Piú leggeri dell’aria – Hans Magnus Enzensberger

 

Un gran peso
le poesie non l’hanno.
Fintanto che sale, la palla da tennis,
è, mi pare,
piú leggera dell’aria.

L’elio comunque,
l’ispirazione, questo formicolare
nel nostro cervello,
anche i fuochi di sant’Elmo
e i numeri naturali.

Pesano pressoché nulla,
per non parlare,
sebbene siano innumerevoli,
dei trascendenti,
loro esimi cugini.

A quanto ne so, questo vale
anche per l’alone del magnete
che non vediamo,
per quasi tutte le aureole dei santi
e senz’eccezioni per le note dei valzer.

Piú leggero dell’aria,
come il dolore dimenticato
o il fumo azzurrino dell’ultima,
proprio l’ultima sigaretta,
è naturalmente l’io,

e, a quanto ne so,
sempre sale il fumo del sacrificio,
che è cosí grato agli dèi,
verso il cielo.
Ma anche lo Zeppelin.

Molte cose rimangono
in ogni caso a mezz’aria.
Piú leggero di tutto è forse
ciò che resta di noi
quando siamo sotto terra.

Hans Magnus Enzensberger

(Traduzione di Anna Maria Carpi)

da “Piú leggeri dell’aria”, Einaudi, Torino, 2001

***

Leichter als Luft

Besonders schwer
wiegen Gedichte nicht.
Solange der Tennisball steigt,
ist er, glaube ich,
leichter als Luft.

Das Helium sowieso,
die Eingebung, dieses Kribbeln
in unserm Gehirn,
auch das Elmsfeuer
und die natürlichen Zahlen.

Sie wiegen so gut wie nichts,
von den transzendenten,
ihren vornehmen Vettern,
obwohl sie zahllos sind,
gar nicht zu reden.

Soviel ich weiß, gilt das auch
für den Strahlenkranz des Magneten,
den wir nicht sehen,
für die meisten Heiligenscheine
und für ausnahmslos alle Walzerklänge.

Leichter als Luft,
wie der vergessene Kummer
und der bläuliche Rauch
der endgültig letzten Zigarette,
ist natürlich das Ich,

und, soviel ich weiß,
steigt der Geruch des Brandopfers,
der den Göttern so wohlgefällig ist,
immer gen Himmel.
Der Zeppelin auch.

Vieles bleibt ohnehin
in der Schwebe.
Am leichtesten wiegt vielleicht,
was von uns übrigbleibt,
wenn wir unter der Erde sind.

Hans Magnus Enzensberger

da “Leichter als Luft. Moralische Gedichte”, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1999

Aspettando le vesti – Leanne O’Sullivan

Foto di Roberto De Mitri

 

Il giorno che i dottori e le infermiere
hanno i loro colloqui settimanali coi pazienti,
siedo aspettando il mio turno fuori dello studio,
schiena al muro, gambe raccolte sotto il mento,

giocando con il lembo della mia camicia bianca da ospedale.
Hanno preso ogni cosa che a loro giudizio
doveva esser presa – le mie vesti, i miei libri,
la mia musica, come se venir spogliata

facesse parte della cura, come rimuovere il fodero
da una lama che ha fatto strage.
Hanno detto: aspetta qualche giorno, e se fai la brava
potrai riavere le tue cose. Avevano preso

il mio diario, la mia parola fatta carne, e penso
a questi dottori che mi conoscono nuda,
mi tengono per la spina dorsale, due dita
sotto il collo, come si tiene un bimbo,

mi cavano l’anima dalle costole,
sfogliano le pagine dei miei pensieri,
come se mi leggessero la mano,
il mio nome sotto di loro come una confessione,

che sono padroni di questa ragazza, che rivendicano
questo mondo di oscurità, leggerezza, morte
e nascita. È nelle loro mani come una sagola di salvataggio,
e io mi sento in caduta libera o a pezzi.

Sentono la mia voce mentre leggono
e pensano: Chi è questa ragazza che parla?
Io conosco la fine, a loro lo dice lei.
È l’ultima riga, sia sorgente che termine.

È ciò per cui gli oceani cantano, come si muove il sole,
un luogo per i cartografi dove cominciare.
Dietro la porta, niente è detto.
Come sogni, le mie vesti escono dalle scatole.

