train ne s’est pas arrêté

Agota Kristof

(Traduit du hongrois par Maria Maïlat)

da “Agota Kristof, Clous -Szögek”, Poèmes hongrois et français, Éditions Zoé, 2016

Parente della Morte – Endre Ady

Edward Steichen, Heavy roses, 1914

 

Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.

Amo le rose malate,
le vogliose donne sfiorenti,
e i lucenti, malinconici
tempi d’autunno.

Amo il richiamo spettrale
delle ore tristi
e il fratello giocoso
della grande e santa Morte.

Amo coloro che partono,
che piangono e si destano
e, nei freddi mattini brinati,
i campi.

Amo la stanca rinuncia,
il pianto senza lagrime,
la pace, rifugio di saggi, di poeti
e di malati.

Amo i delusi, gl’infermi,
coloro che sono fermi,
gl’increduli, i tristi:
il mondo.

Io sono parente della Morte.
Amo l’amore morente,
amo baciare
chi se ne va.

Endre Ady

(Traduzione di Paolo Santarcangeli)

da “Endre Ady, Poesie”, Lerici editori, Milano, 1964

***

A Halál rokona

Én a Halál rokona vagyok,
Szeretem a tűnő szerelmet,
Szeretem megcsókolni azt,
Aki elmegy.

Szeretem a beteg rózsákat,
Hervadva ha vágynak, a nőket,
A sugaras, a bánatos
Osz-időket.

Szeretem a szomorú órák
Kisértetes, intő hivását,
A nagy Halál, a szent Halál
Játszi mását.

Szeretem az elutazókat,
Sírokat és fölébredőket,
S dér-esős, hideg hajnalon
A mezőket.

Szeretem a fáradt lemondást,
Könnyeden sírást és a békét,
Bölcsek, poéták, betegek
Menedékét.

Szeretem azt, aki csalódott,
Aki rokkant, aki megállóit,
Aki nem hisz, aki borús:
A világot.

Én a Halál rokona vagyok,
Szeretem a tűnő szerelmet,
Szeretem megcsókolni azt,
Aki elmegy.

Endre Ady

da “Vér es arany”, Franklin-Társulat, Budapest, 1908