da «Anuarí» – Teresa Wilms Montt

Teresa Wilms Montt

IV

Dormi quieto, Anuarí. Io sarò sempre tua. Ho mutato il
mio corpo in un altare sacro alle tue carezze e alle tue
labbra, profondo altare di venerazione.

Io reco l’incisione della lama del tuo riso nel punto ove
poso i miei occhi; il tuo riso carnivoro, mordace, che
fa delle tue labbra un bocciolo di sangue, denso di
bianche, lucide semenze.

Anuarí, il tuo sorriso è scempio e distruzione che reca
morte ad ogni mia speranza, il tuo sorriso è per la mia
mente come il lampo che stride nella notte. Madreperla
e veleno distillati dentro il mio cuore per lasciarlo
inerte.

V

Anuarí,  io t’invoco addormentata e ti vedo in un sonno
senza fine. Un’ombra, sei, che sciama soavemente sul
mio pensiero, tenebra divina delle tue ciglia, conserte
come ali di farfalla, vellutata peluria alle tue occhiaie.

Sì, o mio Anuarí, una notte, la più beata notte della mia
vita, sulla mia spalla riposò il tuo volto, ed era così intimo
il piacere, che il mio respiro musicò il tuo sonno.

Ti addormentasti, mia dolce creatura, dopo aver aggrinzito
il mio cervello ed il mio cuore, con ansiose labbra
di gioventù, simile a un’ape lussuriosa di nettare e profumo,

e queste tenebre delle tue ciglia sono come cortine che mi
chiudono alla luce del sole e mi travolgono in confusa
vertigine alle soglie del tuo grave Paese. Sì, una notte,

la mia unica notte, la più lieta, si chinò sul mio seno la tua
fronte e vi raccolse il sogno delizioso ed il guanciale
dell’eternità.

VI

Dal profondo silenzio il tuo guardare evoco, e gli occhi…
e giaccio intirizzita. Benché chiusi da morte, sono simili
a un raggio che a un tratto si ridesta. In essi non
ancora appassita la forza dell’incanto.

Sono due fari azzurri, che mi svelano bagliori di magnifico
infinito; sono due stelle enormi e primitive, profondamente
fisse al mio dolore, che crivellando ne fan
grande l’orma sino ad aprire una breccia sconfinata
come un mondo. I tuoi occhi tanto amati, che furono
il riflesso di questa tua bellezza silenziosa, vivono
ancora dentro la mia mente, vita traendo dalla mia propria
vita, e lucendo del fiotto inestinguibile delle mie
lacrime, Anuarí. Così

come lo sguardo tuo m’incatenò alla vita, mi spinge adesso
alla tua sepoltura, provocando il mio grido di delirio.
Calamite i tuoi occhi, di un abisso di cui sento feroce
l’attrazione…

VII

Dalla profondità del mio pensiero la tua immagine sgorga
avvolta dal mistero della morte, con l’aureola atterrita
di un aldilà da sempre sconosciuto. T’invoco, tutta
l’anima conchiusa su di te: ti chiamo e ho l’impressione
che le tenebre e il tuo asso alato siano venate
da lacerazioni come un uccello trafitto in pieno
volo. Quando comprendo che non ti vedrò più, mi sale
al cuore un fiotto di terrore, serrando la mia mente
in un tragico involucro di vuoto, e una vaga impazienza
di massacro sul piacere di vivere.

Tu, così forte e bello, col tuo viso sereno e la tua fronte
sempre fissa al cielo.

Anuarí, il dolore non uccide, il dolore non reca la pazzia;
ma sprofonda nell’anima come un corpo di piombo
in un sisma infinito. Turbata, ascolto nelle lunghe notti
l’eco della mia voce che ti cerca attendendo nel buio
una risposta. Poi, la nera realtà mi percuote furente.
Forse l’anima tua pure è svanita? No! Ma com’è possibile
che tanta forza, tanto ardore astrale, possa perire
nell’eterno gelo?