Leanne O’Sullivan

(Traduzione di Alessandro Gentili)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXVI, Novembre 2013, N. 287, Crocetti Editore

∗∗∗

Waiting For My Clothes 

The day the doctors and nurses are having
their weekly patient interviews, I sit waiting
my turn outside the office, my back to the wall,
legs curled up under my chin, playing

with the hem of my white hospital gown.
They have taken everything they thought
should be taken – my clothes, my books
my music, as if being stripped of these

were part of the cure, like removing the sheath
from a blade that has slaughtered.
They said, Wait a few days, and if you’re good
you can have your things back. They’d taken

my journal, my word made flesh, and I think
of those doctors knowing me naked,
holding me by my spine, two fingers
under my neck, the way you would hold a baby,

taking my soul from between my ribs
and leafing through the pages of my thoughts,
as if they were reading my palms,
and my name beneath them like a confession,

owning this girl, claiming this world
of blackness and lightness and death
and birth. It lies in their hands like a life-line,
and I feel myself fall open or apart.

They hear my voice as they read
and think, Who is this girl that is speaking?
I know the end, she tells them.
It is the last line, both source and closing.

It is what oceans sing to, how the sun moves,
a place for the map-maker to begin.
Behind the door, nothing is said.
Like dreams, my clothes come out of their boxes.

Leanne O’Sullivan

da “Waiting For My Clothes”, Bloodaxe Books Ltd, Tyne and Wear, 2004

Appunti sullo scrivere in versi – Franco Arminio

© Cedar Pole, 2012 © Bryan Nash Gill. Progetto grafico: Polystudio.

Piccolo decalogo trascurabile
1

Quando scrivi devi mirare il centro della terra,
lì dove non potrà mai arrivare la pagina di un libro,
la carta di una caramella.

2

Ti restano due parole.
Poi una sola. Spendila bene.

3

Nessuno ha mai finito la poesia.
Ne resta sempre tanta
per gli altri, per chi viene.

4

Per fare una poesia
non ci vuole niente,
basta che abbiate un corpo,
uno solo, ma che non sia vostro.

5

Per la poesia ci vuole
sogno e ragione, e notte
e vento e ribellione.

6

Le poesie sono tazzine di luce
nel cuore della notte.

7

Dentro il corpo non ci sono parole.
Le prendiamo fuori.
Costano moltissimo le migliori.

8

La poesia è andare dal macellaio
comprare due chili di carne
e gettarli nella neve per i cani e le poiane.

9

Poche parole in verità
servono a qualcosa.
Pochi silenzi.

10

Il poeta è uno che si espone.
Ai versi bisogna affidare cose
che ancora non abbiamo confidato a nessuno.
Altrimenti si fanno ombrelli, merendine.

 

Istruzioni per l’uso

Una volta col mio amico Gianni Celati facemmo un numero di una rivista che si chiamava “Altofragile” tutto dedicato alla poesia e a come leggerla. La poesia è un farmaco potente e alla portata di tutti, c’è bisogno di istruzioni per l’uso. Per Celati, ad esempio, Leopardi andrebbe letto a bassa voce. A me, oltre le intonazioni della voce, interessano molto anche i luoghi e i momenti in cui si legge o si scrive poesia. Un momento sicuramente buono è quando sei con le spalle al muro, quando è finito un amore, quando hai perso qualcosa. La poesia a scuola viene studiata il mattino, ma è nel cuore della notte che i versi risuonano meglio ed è più facile sentire le differenze tra le poesie vere e quelle fasulle. Amare i versi tiene lontane le malattie: diffidiamo delle altre medicine, affidiamoci all’ospedale della lingua.
Con la poesia non bisogna essere egoisti, oltre che leggerla per sé bisogna anche leggerla agli altri. Anzi, più ci tocca e più nasce spontaneo il desiderio di condividerla. La poesia è un farmaco, ma è anche una malattia, contagiosa e capace di rivelarci a noi stessi, come tutte le esperienze più estreme.
È bello leggere poesie in famiglia, farne un’abitudine prima del pranzo e della cena. Oggi si celebra tanto il cibo, ma è raro che lo si preceda con un piccolo antipasto per lo spirito. E non pensiamo alla poesia come a una cosa per pochi. Leggiamo le poesie insieme a un barista, a un benzinaio, a un notaio, offriamole a chi ci ama, a chi ha avuto un dolore. Offriamo poesie agli anziani, ai non vedenti, alle persone sole, anche gli animali: la poesia ha molto amato gli animali, e ne è ricambiata. E infine non bisogna dimenticare di far sentire i versi alle piante. Leggiamo poesie a una rosa: la rosa profuma di più.

