Aiace – Lucio Mariani

Kaveh Hosseini, Vagueness

muoio disonorato cosí
davanti ai Greci
Sofocle, Aiace (v.440)

Sera d’estate. Salendo lungo l’erta
il passo rischia insidie ad ogni tratto
mentre lenti fendiamo due sipari
di querce e mirti, lecci e faggi in branchi
scolpiti come coltri d’ombra fitta.
E finalmente
le stanche vene arrivano
sul culmine di Tuscolo.

Sotto sguardi coperti dalle stelle
brulica larga Roma che s’accende
in fiammelle di luci fino al mare.

Muovendo accorti sopra al basolato
traversiamo l’orchestra del teatro
per sistemarci sulla gradinata
dove forse sedette il pensatore
che rintracciò la fonte del coraggio¹
nella contemptio mortis dolorisque.
Giunta notte, qui va a rappresentarsi
la tragedia di Aiace Telamonio.

Vicenda della fine d’un eroe
quale altro mai si mosse verso Troia
fra tutti i Greci dalla lunga chioma²
                                       nati da umani.
Il gigante dallo scudo invincibile
forte come ferro temprato,
                                  Aiace
baluardo degli Achei dai gambali di bronzo
che scosse l’asta dalla lunga ombra
                              affamata di carne
contro Ettore, domatore di cavalli
frantumando il suo scudo con un masso
e arrestandosi sol perché alla notte
bisognava obbedire.
Ma nel delirio della sua possanza
                              il Telamonio
ebbe il torto di osare e profferire
parole di superbo, grave orgoglio
nei confronti di Atena
                                    figlia di Zeus
e un rio disegno contro il suo valore.
Disegno che, nel rifiutargli
le invitte armi di Achille,
lo condusse a vendetta dell’affronto
per cieche indegnità nella follia
spingendolo a confondere le bestie
con i Greci da uccidere
                                    e cosí
facendo strage di montoni e buoi.
Affondato nei poveri animali
l’oltraggio al proprio onore
tornò Aiace finalmente al senno
e oltre non volle sopportare l’onta
confidando al silenzio
il suo finale intento senza scampo
“Aiace, nel nome che mi dettero – ahi! ahi! –
già era presagio della sofferenza.
Mi odiano gli dèi, l’esercito dei Greci
e m’odia Troia. Ombra mia luce
tenebra splendente, prendimi nel tuo regno
vieni e prendimi.
Accorri morte mia guardami in petto.
Anche laggiú con te potrò parlare”.

 

                                             Poi fermo
non raccogliendo il pianto di Tecmessa
si gettò sulla spada infissa a terra
e spegnendo la vita affrontò l’Ade.
                                          E finí
l’uomo d’animo indomabile
cui sarebbe spettata ogni altra gloria

spinto invece su quel percorso osceno
che solo il bronzo poté riscattare.

I grandi eroi sono il miglior bersaglio
dei voleri immanenti e ineludibili.
Pur se ognuno di noi viventi in terra
s’aggira da fantasma, ombra leggera
esposta ad ogni colpo degli eventi.
Poiché mai si è profeti del futuro
dal fato non sperare di proteggerti
se riso o pianto sono opera sua.

Questo raccontò Sofocle ad Atene
                                   emozionata
una sera dei secoli che furono.
Per quella amara fine
patiamo ancora adesso
noi misere creature del momento
quando il grande racconto ci conferma
che nessuna pietà coglierà mai
preghiere contrastate dal destino
e ogni lacrima si sperderà al vento.

Nulla è di nuovo al mondo
né agli insulti del tempo. Mentre muti
abbandoniamo Aiace
                                  nel suo onore perduto
e dal pendio scendiamo verso il chiosco,
ritorniamo fra giorni senza eroi
alle nostre ore spente
del povero viaggio che ci resta.

Lucio Mariani

Tuscolo, Argentario, 18-23/8/2010

da “Canti di Ripa Grande”, Crocetti Editore, 2013

¹ È la virtus nella filosofia stoica che Cicerone cosí descrive: “Viri autem propria maxima est fortitudo, cuius munera duo maxima sunt, mortis dolorisque contemptio” (È infatti la gagliardia propria dell’uomo nel suo grado piú alto; e i suoi massimi attributi sono la noncuranza del dolore e della morte).
² Da qua prendono le mosse e si succedono citazioni tratte dal testo omerico e da quello sofocleo, sia reinterpretate sia riportate fedelmente.

