L’Irreale – Oscar Vladislas de Lubicz Milosz

Foto di Anka Zhuravleva

 

Lascia dormire fra le mie mani la tua dolce testa:
Giugno delle rovine arde nei tuoi capelli biondi,
Liane, vecchio sole sul luppolo.
La tua bocca è un papavero sul muro che presta
La sua vecchia ombra ammuffita ai vagabondi.

Un canto di pescatori nel malva dei mari
È per me la tua voce assopita,
La voce tua, amica invisibile e pensosa.
Il tuo cuore è il letto fiorito dei dolci ieri,
La campana mite e sorda della bonaccia.

Un cielo di paese morto da gran tempo
Canta nei tuoi occhi – un cielo di povera terra
Dove la pallida Annabel e Guy de Vere
E d’Elormie sentono nei forti venti
Risuonare tenue Ottobre dal cimitero.

E cosa importa che tu sia irreale?
Di quelle che non sono mai esistite?
La mia solitudine di giardini antichi e amati
È meno affascinante o meno bella
Del tuo autunno dalle foglie in fiamme?

Oscar Vadislas de Lubicz Milosz

(Traduzione di Massimo Rizzante)

da “O.V. de L. Milosz, Sinfonia di Novembre e altre poesie”, Adelphi, Milano, 2008

∗∗∗

L’Irréelle

Laisse en mes mains dormir ta douce tête:
Juin des ruines brûle en tes cheveux blonds,
Lianes, soleil vieux sur les houblons.
Ta bouche est le pavot du mur qui prête
Sa vieille ombre moisie aux vagabonds.

Un chant de pêcheurs au mauve des mers
Voilà ce que m’est ta voix endormie,
Ta voix, invisible et pensive amie.
Ton cœur est le lit de fleurs des doux hiers,
La cloche tiède et sourde d’accalmie.

Un ciel de pays mort depuis longtemps
Chante en tes yeux, – un ciel de pauvre terre
Où la pâle Annabel et Guy de Vere
Et d’Elormie entendent aux grands vents
Sonner doux Octobre du cimetière.

Et qu’importe que tu sois irréelle
Et de celles qui ne furent jamais?
Ma solitude aux vieux jardins aimés
En est-elle moins charmeuse ou moins belle
Ton automne aux feuillages enflammés?

Oscar Vadislas de Lubicz Milosz

da “O.V. de L. Milosz, Œuvres complètes”, Vol. I, II, XII, Paris, Éditions André Silvaire, 1958

Due barche – Yves Bonnefoy


Ruth Bernhard, Nude Study, 1950s

 

Il temporale fino a tardi, il letto sfatto,
La finestra che sbatte nella calura,
E nella febbre il sangue: riprendo
La mano prossima al sogno, la caviglia
Trattenuta al suo anello di barca
Contro un pontile, in una schiuma, riprendo
Anche lo sguardo, la bocca, all’assenza, e tutto
Il brusco ridestarsi nell’estate di notte
Per condurvi, e finirlo, il temporale.
– Dovunque tu sia quando ti prendo oscura
E più ampio è in noi quel rumore di mare,
Accetta d’essere l’indifferenza, fa’ che io stringa,
Secondo l’esempio del Dio cieco, la più deserta
Materia ancora nella notte.
Tu accoglimi intensa ma distratta,
Fa’ che non abbia volto, fa’ che non abbia nome,
Affinché, ladro, possa donarti di più,
E straniero l’esilio, in te, in me,
Si trasmuti in origine… – Oh sì, accetto, e tuttavia
Nello scordarti io sono con te.
Se tu dischiudi le mie dita,
Se delle mie palme tu formi una coppa,
Io bevo accanto alla tua sete, e lascio
Che l’acqua scorra sulle nostre membra.
Acqua che, noi non essendo, fa che siamo,
Acqua che attraversa gli aridi corpi
Per una gioia sparsa nell’enigma,
Presentimento, tuttavia! Ricordi?
Percorrevamo i campi sbarrati di pietra,
E a un tratto la cisterna, due presenze,
In qual altro paese di un’estate deserta?
Si chinano, guarda, come noi,
Noi, siamo, ch’essi ascoltano? noi di cui parlano
Sorridendo
Sotto il fogliame dell’albero primigenio,
Nella luce felice, un po’ velata?
Dimmi, non sembra che un bagliore diverso
Vacilli nell’accordo dei due visi
E, ridente, li unisca? Vedi, l’acqua s’intorbida
Ma le forme ne sono più pure, consumate.
Qual dei due mondi sia il vero, poco importa.
Tu inventami, tu forse raddoppiami,
Sui confini di questa
Favola straziata.

Io ascolto, io acconsento,
Poi scosto il braccio che si è ripiegato
A sottrarre la faccia luminosa.
Le sfioro la bocca con le mie labbra,
Scomposta, frantumata, tutta un mare.
Come Iddio sole nascente sono curvo
Sull’acqua ove fiorisce la nostra somiglianza,
Mormoro: Questo è dunque ciò che vuoi,
Potenza inappagata errante nei mondi,
Radunarti, una vita, nel vaso
Di nuda terra del nostro essere uguali?
Ed è vero, per un attimo tutto è silenzio,
Sembra che il tempo stia per sostare
Quasi esitando sul proprio cammino,
Di là dall’òmero terrestre intento
A ciò che non possiamo, o non vogliamo, vedere.
Non romba più il tuono nel cielo placato,
Il maroso non scavalca più il tetto,
Il battente, che si urtava al nostro sogno,
Tace reclino sull’anima di ferro.
Sto in ascolto, qual rumore non so, mi alzo,
Cerco nell’ombra ancora, e vi ritrovo
Semivuoto il bicchiere di ieri sera.
Lo prendo, ne esala il nostro respiro,
Con la tua sete oscura tu lo tocchi,
E quando, tiepida, bevo l’acqua ove furono
Le tue labbra, è come se il tempo
S’interrompesse sulle mie. E i miei occhi
Si aprissero alla luce, finalmente.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Dammi senza ritorno la tua mano, acqua incerta
Che giorno e poi giorno avrò disimpietrata
Dai sogni che nella luce indugiano
E dal malvagio desiderio d’infinito.
Che il bene della fonte non si perda
Nell’istante in cui la fonte è ritrovata,
E non si dividano ancor una volta
Le lontananze dall’accanto, sotto la falce
Dell’acqua non prosciugata, no, però insapore!
Dammi la mano, precedimi nell’estate mortale
Con questo rumore di luce mutata,
Annienta te stessa me annientando, in luce.