 

 

La poesia è una lucciola
alle due del pomeriggio.

Franco Arminio

da “Resteranno i canti”, Bompiani, 2018

Manifesto populista – Lawrence Ferlinghetti

Per i poeti, con amore

Poeti, uscite dai vostri studi,
aprite le vostre finestre, aprite le vostre porte
siete stati ritirati troppo a lungo
nei vostri mondi chiusi.
Scendete, scendete
dalle vostre Russian Hills e dalle vostre Telegraph Hills,
dalle vostre Beacon Hills e dalle vostre Chapel Hills,
dalle vostre Brooklyn Heights e dai Montparnasse,
giù dalle vostre basse colline e dalle montagne,
fuori dalle vostre tende e dai vostri palazzi.
Gli alberi stanno ancora cadendo
e non andremo più nei boschi.
Non è il momento ora di sedersi tra loro
quando l’uomo incendia la propria casa
per arrostire il maiale.
Non si canta più Hare Krishna mentre Roma brucia.
San Francisco sta bruciando
La Mosca di Majakowskij sta bruciando
i combustibili fossili della vita.
La notte & il cavallo si avvicinano
mangiando luce, calore & potere
e le nuvole hanno i calzoni.
Non è il momento ora di nascondersi per l’artista
sopra, oltre, dietro le scene,
indifferente, tagliandosi le unghie,
purificandosi fuori dall’esistenza.
Non è il momento ora per i nostri piccoli giochi letterari
non è il momento ora per le nostre paranoie & ipocondrie,
non è il momento ora per la paura & il disgusto,
è il momento solo per la luce & l’amore.
Abbiamo visto le migliori menti della nostra generazione
distrutte dalla noia ai reading di poesia.
La poesia non è una società segreta,
né un tempio.
Le parole & i canti segreti non servono più.
L’ora di emettere l’OM è passata,
viene l’ora di cantare un lamento funebre,
un momento per cantare un lamento funebre & per gioire
sulla fine in arrivo
della civiltà industriale
che è nociva per la terra & per l’Uomo.
Il momento ora di esporsi
nella completa posizione del loto
con gli occhi bene aperti,
il momento ora di aprire le nostre bocche
in un nuovo discorso aperto,
il momento ora di comunicare con tutti gli esseri coscienti,
tutti voi, “Poeti delle Città”
appesi nei musei, includendo me stesso,
tutti voi poeti del poeta che scrive la poesia
sulla poesia
tutti voi poeti di poesia da workshop
nel cuore giungla d’America
tutti voi addomesticati Ezra Pound,

tutti voi poeti pazzi, sballati, da college
tutti voi poeti della Poesia Concrete pre-compressa,
tutti voi poeti cunnilingio,
tutti voi poeti da gabinetto a pagamento che vi lamentate con graffiti,
tutti voi ritmatori da metropolitana che non ritornate mai sulle betulle,
tutti voi padroni della segherie haiku

nelle Siberie d’America,
tutti voi non realisti senza occhi,
tutti voi supersurrealisti autonascosti,
tutti voi visionari da camera da letto,
ed agitprop da gabinetto,
tutti voi poeti alla Groucho Marxista