(Epilogo) – Nikos Kazantzakis

Nikos Kazantzakis

 

Sole, mia grande stella orientale, dagli occhi colmi di lacrime,
il mondo intero è oscurato, la vita è in preda alla vertigine,
e tu scendi giù da tua madre, nella casetta tra le onde.
E lei ti attende trepida, ritta sulla soglia,
in mano ha un lume per farti luce e vino da offrirti:
«Figlio, la tavola è apparecchiata, ti si rallegri il cuore;
figlio, quaranta pani per te, quaranta brocche di vino,
quaranta fanciulle annegate ti fanno da lanterne;
figlio, un letto di rose è pronto con cuscini di viole;
notti e notti ho penato per te, mio figlio, mio tesoro!»
Ma il Sole nero si incollerì e prese a calci il tavolo,
i pani si dispersero tra le onde, il vino tinse di rosso il mare,
le fanciulle dai capelli verdi sprofondarono tra le alghe come murene.
E la terra si spense, il mare si oscurò, la carne si dissolse,
il corpo divenne spirito lieve, lo spirito divenne vento,
e il vento si agitò sospirando, e nel grande silenzio
sordo, l’estremo grido della terra risuonò disperato,
senza gola né bocca, senza voce il lamento del Sole:
«Madre, mangia pure se hai fame, bevi tranquilla il vino,
madre, le tue ossa pesanti stendi sopra il letto di rose;
non voglio più bere vino, madre, né più toccare pane;
stasera ho visto il mio amato svanire come un pensiero.»

Nikos Kazantzakis

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da Odissea, 1938: libro XXIV, vv. 1397-1418

da “Poeti greci del Novecento”, “I Meridiani” Mondadori, 2010

∗∗∗

(ΕΠΙΛΟΓΟΣ)

Ἣλιε, μεγάλε ἀνατολίτη μου, τά μάτια σου βουρϰόσαν
ϰι ὅλος ὁ ϰόσμος πιά σϰοτείνιασε ϰι ὅλη ἡ ζωή ζαλίστη
ϰαί ϰατεβαίνεις στῆς μανούλας σου το ϰυματοχαμώι.
Κ’ ἡ μάνα σου πού ἀραθύμησε πά στό ϰατώφλι ἐστάΘη,
ϰρατάει χλωρή λαμπάδα φέγγει σου, ϰρατάει ϰρασί ϰερνᾶ σε:
– Γιέ μου, ϰαί τάβλα σοῦ ‘στρωσα νά φᾶς ϰαί νά ϰαλοϰαρδίσεις·
γιέ μου, σαράντα φουρνοϰάρβελα, ϰρασί σαράντα στάμνες,
σαράντα ϰοπελιές πού πνίγηϰαν λαμπάδες νά σοῦ φέγγουν·
γιέ μου, ϰαί ρόδα ϰλίνη σοῦ ‘στρωσα ϰαί γιούλια προσϰεφάλια·
νύχτες ϰαί νύχτες σέ λαχτάρισα, γιόϰα μου ϰαναϰάρη!
Μά ὁ μάβρος ἣλιος μας ξαγριέφτηϰε, δίνει ϰλωτσιά στήν τάβλα,
σϰόρπίσαν τά ψωμιά στά ϰύματα ϰ’ ἡ θάλασα ϰρασόΒη
ϰ’οἱ πρασινομαλοῦσες βούλιαξαν σά σμέρνες μέσ’ στά φύϰια.
Ἔσβησε ἡ γῆς, θαμπόθη ἡ θάλασα, ξεπαραλῦσα οἱ σάρϰες,
τό σῶμα πνέμα ἀνάριο γίνηϰε, τό πνέμα ἐγίνη ἀγέρας,
ϰι ὁ ἀγέρας σάλεψε, ἀναστέναξε ϰαί στήν ϰουφή μεγάλη
σιγή, τή λιόστερνη ϰραβγή τῆς Γῆς, γριϰήθη ἀπελπισμένο,
χωρίς λαιμό ϰαί στόμα ϰαί φωνή, τό γηλιομοιρολόι:
– Μάνα, ϰι ἂν ἒχεις δεῖπνο γέψου το, ϰρασί ξεφάντοσέ το,
μάνα, ϰι ἂν ἒχεις στρῶμα ξάπλοσε τά χοντροϰόϰαλά σου·
δέ θέλω, μάνα, πιά ϰρασί νά πιῶ, μήτε ψωμί ν’ ἀγγίξω·
ἀπόψε βίγλισα τόν ἀγαπό σά στοχασμό νά σβήνει.