E le immagini, i mondi, le impazienze,
I desideri ignari di saper snodare,
Di seno oscuro misteriosa bellezza, dalle mani
Frangiate di luce tuttavia,
Il ridere, gli incontri sui sentieri,

I richiami, i doni, i consensi,
Senza fine domande, e il nascere, insensato,
Le alleanze perenni e quelle frettolose,
Le miracolose promesse inadempiute
Ma tardi, subitàneo, l’insperato:
La rosa dell’acqua che passa lo raduni
Qui, in sé scavando, e lo rischiari
All’immobile mozzo della ruota.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Pace, sull’acqua illuminata. Si direbbe che una barca
Stia passando, greve di frutti; e un’onda
Di sufficienza, o d’immobilità,
Sollevi il nostro luogo e questa vita
Come una barca diversa appena, ancor legata.
Abbi fiducia e lasciati prendere, òmero nudo,
Dall’onda, sempre più ampia, di un’infinita estate.
Dormi, è questa, l’estate; ed è notte
Per eccesso di luce; e sta per lacerarsi,
Perenne, la notte nostra. Si chinerà
Su di noi l’Egizia sorridente.

Pace, sul flutto che scorre. Il tempo scintilla.
Sembra ormai che la barca sia ferma.
Si ode soltanto buttarsi, sgretolarsi,
L’acqua sul fianco deserto, all’infinito.

 

 

Il fuoco, le sue gioie di linfa straziata,
La pioggia, o forse soltanto un vento sui tegoli.
Tu cerchi il soprabito dell’anno scorso.
Prendi le chiavi, esci all’aperto, una stella risplende.

Va’ lontano, nelle vigne
Verso la montagna di Vachères.
Sarà più rapido il cielo
All’alba.

Un cerchio
In cui tuona l’indifferenza.
Luce,
Al posto di Dio.

Guarda! quasi una fiamma,
Nel mastello dell’acqua di pioggia notturna.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Nel sogno, tuttavia,
Nell’altro fuoco oscuro ravvivato,
Andava un’ancella con un lume
Lontano avanti a noi. Rossa la luce
Ruscellante
Fra le pieghe della veste sulla gamba
Fino alla neve.

Disseminate, le stelle.
Il cielo, un letto sfatto, un nascere.

E il mandorlo, ingrossato
Dopo due anni: il fluire,
In un più oscuro braccio, dello stesso fiume.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

O mandorlo in fiore,
Notte mia senza fine,
Abbi fiducia, appoggiati, infante
A questa folgore.

Ramo del qui arso d’assenza, bevi
Ai tuoi fiori d’un attimo nel cielo che muta.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Sono uscito
In un altro universo. Era prima
Dell’alba.
Ho buttato un po’ di sale sulla neve.

Yves Bonnefoy

(Traduzione di Diana Grange Fiori)

da “Nell’insidia della soglia” (1965), in “Yves Bonnefoy, L’opera poetica”, “I Meridiani” Mondadori, 2010

La prima lunga strofa appare come un intenso discorso amoroso che l’io rivolge al «toi», l’amata. Anche l’ambiente, nel simmetrico battito della «fenêtre» e del «sang», è in preda a una tensione febbrile e passionale che una serie prolungata di sineddoche corporee, dalla «cheville» alla «bouche», avvince in un crescendo sensuale («que j’étreigne») il quale dapprima chiede accettazione («Accueille-moi») e accoglie «l’étranger» («Oh, je veux bien»), finché riappare l’immagine della «coupé» il cui contenuto, scorrendo sulle membra degli amanti, ne sancisce ritualmente l’unione. Qui l’acqua, elemento originario e purificante, è motivo di gioia, malgrado l’enigma, e s’apre all’elegia-«fable» di un «autre pays» che, per il ricorso al «premier arbre», fa pensare ad Adamo (nome che, non a caso, in ebraico vuol dire “rosso”, cfr. Lanςon, Alchimie et couleur dans l’œuvre d’Yves Bonnefoy cit., p. 103, nota 101) ed Eva nel Paradiso (cfr. Une variante de la sortie du jardin e Une autre variante, LCA). Nella seconda strofa, la ritualità nuziale del consenso («J’écoute, je consens»), è rinnovata dal bacio sulle labbra e dalla «ressemblance» che attribuisce all’io poetico una «natura demiurgica, perfino divina» dove riecheggia la Genesi I, 2 (Jackson 1978, p. 311), in un arresto del tempo in cui si placa la furia degli elementi e il cui risveglio rinnova, per metonimia, il rito del bere al bicchiere «où furent tes lèvres».
Le strofe successive, nella personificazione dell’«eau incertaine» cui l’io chiede la mano, intendono rafforzare, attraverso una sintassi ossimorica («lointains» versus «proche»), l’idea della «source» originaria e separare il sogno dalla realtà della finitudine: per questo il «désir de l’infini» è «mauvais» e «l’été» è «mortel» e, in uno dei versi più intensi, per via del poliptoto e dell’allitterazione delle “d”, delle “m”, delle “s” e delle “l”, «Dissipe-toi Me dissipant Dans La LuMière», all’infinità è opposta l’idea di annientamento. Da «Les images, les mondes» a «Les promesses miraculeuses», tramite serie asindetiche di nomi plurali, il testo sembra voler dare, per accumulazione, l’idea di mondi umani mossi da un continuo intersecarsi di incontri e slanci il cui moto contrasta con il «moyeu immobile de la roue».
Le ultime due strofe sono caratterizzate dalle parole chiave «Paix» e «confìance», a indicare, nel parallelismo fra «barque» e «vie», come la vita comune scorra nelle quiete sere estive, sotto lo sguardo rassicurante dell’«Égyptienne», che nell’isiaca luce salvifica dell’«eau infime», emanazione dell’«été sans fin», avvolge gli amanti di una luce aurorale e senza tempo.
La parte conclusiva del testo, quella che ha inizio con «Le feu, ses joies de sève déchirée», singolarmente non è preceduta dalle file di puntini:
Si tratta di un’ambiguità voluta: non è un’altra poesia, ma una
“ripresa” con una sorta di distacco.
Propone una prima quartina nella quale gli elementi naturali, l’acqua della pioggia e il fuoco, pare prendano il posto di Dio, e divengano cose-dèi («De la lumière / À la place de Dieu»). Qui non si sa se il «tu» designi l’amata o se sia una proiezione pronominale dell’io poetico che parla a se stesso, in minimi gesti quotidiani, madidi di una luce che è epifania di una «naissance», della quale l’«amandier en fleurs» è metafora naturale concreta, che prefigura l’altro universo. Il sale è in alchimia sostanza misteriosa che combina acqua e fuoco (Lanςon, Alchimie et couleur dans l’œuvre d’Yves Bonnefoy cit., p. 76). Vachères è una località che l’Autore intravedeva all’orizzonte dalle finestre di Valsaintes. (Fabio Scotto)