e Compagni di ozio di classe
che restano inattivi tutto il giorno
e che parlano del lavoro di classe del proletariato,
tutti voi anarchici Cattolici della poesia,
tutti voi Neri Montanari della poesia,
tutti voi Bramini di Boston e bucolici di Bolinas,
tutti voi baby-sitters della poesia,
tutti voi fratelli zen della poesia,
tutti voi amanti suicidi della poesia,
tutti voi capelluti professori della poesia,
tutti voi critici di poesia
che bevete il sangue dei poeti,
tutti voi Poliziotti della Poesia –
Dove sono i figli di Whitman,
dov’è la grande voce che parla ad alta voce
con un senso di dolcezza & di sublimità,
dov’è la nuova grande visione,
la grande visione del mondo,
l’alta canzone profetica
dell’immensa terra
e tutto ciò che canta in essa
e il nostro rapporto con essa –
Poeti, scendete
nelle strade del mondo ancora una volta
e aprite le menti & gli occhi
con la vecchia delizia visuale,
schiarite la gola e parlate più forte,
la poesia è morta, lunga vita alla poesia
con occhi terribili e forza di bufalo.
Non aspettate la rivoluzione
o succederà senza di voi.
Smettete di mormorare e parlate ad alta voce
con una nuova poesia completamente aperta
con una nuova comune-sensuale “comprensione-pubblica”
con altri livelli soggettivi
con altri livelli sovversivi,
un diapason nell’orecchio interno
per colpire sotto la superficie.
Del vostro dolce Io che ancora cantate
ancora esprimete “la parola en-masse” –
Poesia il veicolo comune
per il trasporto pubblico
verso luoghi più alti
di altre ruote che possono portarla.
Poesia che ancora cade dai cieli
dentro le nostre strade ancora aperte.
Loro non hanno ancora alzato barricate,
le strade animate ancora con visi,
uomini & donne attraenti camminano ancora qui,
dovunque ancora attraenti creature,
negli occhi di tutti il segreto di tutti
qui ancora sepolto,
i selvaggi figli di Whitman qui ancora dormono,
si svegliano e camminano nell’aria aperta.

Lawrence Ferlinghetti

Giugno 1975

(Traduzione di Romano Giachetti e Bruno Marcer)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore

∗∗∗

Populist Manifesto

For Poets, with Love

Poets, come out of your closets,
open your windows, open your doors,
you have been holed-up too long
in your closed worlds.
Come down, come down
from your Russian Hills and Telegraph Hills,
your Beacon Hills and your Chapel Hills,
your Mount Analogues and Montparnasses,
down from your foothills and mountains,
out of your teepees and domes.
The trees are still falling
and we’ll to the woods no more.
No time now for sitting in them
as man burns down his own house
to roast his pig
No more chanting Hare Krishna
while Rome burns.
San Francisco’s burning,
Mayakovsky’s Moscow’s burning
the fossil-fuels of life.
Night & the Horse approaches
eating light, heat & power,
and the clouds have trousers.
No time now for the artist to hide
above, beyond, behind the scenes,
indifferent, paring his fingernails,
refining himself out of existence.
No time now for our little literary games,
no time now for our paranoias & hypochondrias,
no time now for fear & loathing,
time now only for light & love.
We have seen the best minds of our generation
destroyed by boredom at poetry readings.
Poetry isn’t a secret society,
It isn’t a temple either.
Secret words & chants won’t do any longer.
The hour of oming is over,
the time of keening come,
a time for keening & rejoicing
over the coming end
of industrial civilization
which is bad for earth & Man.
Time now to face outward
in the full lotus position
with eyes wide open,
Time now to open your mouths
with a new open speech,
time now to communicate with all sentient beings,
all you “Poets of the Cities”
hung in museums including myself,
all you poet’s poets writing poetry
about poetry,
all you poetry workshop poets
in the boondock heart of America,
all you housebroken Ezra Pounds,
all you far-out freaked-out cut-up poets,
all you pre-stressed Concrete poets,
all you cunnilingual poets,
all you pay-toilet poets groaning with graffiti,
all you A-train swingers who never swing on birches,
all you masters of the sawmill haiku in the Siberias of America,
all you eyeless unrealists,
all you self-occulting supersurrealists,
all you bedroom visionaries and closet agitpropagators,
all you Groucho Marxist poets
and leisure-class Comrades
who lie around all day and talk about the workingclass proletariat,
qll you Catholic anarchists of poetry,
qll you Black Mountaineers of poetry,
all you Boston Brahims and Bolinas bucolics,
all you den mothers of poetry,
all you zen brothers of poetry,
all you suicide lovers of poetry,
all you hairy professors of poesie,
all you poetry reviewers
drinking the blood of the poet,
all you Poetry Police –
where are Whitman’s wild children,
where the great voices speaking out
with a sense of sweetness and sublimity,
where the great’new vision,
the great world-view,
the high prophetic song
of the immense earth
and all that sings in it
and our relations to it–
poets, descend
to the street of the world once more
and open your minds & eyes
with the old visual delight,
clear your throat and speak up,
poetry is dead, long live poetry
with terrible eyes and buffalo strength.
Don’t wait for the Revolution
or it’ll happen without you,
stop mumbling and speak out
with a new wide-open poetry
with a new commonsensual “public surface”
with other subjective levels
or other subversive levels,
a tuning fork in the inner ear
to strike below the surface.
Of your own sweet Self still sing
yet utter “the word en-masse” –
Poetry the common carrier
for the transportation of the public
to higher places
than other wheels can carry it.
Poetry still falls from the skies
into our streets still open.
They haven’t put up the barricades, yet,
the streets still alive with faces,
lovely men & women still walking there,
still lovely creatures everywhere,
in the eyes of all the secret of all
still buried there,
Whitman’s wild children still sleeping there,
Awake and walk in the open air.