Teresa Wilms Montt

(Traduzione di Cristina Sparagana)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXI, Luglio/Agosto 2008, N. 229, Crocetti Editore

***

 Anuarí

IV

Reposa tranquilo, Anuarí. Seré siempre tuya.
He hecho de mi cuerpo un templo, donde
venero tus besos y tus caricias, con la mas
honda adoración.

Llevo clavada, como un puñal, tu sonrisa
en el punto donde se posan mis ojos; esa sonrisa
con los dientes apretados, que hacían de
tu boca un capullo sangriento, repleto de blancas,
relucientes semillas.

Anuarí. Tu sonrisa es una obsesión destructora
que mata todas mis risas, tu sonrisa
provoca en mi mente la inquietud del relámpago
en medio de la noche. Es veneno de
nàcar que destila en mi corazon hasta paralizarlo.

V

Anuarí; te evoco dormido y te imagino dormido eterno.
Una sombra se esparce blandamente sobre
mi alma, la divina sombra de tus pestañas,
que formaban dos alas de aterciopelada mariposa
sobre tus ojeras.

Sí, Anuarí. Una noche, la mas feliz de mi
vida, se durmio tu cabeza en mi hombro, y
era tan íntima mi dulzura, que mi respiración
se hizo una música para mecerte.

Te dormiste, criatura mía, después de haberme
estrujado el cerebro y el corazón con
tus labios ávidos de juventud, como una abeja
lujuriosa de néctar y perfume.

Y esas sombras de tus pestañas, son las
cortinas que me ocultan la luz del sol, y me
llevan en vértigo confuso hacia tu grave País.

Una noche, la mas feliz, la única de mi vida,
se durmio tu cabeza en mi pecho, y allí encontró
la delicia del sueño, y buscó la almohada eterna.

VI

Traigo del fondo del silencio tu mirada; evoco tus ojos….
y me estremezco. Aun apagados por la muerte,
me producen el efecto del rayo.
No ha perecido en ellos el poder fascinador.

Son dos faros azules, que me muestran las irradiaciones magnificas
del Infinito; son dos estrellas de primera magnitud,
que miran hondo sobre mis penas, perforándolas y agrandando la huella,
hasta abrir una brecha infinita como un mundo.
Tus ojos adorados, que fueron reflejo de esa bellisima alma tuya,
viven ahora en mi mente nutridos de mi propia vida,
adquiriendo brillo en la fuente inagotable de mis
lágrimas Anuarí. Asi

como tus ojos me encadenaron a tu vida,
ahora me arrastran a tu fosa,
invitándome con tentaciones de delirio.
Tus ojos son dos imanes ante un abismo.
Yo siento la atraccion feroz.

VII

En la oscuridad de mi pensamiento veo surgir tu imagen
envuelta en el misterio de la muerte, con la pavorosa aureola
de un más allá desconocido. Te llamo, toda
el alma reconcentrada en ti; te llamo y me parece
que se rasgan las ombras a tu paso alado,
como el de ave herida en pleno vuelo.
Cuando comprendo que no te veré jamás,
una onda de angustia me sube del corazón,
envolviendo mi cerebro en un vértigo de catástrofe,
en un ansia de masacrar la belleza de la vida.

Eres tan fuerte y hermoso, con tu cara serena y tu frente
mirando al cielo.

Anuarí. La pena no enloquece, la pena no mata;
va ahondando en el alma como un cuerpo de plomo en
una tembladera infinita. Asombrada escucho en las noches
el eco de mi voz, que te busca aguardando
una respuesta. La negra verdad me hiere con saña.
¿Acaso tu espíritu ha muerto también? ¡No; no!
Cómo es posible que tanto vigor, energía de astro,
vaya a perecer en el hielo eterno?