∗∗∗

Deux barques

L’orage qui s’attarde, le lit défait,
La fenêtre qui bat dans la chaleur
Et le sang dans sa fièvre: je reprends
La main proche à son rêve, la cheville
À son anneau de barque retenue
Contre un appontement, dans une écume,
Puis le regard, puis la bouche à l’absence
Et tout le brusque éveil dans l’été nocturne
Pour y porter l’orage et le finir.
— Où que tu sois quand je te prends obscure,
S’étant accru en nous ce bruit de mer,
Accepte d’être l’indifférence, que j’étreigne
À l’exemple de Dieu l’aveugle la matière
La plus déserte encore dans la nuit.
Accueille-moi intensément mais distraitement,
Fais que je n’aie pas de visage, pas de nom
Pour qu’étant le voleur je te donne plus
Et l’étranger l’exil, en toi, en moi
Se fasse l’origine… — Oh, je veux bien,
Toutefois, t’oubliant, je suis avec toi,
Desserres-tu mes doigts,
Formes-tu de mes paumes une coupe,
Je bois, près de ta soif,
Puis laisse l’eau couler sur tous nos membres.
Eau qui fait que nous sommes, n’étant pas,
Eau qui prend au travers des corps arides
Pour une joie éparse dans l’énigme,
Pressentiment pourtant! Te souviens-tu,
Nous allions par ces champs barrés de pierre,
Et soudain la citerne, et ces deux présences
Dans quel autre pays de l’été désert?
Regarde comme ils se penchent, eux comme nous,
Est-ce nous qu’ils écoutent, dont ils parlent,
Souriant sous les feuilles du premier arbre
Dans leur lumière heureuse un peu voilée?
Et ne dirait-on pas qu’une lueur
Autre, bouge dans cet accord de leurs visages
Et, riante, les mêle? Vois, l’eau se trouble
Mais les formes en sont plus pures, consumées.
Quel est le vrai de ces deux mondes, peu importe.
Invente-moi, redouble-moi peut-être
Sur ces confins de fable déchirée.

J’écoute, je consens,
Puis j’écarte le bras qui s’est replié,
Me dérobant la face lumineuse.
Je la touche à la bouche avec mes lèvres,
En désordre, brisée, toute une mer.
Comme Dieu le soleil levant je suis voûté
Sur cette eau où fleurit notre ressemblance,
Je murmure: C’est donc ce que tu veux,
Puissance errante insatisfaite par les mondes.
Te ramasser, une vie, dans le vase
De terre nue de notre identité?
Et c’est vrai qu’un instant tout est silence,
On dirait que le temps va faire halte
Comme s’il hésitait sur le chemin,
Regardant par-dessus l’épaule terrestre
Ce que nous ne pouvons ou ne voulons voir.
Le tonnerre ne roule plus dans le ciel calme.
L’ondée ne passe plus sur notre toit,
Le volet, qui heurtait à notre rêve,
Se tait courbé sur son âme de fer.
J’écoute, je ne sais quel bruit, puis je me lève
Et je cherche, dans l’ombre encore, où je retrouve
Le verre d’hier soir, à demi plein.
Je le prends, qui respire à notre souffle,
Je te fais le toucher de ta soif obscure,
Et quand je bois l’eau tiède où furent tes lèvres,
C’est comme si le temps cessait sur les miennes
Et que mes yeux s’ouvraient, à enfin le jour.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Donne-moi ta main sans retour, eau incertaine
Que j’ai désempierrée jour après jour
Des rêves qui s’attardent dans la lumière
Et du mauvais désir de l’infini.
Que le bien de la source ne cesse pas
À l’instant où la source est retrouvée,
Que les lointains ne se séparent pas
Une nouvelle fois du proche, sous la faux
De l’eau non plus tarie mais sans saveur!
Donne-moi ta main et précède-moi dans l’été mortel
Avec ce bruit de lumière changée,
Dissipe-toi me dissipant dans la lumière.

Les images, les mondes, les impatiences,
Les désirs qui ne savent pas, bien qu’ils dénouent,
La beauté mystérieuse au sein obscur,
Aux mains frangées pourtant d’une lumière,
Les rires, les rencontres sur des chemins,

Et les appels, les dons, les consentements,
Les demandes sans fin, naître, insensé,
Les alliances éternelles et les hâtives,
Les promesses miraculeuses non tenues
Mais, tard, l’inespéré, soudain: que tout cela
La rose de l’eau qui passe le recueille
En se creusant ici, puis l’illumine
Au moyeu immobile de la roue.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Paix, sur l’eau éclairée. On dirait qu’une barque
Passe, chargée de fruits; et qu’une vague
De suffisance, ou d’immobilité,
Soulève notre lieu et cette vie
Comme une barque à peine autre, liée encore.
Aie confiance, et laisse-toi prendre, épaule nue,
Par l’onde qui s’élargit de l’été sans fin,
Dors, c’est le plein été; et une nuit
Par excès de lumière; et va se déchirer
Notre éternelle nuit; va se pencher
Souriante sur nous l’Égyptienne.