Lawrence Ferlinghetti

“Populist Manifesto”, Garium Press, 1975

Una parola – Gabriela Mistral

Donata Wenders, Contemplation, 2006

 

Rinserro nella gola una parola
non l’abbandono né me ne separo
nemmeno quando urge la spinta del suo sangue.
Se la lasciassi andrebbe a fuoco il pascolo,
sgozzerebbe l’agnello, abbatterebbe il volo dell’uccello.

Devo sradicarla dalla mia lingua
e scovare un antro di castori
o murarla con cumuli di calce
perché, come l’anima, non si libri in volo.

Non voglio dare segni d’esser viva,
finché scalpiterà nel mio sangue
e risalirà e discenderà il mio folle fiato.
Anche se Giobbe, padre mio, lo disse,
non voglio donarle, fremente, la mia miserabile bocca
perché si diffonda fino al fiume
e le donne la trovino e quella s’avviluppi
ai capelli o il povero cespuglio
avvolga ed arda.

Voglio scagliarle contro terribili semi
che in una notte la coprano e la soffochino
senza risparmiarne un grumolo di sillaba.
O sbranarla in me, come la vipera
che a metà si divide con i denti.

E a casa far ritorno, entrarvi, dormire,
scissa da lei, da lei divisa
e svegliarmi dopo duemila giorni
appena nata dall’oblio e dal sonno.

Ignara più che una parola
di iodio e allume tenni tra le labbra,
senza più rammentarmi d’una notte,
d’un soggiorno in un paese straniero,
dell’insidia e del fulmine alla porta
e del mio corpo vivo senza l’anima tua.

Gabriela Mistral

(Traduzione di Dante Maffia)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore

∗∗∗

Una palabra

Yo tengo una palabra en la garganta
y no la suelto, y no me libro de ella
aunque me empuje su empellón de sangre.
Si la soltase, quema el pasto vivo,
sangra al cordero, hace caer al pájaro.

Tengo que desprenderla de mi lengua,
hallar un agujero de castores
o sepultarla con cales y cales
porque no guarde como el alma el vuelo.

No quiero dar señales de que vivo
mientras que por mi sangre vaya y venga
y suba y baje por mi loco aliento.
Aunque mi padre Job la dijo, ardiendo
no quiero darle, no, mi pobre boca
porque no ruede y la hallen las mujeres
que van al río, y se enrede a sus trenzas
y al pobre matorral tuerza y abrase.

Yo quiero echarle violentas semillas
que en una noche la cubran y ahoguen
sin dejar de ella el cisco de una sílaba.
O rompérmela así, como a la víbora
que por mitad se parte con los dientes.

Y volver a mi casa, entrar, dormirme,
cortada de ella, rebanada de ella,
y despertar después de dos mil días
recién nacida de sueño y olvido.

¡Sin saber más que tuve una palabra
de yodo y piedra-alumbre entre los labios
ni saber acordarme de una noche,
de una morada en país extranjero,
de la celada y el rayo de la puerta
y de mi carne marchando sin su alma!

Gabriela Mistral

da “Gabriela Mistral, Poesía y prosa”, Fundacion Biblioteca Ayacuch, 1993