Teresa Wilms Montt

da “Obras completas, libro del camino”, Grijalbo, 1994 

Qui ti amo – Pablo Neruda

Pablo Neruda y Matilde Urrutia en Isla Negra

 

18. 

Qui ti amo.
Negli oscuri pini si districa il vento.
Brilla la luna sulle acque erranti.
Trascorrono giorni uguali che s’inseguono.

La nebbia si scioglie in figure danzanti.
Un gabbiano d’argento si stacca dal tramonto.
A volte una vela. Alte, alte, stelle.

O la croce nera di una nave.
Solo.
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
Qui ti amo.

Qui ti amo e invano l’orizzonte ti nasconde.
Ti sto amando anche tra queste fredde cose.
A volte i miei baci vanno su quelle navi gravi,
che corrono per il mare verso dove non giungono.
Mi vedo già dimenticato come queste vecchie àncore.
I moli sono più tristi quando attracca la sera.

La mia vita s’affatica invano affamata.
Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.

Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di filo metallico.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”, Passigli Poesia, 1996

∗∗∗

18. Aquí  te amo

Aquí  te amo.
En los oscuros pinos se desenreda el viento.
Fosforece la luna sobre las aguas errantes.
Andan días iguales persiguiéndose.

Se desciñe la niebla en danzantes figuras.
Una gaviota de plata se descuelga del ocaso.
A veces una vela. Altas, altas estrellas.

O la cruz negra de un barco.
Solo.
A veces amanezco, y hasta mi alma está húmeda.
Suena, resuena el mar lejano.
Éste es un puerto.
Aquí te amo.

Aquí te amo y en vano te oculta el horizonte.
Te estoy amando aún entre estas frías cosas.
A veces van mis besos en esos barcos graves,
que corren por el mar hacia donde no llegan.
Ya me veo olvidado como estas viejas anclas.
Son más tristes los muelles cuando atraca la tarde.

Se fatiga mi vida inútilmente hambrienta.
Amo lo que no tengo. Estás tú tan distante.
Mi hastío forcejea con los lentos crepúsculos.
Pero la noche llega y comienza a cantarme.
La luna hace girar su rodaja de sueño.

Me miran con tus ojos las estrellas más grandes.
Y como yo te amo, los pinos en el viento,
quieren cantar tu nombre con sus hojas de alambre.

Pablo Neruda

da “Veinte poemas de amor y una canción desesperada”, National Editorial, 1924

Ode a Federico García Lorca – Pablo Neruda

 

Se potessi piangere di paura in una casa solitaria,
se potessi cavarmi gli occhi e divorarli,
lo farei per la tua voce d’arancio in lutto
e per la tua poesia che esce come un grido.

Perché dipingono per te di azzurro gli ospedali
e crescono le scuole e i rioni del porto,
e si popolano di piume gli angeli feriti,
e i pesci nuziali si coprono di squame,
e volano verso il cielo i ricci del mare:
per te le sartorie con le nere membrane
si riempiono di cucchiai e di sangue,
e ingoiano nastri rotti, e si uccidono di baci,
e si vestono di bianco.

Quando voli vestito di pesco,
quando ridi con risa di riso preso d’uragano,
quando per cantare scuoti le arterie e i denti,
la gola e le dita,
vorrei morire tanto dolce tu sei,
morirei per i laghi rossi
dove dentro l’autunno tu vivi
con un corsiero caduto e un dio insanguinato,
vorrei morire per i cimiteri
che come fiumi grigi passano
con acqua e tombe,
di notte, fra campane annegate:
fiumi densi come dormitori
di soldati ammalati, che all’improvviso crescono
verso la morte in fiumi con numeri di marmo
e corone marcite, e oli funerari:
morirei per vederti di notte
guardare le croci sommerse che passano,
in piedi e piangendo,
perché davanti al fiume della morte piangi
come ferito, abbandonatamente,
piangi piangendo, con gli occhi pieni
di lacrime, di lacrime, di lacrime.