Paix, sur le flot qui va. Le temps scintille.
On dirait que la barque s’est arrêtée.
On n’entend plus que se jeter, se désunir,
Contre le flanc désert l’eau infinie.

 

 

Le feu, ses joies de sève déchirée.
La pluie, ou rien qu’un vent peut-être sur les tuiles.
Tu cherches ton manteau de l’autre année.
Tu prends les clefs, tu sors, une étoile brille.
 
Éloigne-toi
Dans les vignes, vers la montagne de Vachères.
À l’aube
Le ciel sera plus rapide.
 
Un cercle
Où tonne l’indifférence.
De la lumière
À la place de Dieu.
 
Presque du feu, vois-tu,
Dans le baquet de l’eau de la pluie nocturne.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Dans le rêve, pourtant,
Dans l’autre feu obscur qui avait repris,
Une servante allait avec une lampe
Loin devant nous. La lumière était rouge
Et ruisselait
Dans les plis de la robe contre la jambe
Jusqu’à la neige.
 
Étoiles, répandues.
Le ciel, un lit défait, une naissance.
 
Et l’amandier, grossi
Après deux ans : le flot
Dans un bras plus obscur, du même fleuve.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Ô amandier en fleurs,
Ma nuit sans fin,
Aie confiance, appuie-toi enfant
À cette foudre.
 
Branche d’ici, brûlée d’absence, bois
De tes fleurs d’un instant au ciel qui change.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Je suis sorti
Dans un autre univers. C’était
Avant le jour.
J’ai jeté du sel sur la neige.

Yves Bonnefoy

da “Dans le leurre du seuil” 1975, in “Poèmes (1945-1974)”, Mercure de France, 1978

La patria – Julio Cortázar

Ulf Andersen, Julio Cortazar

 

Questa terra sugli occhi,
questo panno appiccicoso, nero di stelle impassibili,
questa notte continua, questa distanza.
Ti amo, paese buttato a mare, pesce a pancia in su,
povera ombra di paese, pieno di venti,
di monumenti e gigionate,
di orgoglio senza oggetto, soggetto ad assalti,
preso a sputi ubriaco inoffensivo che impreca e sventola bandierine,
distribuisce coccarde sotto la pioggia, e schizza
di bava e stupore campi di calcio e ring.

Poveri negri.

Stai bruciando a fuoco lento, e dov’è il fuoco,
dov’è chi si mangia la carne e ti tira gli ossi?
Delinquenti, gagà, signori e papponi,
deputati, oche dal doppio cognome,
grassone che lavorano a maglia nell’atrio, maestre, parroci, notai.
centravanti, pesi leggeri. Fangio da solo, primi tenenti,
colonnelli. generali, marinai, sanità, carnevali, vescovi,
bagualas, chamamés, malambos, mambi, tanghi,
segreterie, sottosegreterie, capi. controcapi, partite a truco con rilanci. E che cazzo,
se la casetta era il suo sogno, se lo hanno ucciso in una rissa,
se prendi, intaschi e porti via

Liquidazione forzata, svendita totale.

Ti amo, paese gettato sul marciapiede, scatola di fiammiferi vuota,
ti amo, secchio della spazzatura che si portano via su un affusto di cannone
avvolto nella bandiera che ci ha lasciato Belgrano,
mentre le vecchie piangono alla veglia, e il mate scorre
con il suo verde conforto, lotteria del povero,
e in ogni appartamento c’è qualcuno che è nato facendo discorsi
per qualcun altro che è nato per  ascoltarli e spellarsi le mani.
Poveri negri che accumulano voglia di essere bianchì,
poveri bianchi che vivono un carnevale da negri,
che totocalcio, fratello mio, a Boedo, alla Boca,
a Palermo e a Barracas, sui ponti, fuori,
nei ranchos che arrestano il sudiciume della pampa,
nelle case imbiancate dal silenzio del nord,
nelle lamiere zincate dove il freddo si struscia,
nella Plaza de Mayo dove è di ronda la morte vestita da Menzogna.
Ti amo, paese nudo che sogna uno smoking,
vicecampione del mondo in ogni cosa, in tutto ciò che si presenta,
terza posizione, energia nucleare, giustizialismo, vacche,
tango, coraggio, pugni, arguzia ed eleganza.
Così triste nel più profondo del grido, così malridotto
nel meglio della baldoria, così baldanzoso al momento dell’autopsia.
Ma ti amo, paese di fango, e anche altri ti amano, e qualcosa
nascerà da questo sentimento. Oggi è distanza, fuga,
non ti immischiare, che ci vuoi fare, dai che ce la fai, pazienza.
La terra fra le dita, l’immondizia negli occhi,
essere argentini è essere tristi,
essere argentini è essere lontani.
E non dire: domani,
perché basta essere debole adesso.
Mentre nascondo la faccia
(il poncho te lo lascio, folclorista imbecille)
ricordo una stella in piena campagna,
ricordo un’alba sull’altopiano,
Tilcara un pomeriggio, Paraná fragrante,
Tupungata aspra, un volo di fenicotteri
che bruciavano un orizzonte di paludi.
Ti amo, paese, fazzoletto sporco, con le tue vie
piene di manifesti peronisti, ti amo
senza speranza e senza rimedio, senza ritorno e senza diritto,
solo da lontano e amareggiato e di notte.

Julio Cortázar

(Traduzione di Eleonora Mogavero)

da “Il giro del giorno in ottanta mondi”, Alet, 2006

∗∗∗

La patria

Esta tierra sobre los ojos,
este paño pegajoso, negro de estrellas impasibles,
esta noche continua, esta distancia.
Te quiero, país tirado más abajo del mar, pez panza arriba,
pobre sombra de país, lleno de vientos,
de monumentos y espamentos,
de orgullo sin objeto, sujeto para asaltos,
escupido curdela inofensivo puteando y sacudiendo banderitas,
repartiendo escarapelas en la lluvia, salpicando
de babas y estupor canchas de fútbol y ringsides.

Pobres negros.