Νίϰος Καζαντζάϰης

da “Ὀόύσβια”, 1938: Ω, 1397-1418

Nulla due volte – Wisława Szymborska

 

Nulla due volte accade
né accadrà.
Per tal ragione si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.

Anche agli alunni più ottusi
della scuola del pianeta
di ripeter non è dato
le stagioni del passato.

Non c’è giorno che ritorni,
non due notti uguali uguali,
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali.

Ieri, quando il tuo nome
qualcuno ha pronunciato,
mi è parso che una rosa
sbocciasse sul selciato.

Oggi, che stiamo insieme,
ho rivolto gli occhi altrove.
Una rosa? Ma cos’è?
Forse pietra, o forse fiore?

Perché tu, malvagia ora,
dài paura e incertezza?
Ci sei — perciò devi passare.
Passerai — e qui sta la bellezza.

Cercheremo un’armonia,
sorridenti, fra le braccia,
anche se siamo diversi
come due gocce d’acqua.

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Appello allo yeti” (1957), Libri Scheiwiller, 2009 

∗∗∗

Nic dwa razy

Nic dwa razy się nie zdarza
i nie zdarzy. Z tej przyczyny
zrodziliśmy się bez wprawy
i pomrzemy bez rutyny.

Choćbyśmy uczniami byli
najtępszymi w szkole świata,
nie będziemy repetować
żadnej zimy ani lata.

Żaden dzień się nie powtórzy,
nie ma dwóch podobnych nocy,
dwóch tych samych pocałunków,
dwóch jednakich spojrzeń w oczy.

Wczoraj, kiedy twoje imię
ktoś wymówił przy mnie głośno,
tak mi było, jakby róża
przez otwarte wpadła okno.

Dziś, kiedy jesteśmy razem,
odwróciłam twarz ku ścianie.
Róża? Jak wygląda róża?
Czy to kwiat? A może kamień?

Czemu ty się, zła godzino,
z niepotrzebnym mieszasz lękiem?
Jesteś – a więc musisz minąć.
Miniesz – a więc to jest piękne.

Uśmiechnięci, wpółobjęci
spróbujemy szukać zgody,
choć różnimy się od siebie
jak dwie krople czystej wody.

Wisława Szymborska

da “Wołanie do Yeti”, Wydawnictwo Literackie, 1957

Lo scandalo del contraddirmi… – Pier Paolo Pasolini

Dino Pedriali, Pier Paolo Pasolini

                                               

                                    IV

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;

del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore

degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più

io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…

Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto

ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante

dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:

ma a che serve la luce?

Pier Paolo Pasolini

1954

da “Le ceneri di Gramsci”, Garzanti, Milano, 1957

«Scruto la tua fronte» – Jaroslav Seifert

Mimmo Jodice, Elena, 1966

 

Scruto la tua fronte
come un pilota il pannello degli strumenti
quando vola nella tempesta.
Ti ho incontrata così tardi
e così all’improvviso.

Lo so, stavi nascosta
nel profondo nevaio dei tuoi capelli.
Risplendevano anche al buio,
ma ti ho cercato invano.
Sulle unghie mi è rimasta
solo la polvere d’oro.

Poi mi sei sfuggita per lo steccato delle ciglia
dentro il tuo riso.
E giugno, vestito a festa,
lanciava gelsomino nelle finestre.

Infine sei scomparsa per sempre
nella neve del tuo silenzio.
Come potevo anche solo scorgerti
in quella lontananza?
Faceva freddo, era l’imbrunire.

Puoi strappare i miei versi,
strappati gettarli al vento.
Puoi sgualcire le mie lettere,
sgualcite bruciarle nel fuoco.

Ma cosa farai con la mia testa,
fusa nel brumoso metallo,
che ti ha sempre guardata
mentre t’apprestavi al sonno,
e all’alba ti pettinavi?
Quel busto lo devi almeno
portare alla pattumiera.

Così una volta ancora, l’ultima,
terrai la mia testa
fra le tue mani.

Jaroslav Seifert

(Traduzione di Alena Wildová Tosi)

 da “La colonna della peste”, in “Jaroslav Seifert, Le opere”, UTET, 1987