Se potessi di notte, perdutamente solo,
accumulare dimenticanza e ombra e fumo
su treni e vapori,
con un imbuto nero,
mordendo le ceneri
lo farei per l’albero nel quale cresci,
per i nidi d’acque dorate che riunisci,
per il rampicante che copre le tue ossa
rivelandoti il segreto della notte.

Città con odore di cipolla umida
aspettano che tu passi cantando raucamente,
e verdi rondini fanno nido nei tuoi capelli,
e silenziose navi di sperma ti perseguitano,
e poi lumache e settimane,
e alberature aggrovigliate e ciliege
girano continuamente quando affiora
la tua pallida testa con quindici occhi
e la tua bocca affondata nel sangue.

Se potessi riempire di fuliggine i palazzi comunali
e, singhiozzando, abbattere orologi,
lo farei per vedere quando alla tua casa
arriva l’estate con le labbra spaccate,
arriva gente col vestito d’agonia,
arrivano regioni di triste splendore,
arrivano aratri morti e papaveri,
arrivano becchini e cavalieri,
arrivano pianeti e carte geografiche con sangue,
arrivano palombari coperti di cenere,
arrivano maschere che trascinano fanciulle
trafitte da grandi coltelli,
arrivano radici, vene, ospedali,
sorgenti, formiche,
arriva la notte con il letto
dove muore fra i ragni un ussero solitario,
arriva una rosa di odio e spilli,
arriva una barca giallognola,
arriva un giorno di vento con un bambino,
e poi arrivo io con Oliverio, Norah,
Vicente Aleixandre, Delia,
Maruca, Malva Marina, María Luisa e Larco,
la Rubia, Rafael Ugarte,
Cotapos, Rafael Alberti,
Carlos, Bebé, Manolo Altolaguirre,
Molinari,
Rosales, Concha Méndez,
e altri che non ricordo.

Vieni perché t’incontri, giovane della salute
e della farfalla, giovane puro
come un lampo nero eternamente libero,
e conversando fra noi,
ora, quando non c’è piú nessuno fra le rocce,
diciamoci semplicemente come sei tu e come sono io:
a che cosa servono i versi se non per la rugiada?
A che cosa servono i versi se non per quella notte
quando un pugnale amaro ci scopre, per quel giorno,
per quel crepuscolo, per quell’angolo rotto
dove il colpito cuore dell’uomo si dispone a morire?

E piú di notte,
di notte ci sono molte stelle,
tutte dentro un fiume,
come un nastro presso alle finestre
delle case piene di povera gente.

Là qualcuno è morto,
forse hanno perduto il lavoro all’officina,
negli ospedali, negli ascensori
nelle miniere,
soffrono gli uomini ostinatamente feriti
e dovunque c’è proposito e pianto,
mentre le stelle corrono dentro un fiume senza fine
c’è molto pianto alle finestre,
le soglie sono corrose dal pianto,
le stanze sono bagnate dal pianto,
che arriva in forma di onda a mordere i tappeti.

Federico,
tu vedi il mondo, le strade,
l’aceto,
gli addii nelle stazioni
quando il fumo alza le sue ruote decisive
verso luoghi dove non ci sono che distacchi,
pietre, strade ferrate.

C’è molta gente che fa domande
in ogni luogo;
e il cielo è sanguinante, e l’adirato, e l’affranto,
e il miserabile, e l’albero delle unghie,
e il bandito con l’invidia sulle spalle.

Cosí è la vita, Federico,
ecco ciò che può darti l’amicizia
d’un malinconico uomo molto maschio.
Da te stesso, tu sai già molte cose,
e altre andrai imparando lentamente.

Pablo Neruda

(Traduzione di Salvatore Quasimodo)

da “Pablo Neruda, Poesie”, Einaudi, Torino, 1952

∗∗∗

Oda a Federico Garcìa Lorca

Si pudiera llorar de miedo en una casa sola,
si pudiera sacarme los ojos y comérmelos,
lo haría por tu voz de naranjo enlutado
y por tu poesía que sale dando gritos.