Te estás quemando a fuego lento, y dónde el fuego,
dónde el que come los asados y te tira los huesos.
Malandras, cajetillas, señores y cafishos,
diputados, tilingas de apellido compuesto,
gordas tejiendo en los zaguanes, maestras normales, curas, escribanos,
centroforwards, livianos, Fangio solo, tenientes primeros,
coroneles, generales, marinos, sanidad, carnavales, obispos,
bagualas, chamamés, malambos, mambos, tangos,
secretarías, subsecretarías, jefes, contrajefes, truco,
contraflor al resto. Y qué carajo,
si la casita era su sueño, si lo mataron en
pelea, si usted lo ve, lo prueba y se lo lleva.

Liquidación forzosa, se remata hasta lo último.

Te quiero, país tirado a la vereda, caja de fósforos vacía,
te quiero, tacho de basura que se llevan sobre una cureña
envuelto en la bandera que nos legó Belgrano,
mientras las viejas lloran en el velorio, y anda el mate
con su verde consuelo, lotería del pobre,
y en cada piso hay alguien que nació haciendo discursos
para algún otro que nació para escucharlos y pelarse las manos.
Pobres negros que juntan las ganas de ser blancos,
pobres blancos que viven un carnaval de negros,
qué quiniela, hermanito, en Boedo, en la Boca,
en Palermo y Barracas, en los puentes, afuera,
en los ranchos que paran la mugre de la pampa,
en las casas blanqueadas del silencio del norte,
en las chapas de zinc donde el frío se frota,
en la Plaza de Mayo donde ronda la muerte trajeada de Mentira.
Te quiero, país desnudo que sueña con un smoking,
vicecampeón del mundo en cualquier cosa, en lo que salga,
tercera posición, energía nuclear, justicialismo, vacas,
tango, coraje, puños, viveza y elegancia.
Tan triste en lo más hondo del grito, tan golpeado
en lo mejor de la garufa, tan garifo a la hora de la autopsia.
Pero te quiero, país de barro, y otros te quieren, y algo
saldrá de este sentir. Hoy es distancia, fuga,
no te metás, qué vachaché, dale que va, paciencia.
La tierra entre los dedos, la basura en los ojos,
ser argentino es estar triste,
ser argentino es estar lejos.
Y no decir: mañana,
porque ya basta con ser flojo ahora.
Tapándome la cara
(el poncho te lo dejo, folklorista infeliz)
me acuerdo de una estrella en pleno campo,
me acuerdo de un amanecer de puna,
de Tilcara de tarde, de Paraná fragante,
de Tupungato arisca, de un vuelo de flamencos
quemando un horizonte de bañados.
Te quiero, país, pañuelo sucio, con tus calles
cubiertas de carteles peronistas, te quiero
sin esperanza y sin perdón, sin vuelta y sin derecho,
nada más que de lejos y amargado y de noche.

Julio Cortázar

da “La vuelta al día en ochenta mundos”, Siglo Veintiuno, 2005

Milonga – Julio Cortázar

Ulf Andersen, Julio Cortazar

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimpiango la Croce del Sud
quando la sete mi fa alzare la testa
per bere il tuo vino nero mezzanotte.
E rimpiango gli angoli con i magazzini sonnolenti
dove il profumo dell’erba trema nella pelle dell’aria.

Capire che tutto questo è sempre lì
come una tasca dove di continuo
la mano cerca una moneta il temperino il pettine
la mano instancabile di una oscura memoria
che riconta i suoi morti.

La Croce del Sud il mate amaro.
E le voci di amici
che parlano con altri.

Julio Cortázar

(Traduzione di Eleonora Mogavero)

da “Il giro del giorno in ottanta mondi”, Alet, 2006

∗∗∗

Milonga

El Tata Cedrón cantó esta milonga
con música de Edgardo Cantón.

Extraño la Cruz del Sur
cuando la sed me hace alzar la cabeza
para beber tu vino negro medianoche.
Y extraño las esquinas con almacenes dormilones
donde el perfume de la yerba tiembla en la piel del aire.

Comprender que eso está siempre allá
como un bolsillo donde a cada rato
la mano busca una moneda el cortapluma el peine
la mano infatigable de una oscura memoria
que recuenta sus muertos.

La Cruz del Sur el mate amargo.
Y las voces de amigos
usándose con otros.

Julio Cortázar

da “La vuelta al día en ochenta mundos”, Siglo Veintiuno, 2005

Nell’inganno delle parole – Yves Bonnefoy

È il sonno d’estate quest’anno ancora,
L’oro che chiediamo, dal fondo delle nostre voci,
Alla trasmutazione dei metalli del sogno.
Il grappolo delle montagne, delle cose vicine,
È maturato, è quasi il vino, la terra
È il seno nudo in cui la nostra vita riposa.
E respiri ci circondano, ci accolgono,
Come la notte d’estate, che non ha rive,
Di ramo in ramo passa il fuoco lieve.
Amica mia, è qui nuovo cielo, nuova terra,
Un fumo incontra un fumo
Al di sopra della disgiunzione dei due bracci del fiume.

E l’usignolo canta una volta ancora
Prima che il nostro sogno ci prenda,
Ha cantato quando s’addormentava Ulisse
Nell’isola in cui faceva tappa la sua erranza,
E anche chi arrivava acconsentì al sogno,
Fu come un brivido della sua memoria
Per l’intero suo braccio d’esistenza sulla terra
Che aveva ripiegato sotto la sua testa stanca.
Penso che respirò d’un fiato eguale
Sul giaciglio del suo piacere poi del riposo,
Ma Venere nel cielo, la prima stella,
Volgeva già la prua, benché esitante,
Verso l’alto mare, sotto nubi,
Poi derivava, barca il cui vogatore
Avesse dimenticato, gli occhi ad altre luci,
D’immergere di nuovo il remo nella notte.

E per la grazia di quel sogno cosa vide?
Che fosse la linea bassa di una riva
Ove sarebbero state chiare delle ombre, chiara la loro notte
A causa di fuochi altri da quelli che ardono
Nelle nebbie delle nostre domande, successive
Durante la nostra avanzata nel sonno?
Siamo navi grevi di noi stessi,
Traboccanti di cose chiuse, guardiamo
Alla prua del nostro periplo tutta un’acqua nera
Aprirsi quasi e ritrarsi, per sempre senza lido.
Lui comunque, nelle pieghe del canto triste
Dell’usignolo dell’isola casuale,
Pensava già a riprendere il suo remo
Una sera, quando sarebbe sbiancata di nuovo la schiuma,
Per dimenticare forse tutte le isole
Su un mare in cui cresce una stella.

Andare così, con lo stesso oriente
Al di là delle immagini ciascuna delle quali
Ci lascia alla febbre del desiderare,
Andare fiduciosi, perderci, riconoscerci
Attraverso la bellezza dei ricordi
E la menzogna dei ricordi, attraverso il tormento
Di alcuni, ma anche la felicità
D’altri, il cui fuoco corre nel passato in cenere,
Nube rossa in piedi al frangente delle spiagge,
O delizia dei frutti che non abbiamo più,
Andare, per l’al di là quasi del linguaggio,
Con soltanto un po’ di luce, è possibile
O non è altro che l’illusorio ancora,
Di cui ridisegniamo sotto altri tratti
Ma iridati dello stesso ingannevole bagliore
La forma nelle ombre che si condensano?
Ovunque in noi soltanto l’umile menzogna
Delle parole che offrono più di quel che è
O dicono cosa altra da quel che è,
Le sere non tanto della bellezza che tarda
A lasciare una terra che ha amato,
Plasmandola con le sue mani di luce,
Quanto della massa d’acqua che di notte in notte
Precipita con gran fragore nel nostro avvenire.

Noi mettiamo i nostri piedi nudi nell’acqua del sogno,
È tiepida, non sappiamo se sia un risveglio
O se la folgore lenta e calma del sonno
Già tracci i suoi segni in rami
Che un’inquietudine scuote, poi è troppo scuro
Perché vi si riconoscano figure
Che questi alberi scostano, davanti ai nostri passi.
Noi avanziamo, l’acqua sale alle nostre caviglie,
O sogno della notte, prendi quello del giorno
Nelle tue mani amorose, volgi verso te
La sua fronte, i suoi occhi, ottieni con dolcezza
Che il suo sguardo si fonda al tuo, più saggio,
Per un sapere che non laceri più
La disputa tra il mondo e la speranza,
E che unità prenda e conservi la vita
Nella quiete della schiuma, dove si riflette,
Sia bellezza, nuovamente, sia verità, le stesse
Stelle che s’accrescono nel sonno.

Bellezza, sufficiente bellezza, bellezza estrema
Delle stelle senza significato, senza movimento.
A poppa sta il nocchiero, più grande del mondo,
Più nero, ma di un’opacità fosforescente.
Il lieve sciacquio dell’acqua appena agitata,
Si fa presto silenzio. E non sappiamo ancora
Se è un nuovo lido, o lo stesso mondo
Che nelle pieghe febbrili del letto terrestre,
Questa sabbia che sentiamo stridere sotto la prua.
Non sappiamo se approdiamo a un’altra terra,
Non sappiamo se mani non si tendano
Dal grembo dell’ignoto accogliente per afferrare
La corda che lanciamo, dalla nostra notte.

E domani, al risveglio,
Forse le nostre vite saranno più fiduciose
In cui voci e ombre indugeranno,
Ma distolte, calme, disattente,
Senza guerra, senza rimprovero, mentre
Il bambino accanto a noi, sul sentiero,
Scuoterà ridendo la sua testa immensa,
Guardandoci con la goffaggine
Della mente che riprende alla sua origine
Il suo compito di luce nell’enigma.

Sa ancora ridere,
Ha afferrato nel cielo un grappolo troppo greve,
Lo vediamo portarlo via nella notte.
Il vendemmiatore, colui che forse coglie
Altri grappoli lassù nell’avvenire,
Lo guarda passare, benché senza volto.
Affidiamolo alla benevolenza della sera d’estate,
Addormentiamoci…

                                        … La voce che ascolto si perde,
Il rumore di fondo che è nella notte la copre.
Le assi della prua, incurvate
Per dar forma alla mente sotto il peso
Dell’ignoto, dell’impensabile, si allentano.
Che mi dicono questi scricchiolii, che spezzano
I pensieri attestati dalla speranza?
Ma il sonno si fa indifferenza.
Le sue luci, le sue ombre: più nient’altro che
Un’onda che s’infrange sul desiderio.

II

E potrei
Fra poco, al sussulto del brusco risveglio,
Dire o tentare di dire il tumulto
Degli artigli e delle risa che si scontrano
Con l’avidità senza gioia delle vite primarie
Al bordo sconnesso della parola.
Potrei gridare che ovunque sulla terra
Ingiustizia e sciagura devastano il senso
Che la mente ha sognato di dare al mondo,
Insomma, ricordarmi di ciò che è,
Non essere che la lucidità che dispera
E, benché sia ritorta
Ai rami del giardino di Armida la chimera
Che inganna la ragione quanto il sogno,
Abbandonare le parole a chi cancella,
Prosa, per evidenza della materia,
L’offerta della bellezza nella verità,

Ma mi sembra anche che non sia reale
Che la voce che spera, fosse essa
Inconsapevole delle leggi che la negano.
Reale, solo, il fremito della mano che tocca
La promessa di un’altra, reali, sole,
Queste barriere che spingiamo nella penombra,
Quando si fa sera, di un sentiero di ritorno.
So tutto quello che occorre cancellare dal libro,
Una parola comunque resta a bruciarmi le labbra.

O poesia,
Non posso impedirmi di chiamarti
Con il tuo nome che non si ama più tra quelli che errano
Oggi tra le rovine della parola.
Oso rivolgermi a te, direttamente,
Come nell’eloquenza delle epoche
In cui si ponevano, alla vigilia dei giorni di festa,
In cima alle colonne dei saloni,
Ghirlande di foglie e di frutti.