Porque por ti pintan de azul los hospitales
y crecen las escuelas y los barrios marítimos,
y se pueblan de plumas los ángeles heridos,
y se cubren de escamas los pescados nupciales,
y van volando al cielo los erizos:
por ti las sastrerías con sus negras membranas
se llenan de cucharas y de sangre
y tragan cintas rotas, y se matan a besos,
y se visten de blanco.

Cuando vuelas vestido de durazno,
cuando ríes con risa de arroz huracanado,
cuando para cantar sacudes las arterias y los dientes,
la garganta y los dedos,
me moriría por lo dulce que eres,
me moriría por los lagos rojos
en donde en medio del otoño vives
con un corcel caído y un dios ensangrentado,
me moriría por los cementerios
que como cenicientos ríos pasan
con agua y tumbas,
de noche, entre campanas ahogadas:
ríos espesos como dormitorios
de soldados enfermos, que de súbito crecen
hacia la muerte en ríos con números de mármol
y coronas podridas, y aceites funerales:
me moriría por verte de noche
mirar pasar las cruces anegadas,
de pie llorando,
porque ante el río de la muerte lloras
abandonadamente, heridamente,
lloras llorando, con los ojos llenos
de lágrimas, de lágrimas, de lágrimas.

Si pudiera de noche, perdidamente solo,
acumular olvido y sombra y humo
sobre ferrocarriles y vapores,
con un embudo negro,
mordiendo las cenizas,
lo haría por el árbol en que creces,
por los nidos de aguas doradas que reúnes,
y por la enredadera que te cubre los huesos
comunicándote el secreto de la noche.

Ciudades con olor a cebolla mojada
esperan que tú pases cantando roncamente,
y golondrinas verdes hacen nido en tuo pelo,
y silenciosos barcos de esperma te persiguen,
y además caracoles y semanas,
mástiles enrollados y cerezas
definitivamente circulan cuando asoman
tu pálida cabeza de quince ojos
y tu boca de sangre sumergida.

Si pudiera llenar de hollín las alcaldías
y, sollozando, derribar relojes,
sería para ver cuándo a tu casa
llega el verano con los labios rotos,
llegan muchas personas de traje agonizante,
llegan regiones de triste esplendor,
llegan arados muertos y amapolas,
llegan enterradores y jinetes,
llegan planetas y mapas con sangre,
llegan buzos cubiertos de ceniza,
llegan enmascarados arrastrando doncellas
atravesadas por grandes cuchillos,
llegan raíces, venas, hospitales,
manantiales, hormigas,
llega la noche con la cama en donde
muere entre las arañas un húsar solitario,
llega una rosa de odio y alfileres,
llega una embarcación amarillenta,
llega un día de viento con un niño,
llego yo con Oliverio, Norah
Vicente Aleixandre, Delia,
Maruca, Malva Marina, María Luisa y Larco,
la Rubia, Rafael Ugarte,
Cotapos, Rafael Alberti,
Carlos, Bebé, Manolo Altolaguirre,
Molinari,
Rosales, Concha Méndez,
y otros que se me olvidan.

Ven a que te corone, joven de la salud y
de la mariposa, joven puro
como un negro relámpago perpetuamente libre,
y conversando entre nosotros,
ahora, cuando no queda nadie entre las rocas,
hablemos sencillamente como eres tú y soy yo:
para qué sirven los versos si no es para el rocío?
Para qué sirven los versos si no es para esa noche
en que un puñal amargo nos averigua, para ese día,
para ese crepúsculo, para ese rincón roto
donde el golpeado corazón del hombre se dispone a morir?

Sobre todo de noche,
de noche hay muchas estrellas,
todas dentro de un río
como una cinta junto a las ventanas
de las casas llenas de pobres gentes.