Lo faccio, confidando che la memoria,
Insegnando le sue parole semplici a quelli che cercano
Di far essere il senso malgrado l’enigma,
Farà decifrare loro, sulle sue grandi pagine,
Il tuo nome uno e molteplice, in cui arderanno
In silenzio, un fuoco chiaro,
I sarmenti dei loro dubbi e delle loro paure.
«Guardate, lei dirà, nel solo libro
Che si scriva attraverso i secoli, vedete crescere
I segni nelle immagini. E le montagne
Inazzurrarsi in lontananza, per essere a voi terra.
Ascoltate la musica che delucida
Con il flauto sapiente alla vetta delle cose
Il suono del colore in ciò che è.»

O poesia,
Io so che ti disprezzano e ti negano,
Che ti considerano un teatro, perfino una menzogna,
Che ti gravano delle colpe del linguaggio,
Che dicono infetta l’acqua che tu porti
A quelli che tuttavia desiderano bere
E delusi si allontanano, verso la morte.

Ed è vero che la notte gonfia le parole,
Venti girano le loro pagine, fuochi sfiancano
Le loro bestie atterrite fin sotto ai nostri passi.
Abbiamo creduto che ci avrebbe condotto lontano
Il sentiero che si perde nell’evidenza,
No, le immagini cozzano contro l’acqua che sale,
La loro sintassi è incoerenza, cenere,
E presto nemmeno vi sono più immagini,
Più libro, più grande corpo caloroso del mondo
Che stringa le braccia del nostro desiderio.

Ma so comunque che non esiste altra stella
Che si muova, misteriosamente, auguralmente,
Nel cielo illusorio degli astri fissi,
Se non la tua barca sempre oscura, ma dove ombre
Si raggruppano a prua, e perfino cantano
Come un tempo quelli che arrivavano, quando s’ingrandiva
Davanti a loro, alla fine del lungo viaggio,
La terra nella schiuma, e brillava il faro.

E se rimane
Altro che un vento, uno scoglio, un mare,
Io so che tu sarai, anche di notte,
L’àncora gettata, i passi barcollanti sulla sabbia,
E la legna raccolta, e la scintilla
Sotto i rami umidi, e, nell’inquieta
Attesa della fiamma che esita,
La prima parola dopo il lungo silenzio,
Il primo fuoco che prenda in fondo al mondo morto.

Yves Bonnefoy

(Traduzione di Fabio Scotto)

da “Le assi curve”, in “Yves Bonnefoy, L’opera poetica”, “I Meridiani” Mondadori, 2010

∗∗∗

Dans le leurre des mots

I

C’est le sommeil d’été cette année encore,
L’or que nous demandons, du fond de nos voix,
À la transmutation des métaux du rêve.
La grappe des montagnes, des choses proches,
A mûri, elle est presque le vin, la terre
Est le sein nu où notre vie repose
Et des souffles nous environnent, nous accueillent.
Telle la nuit d’été, qui n’a pas de rives,
De branche en branche passe le feu léger.
Mon amie, c’est là nouveau ciel, nouvelle terre,
Une fumée rencontre une fumée
Au-dessus de la disjonction des deux bras du fleuve.

Et le rossignol chante une fois encore
Avant que notre rêve ne nous prenne,
Il a chanté quand s’endormait Ulysse
Dans l’île où faisait halte son errance,
Et l’arrivant aussi consentit au rêve,
Ce fut comme un frisson de sa mémoire
Par tout son bras d’existence sur terre
Qu’il avait replié sous sa tête lasse.
Je pense qu’il respira d’un souffle égal
Sur la couche de son plaisir puis du repos,
Mais Vénus dans le ciel, la première étoile,
Tournait déjà sa proue, bien qu’hésitante,
Vers le haut de la mer, sous des nuées,
Puis dérivait, barque dont le rameur
Eût oublié, les yeux à d’autres lumières,
De replonger sa rame dans la nuit.

Et par la grâce de ce songe que vit-il?
Fut-ce la ligne basse d’un rivage
Où seraient claires des ombres, claire leur nuit
À cause d’autres feux que ceux qui brûlent
Dans les brumes de nos demandes, successives
Pendant notre avancée dans le sommeil?
Nous sommes des navires lourds de nous-mêmes,
Débordants de choses fermées, nous regardons
À la proue de notre périple toute une eau noire
S’ouvrir presque et se refuser, à jamais sans rive.
Lui cependant, dans les plis du chant triste
Du rossignol de l’île de hasard,
Pensait déjà à reprendre sa rame
Un soir, quand blanchirait à nouveau l’écume,
Pour oublier peut-être toutes les îles
Sur une mer où grandit une étoile.

Aller ainsi, avec le même orient
Au-delà des images qui chacune
Nous laissent à la fièvre de désirer,
Aller confiants, nous perdre nous reconnaître
À travers la beauté des souvenirs
Et le mensonge des souvenirs, à travers l’affre
De quelques-uns, mais aussi le bonheur
D’autres, dont le feu court dans le passé en cendres,
Nuée rouge debout au brisant des plages,
Ou délice des fruits que l’on n’a plus.
Aller, par au-delà presque le langage,
Avec rien qu’un peu de lumière, est-ce possible
Ou n’est-ce pas que l’illusoire encore,
Dont nous redessinons sous d’autres traits
Mais irisés du même éclat trompeur
La forme dans les ombres qui se resserrent?
Partout en nous rien que l’humble mensonge
Des mots qui offrent plus que ce qui est
Ou disent autre chose que ce qui est,
Les soirs non tant de la beauté qui tarde
À quitter une terre qu’elle a aimée,
La façonnant de ses mains de lumière,
Que de la masse d’eau qui de nuit en nuit
Dévale avec grand bruit dans notre avenir.

Nous mettons nos pieds nus dans l’eau du rêve,
Elle est tiède, on ne sait si c’est de l’éveil
Ou si la foudre lente et calme du sommeil
Trace déjà ses signes dans des branches
Qu’une inquiétude agite, puis c’est trop sombres
Pour qu’on y reconnaisse des figures
Que ces arbres s’écartent, devant nos pas.
Nous avançons, l’eau monte à nos chevilles,
Ô rêve de la nuit, prends celui du jour
Dans tes deux mains aimantes, tourne vers toi
Son front, ses yeux, obtiens avec douceur
Que son regard se fonde au tien, plus sage,
Pour un savoir que ne déchire plus
La querelle du monde et de l’espérance,
Et qu’unité prenne et garde la vie
Dans la quiétude de l’écume, où se reflète,
Soit beauté, à nouveau, soit vérité, les mêmes
Étoiles qui s’accroissent dans le sommeil.

Beauté, suffisante beauté, beauté ultime
Des étoiles sans signifiance, sans mouvement.
À la poupe est le nautonier, plus grand que le monde,
Plus noir, mais d’une matité phosphorescente.
Le léger bruit de l’eau à peine troublée,
C’est, bientôt, le silence. Et on ne sait encore
Si c’est rive nouvelle, ou le même monde
Que dans les plis fiévreux du lit terrestre,
Ce sable qu’on entend qui crisse sous la proue.
On ne sait si on touche à une autre terre,
On ne sait si des mains ne se tendent pas
Du sein de l’inconnu accueillant pour prendre
La corde que nous jetons, de notre nuit.
Et demain, à l’éveil,
Peut-être que nos vies seront plus confiantes
Où des voix et des ombres s’attarderont,
Mais détournées, calmes, inattentives,
Sans guerre, sans reproche, cependant
Que l’enfant près de nous, sur le chemin,
Secouera en riant sa tête immense,
Nous regardant avec la gaucherie
De l’esprit qui reprend à son origine
Sa tâche de lumière dans l’énigme.

Il sait encore rire,
Il a pris dans le ciel une grappe trop lourde,
Nous le voyons l’emporter dans la nuit.
Le vendangeur, celui qui peut-être cueille
D’autres grappes là-haut dans l’avenir,
Le regarde passer, bien que sans visage.
Confions-le à la bienveillance du soir d’été,
Endormons-nous…

                                        … La voix que j’écoute se perd,
Le bruit de fond qui est dans la nuit la recouvre.
Les planches de l’avant de la barque, courbées
Pour donner forme à l’esprit sous le poids
De l’inconnu, de l’impensable, se desserrent.
Que me disent ces craquements, qui désagrègent
Les pensées ajointées par l’espérance?
Mais le sommeil se fait indifférence.
Ses lumières, ses ombres: plus rien qu’une
Vague qui se rabat sur le désir.

II

Et je pourrais
Tout à l’heure, au sursaut du réveil brusque,
Dire ou tenter de dire le tumulte
Des griffes et des rires qui se heurtent
Avec l’avidité sans joie des vies primaires
Au rebord disloqué de la parole.
Je pourrais m’écrier que partout sur terre
Injustice et malheur ravagent le sens
Que l’esprit a rêvé de donner au monde,
En somme, me souvenir de ce qui est,
N’être que la lucidité qui désespère
Et, bien que soit retorse
Aux branches du jardin d’Armide la chimère
Qui leurre autant la raison que le rêve,
Abandonner les mots à qui rature,
Prose, par évidence de la matière,
L’offre de la beauté dans la vérité.

Mais il me semble aussi que n’est réelle
Que la voix qui espère, serait-elle
Inconsciente des lois qui la dénient.
Réel, seul, le frémissement de la main qui touche
La promesse d’une autre, réelles, seules,
Ces barrières qu’on pousse dans la pénombre,
Le soir venant, d’un chemin de retour.
Je sais tout ce qu’il faut rayer du livre,
Un mot pourtant reste à brûler mes lèvres.

Ô poésie,
Je ne puis m’empêcher de te nommer
Par ton nom que l’on n’aime plus parmi ceux qui errent
Aujourd’hui dans les ruines de la parole.
Je prends le risque de m’adresser à toi, directement,
Comme dans l’éloquence des époques
Où l’on plaçait, la veille des jours de fête,
Au plus haut des colonnes des grandes salles,
Des guirlandes de feuilles et de fruits.

Je le fais, confiant que la mémoire,
Enseignant ses mots simples à ceux qui cherchent
À faire être le sens malgré l’énigme,
Leur fera déchiffrer, sur ses grandes pages
Ton nom un et multiple, où brûleront
En silence, un feu clair,
Les sarments de leurs doutes et de leurs peurs.
« Regardez, dira-t-elle, dans le seul livre
Qui s’écrive à travers les siècles, voyez croître
Les signes dans les images. Et les montagnes
Bleuir au loin, pour vous être une terre.
Écoutez la musique qui élucide
De sa flûte savante au faîte des choses
Le son de la couleur dans ce qui est. »

Ô poésie,
Je sais qu’on te méprise et te dénie,
Qu’on t’estime un théâtre, voire un mensonge,
Qu’on t’accable des fautes du langage,
Qu’on dit mauvaise l’eau que tu apportes
À ceux qui tout de même désirent boire
Et déçus se détournent, vers la mort.

Et c’est vrai que la nuit enfle les mots,
Des vents tournent leurs pages, des feux rabattent
Leurs bêtes effrayées jusque sous nos pas.
Avons-nous cru que nous mènerait loin
Le chemin qui se perd dans l’évidence,
Non, les images se heurtent à l’eau qui monte,
Leur syntaxe est incohérence, de la cendre,
Et bientôt même il n’y a plus d’images,
Plus de livre, plus de grand corps chaleureux du monde
À étreindre des bras de notre désir.

Mais je sais tout autant qu’il n’est d’autre étoile
À bouger, mystérieusement, auguralement,
Dans le ciel illusoire des astres fixes,
Que ta barque toujours obscure, mais où des ombres
Se groupent à l’avant, et même chantent
Comme autrefois les arrivants, quand grandissait
Devant eux, à la fin du long voyage,
La terre dans l’écume, et brillait le phare.

Et si demeure
Autre chose qu’un vent, un récif, une mer,
Je sais que tu seras, même de nuit,
L’ancre jetée, les pas titubants sur le sable,
Et le bois qu’on rassemble, et l’étincelle
Sous les branches mouillées, et, dans l’inquiète
Attente de la flamme qui hésite,
La première parole après le long silence,
Le premier feu à prendre au bas du monde mort.

Yves Bonnefoy

da “Les Planches courbes”, Mercure de France, 2001

«Les planches courbes » ont paru en première édition, avec des lithographies originales de Farhad Ostovani, aux Éditions des Arts et Lettres, Vevey, Suisse, en 1998