Alguien se les ha muerto, tal vez
han perdido sus colocaciones en las oficinas,
en los hospitales, en los ascensores,
en las minas,
sufren los seres tercamente heridos
y hay propósito y llanto en todas partes:
mientras las estrellas corren dentro de un río interminable
hay mucho llanto en las ventanas,
los umbrales están gastados por el llanto,
las alcobas están mojadas por el llanto
que llega en forma de ola a morder las alfombras.

Federico,
tú ves el mundo, las calles,
el vinagre,
las despedidas en las estaciones
cuando el humo levanta sus ruedas decisivas
hacia donde no hay nada sino algunas
separaciones, piedras, vías férreas.

Hay tantas gentes haciendo preguntas
por todas partes.
Hay el ciego sangriento, y el iracundo, y el
desanimado,
y el miserable, el árbol de las uñas,
el bandolero con la envidia a cuestas.

Así es la vida, Federico, aquí tienes
las cosas que te puede ofrecer mi amistad
de melancólico varón varonil.
Ya sabes por ti mismo muchas cosas.
Y otras irás sabiendo lentamente.

Pablo Neruda

da “Residencia en la tierra, II” (1931-1935), Cruz y Raya, Madrid, 1935

Due amanti felici… – Pablo Neruda

Maria Gamundi, Amantes, 2011

XLVIII

Due amanti felici fanno un solo pane,
una sola goccia di luna nell’erba,
lascian camminando due ombre che s’uniscono,
lasciano un solo sole vuoto in un letto.

Di tutte le verità scelsero il giorno:
non s’uccisero con fili, ma con un aroma,
e non spezzarono la pace né le parole.
È la felicità una torre trasparente.

L’aria, il vino vanno coi due amanti,
gli regala la notte i suoi petali felici,
hanno diritto a tutti i garofani.

Due amanti felici non han fine né morte,
nascono e muoiono più volte vivendo,
hanno l’eternità della natura.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Cento sonetti d’amore”, Passigli Poesia, 1996

∗∗∗

XLVIII

Dos amantes dichosos hacen un solo pan,
una sola gota de luna en la hierba,
dejan andando dos sombras que se reúnen,
dejan un solo sol vacío en una cama.

De todas las verdades escogieron el día:
no se ataron con hilos sino con un aroma,
y no despedazaron la paz ni las palabras.
La dicha es una torre transparente.

El aire, el vino van con los dos amantes,
la noche les regala sus pétalos dichosos,
tienen derecho a todos los claveles.

Dos amantes dichosos no tienen fin ni muerte,
nacen y mueren muchas veces mientras viven,
tienen la eternidad de la naturaleza.

Pablo Neruda

da “Cien sonetos de amor”, Buenos Aires: Losada, 1960

Resurrezione – Roberto Bolaño

 

La poesia entra nel sogno
come un palombaro in un lago.
La poesia, la più coraggiosa di tutti,
entra e cade
a piombo
in un lago infinito come il Loch Ness
o torbido e infausto come il lago Balaton.
Contemplatela dal fondo:
un palombaro
innocente
avvolto nelle piume
della volontà.
La poesia entra nel sogno
come un palombaro morto
nell’occhio di Dio.

Roberto Bolaño

(Traduzione di Ilide Carmignani)

da “I cani romantici”, Edizioni SUR, 2018

∗∗∗

Resurrección 

La poesía entra en el sueño
como un buzo en un lago.
La poesía, más valiente que nadie,
entra y cae
a plomo
en un lago infinito como Loch Ness
o turbio e infausto como el lago Balatón.
Contempladla desde el fondo:
un buzo
inocente
envuelto en las plumas
de la voluntad.
La poesía entra en el sueño
como un buzo muerto
en el ojo de Dios.

Roberto Bolaño

da “Los perros románticos”, Barcelona, Acantilado, 2006