Houston, alle sei del pomeriggio – Adam Zagajewski

Adam Zagajewski, foto di Damian Klamka

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Europa già dorme sotto un ruvido plaid di frontiere
e antichi odi: la Francia si stringe
alla Germania, la Bosnia è nelle braccia della Serbia,
la Sicilia solitaria nell’azzurro del mare.

Qui è l’inizio della sera, la lampada è accesa
e il sole scuro rapidamente si spegne.
Sono solo, un po’ leggo, un po’ penso,
un po’ ascolto musica.

Sono lì dove c’è l’amicizia,
ma non ci sono amici, dove cresce l’incantamento
ma senza incanto,
lì, dove ridono i morti.

Sono da solo perché l’Europa sta dormendo. Il mio amore
dorme in una casa alta nei dintorni di Parigi.
A Cracovia e a Parigi i miei amici
procedono sullo stesso fiume dell’oblio.

Leggo e penso; in una poesia
ho trovato queste parole: “Capitano delle disgrazie così terribili…
non domandare!”. Non lo faccio. Un elicottero della polizia
rompe il silenzio della sera.

La poesia ci chiama a una vita più alta,
ma ciò che è basso è già ugualmente eloquente,
più forte della lingua indoeuropea,
più forte dei miei libri e dei miei dischi.

Non ci sono usignoli né merli qui
con la loro triste, dolce cantilena,
solo l’uccello che imita
e sbeffeggia le altre voci.

La poesia ci chiama alla vita, al coraggio
di fronte alle ombre che salgono.
Puoi guardare con calma la Terra
– come un perfetto astronauta?

Dall’innocente indolenza, dalla Grecia dei libri,
dalla Gerusalemme della memoria là all’improvviso emerge
l’isola della poesia, disabitata;
un nuovo Cook la scoprirà, un giorno.

L’Europa sta già dormendo. Gli animali della notte,
malinconici e rapaci,
escono per la caccia, incontro alla morte.
Presto anche l’America dormirà.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Paola Malavasi)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVII, Maggio 2004, N. 183, Crocetti Editore

∗∗∗

Houston, szósta po południu

Europa już śpi pod szorstkim pledem granic
i dawnych nienawiści; Francja przytulona
do Niemiec, Bośnia w objęciach Serbii,
Sycylia samotna w błękitnym morzu.

Tutaj jest wczesny wieczór, pali się lampa
i szybko gaśnie ciemne słońce.
Jestem sam, trochę czytam, trochę rozmyślam,
trochę słucham muzyki.

Jestem tam, gdzie jest przyjaźń,
ale nie ma przyjaciół, gdzie rośnie
oczarowanie, ale nie ma czarów,
tam, gdzie śmieją się umarli.

Jestem sam, bo Europa śpi. Moja ukochana
śpi w wysokim domu pod Paryżem.
W Krakowie i w Paryżu moi przyjaciele
brodzą w tej samej rzece zapomnienia.

Czytam i rozmyślam; w pewnym wierszu
znalazłem słowa Zdarzają się ciosy tak straszne…
– Nie pytaj! Nie pytam. W ciszę wieczoru
wdziera się policyjny helikopter.

Poezja wzywa do wyższego życia,
ale to, co niskie jest równie wymowne,
głośniejsze niż język indoeuropejski,
silniejsze niż moje książki i płyty.

Tutaj nie ma słowików ani kosów
o słodkiej, smutnej kantylenie,
tylko ptak-szyderca, który naśladuje
i przedrzeźnia wszystkie inne głosy.

Poezja wzywa do życia, do odwagi
w obliczu cienia, który się powiększa.
Czy umiesz spojrzeć spokojnie na Ziemię
— jak idealny kosmonauta?

Z niewinnej indolencji, z Grecji lektur
i z Jerozolimy pamięci wynurza się nagle
wyspa wiersza, wyspa bezludna,
którą odkryje kiedyś nowy Cook.

Europa już śpi. Zwierzęta nocy,
melancholijne i drapieżne,
wyruszają na łowy, na śmierć.
Niedługo także Ameryka zaśnie.

Adam Zagajewski

da “Pragnienie”, Kraków: Wydawnictwo “a5”, 1999

Diciassettenne – Adam Zagajewski

Foto di Renate von Mangoldt

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Franz Schubert, diciassettenne,
diciassettenne ragazzetto, scrive
la musica per un lamento a Gretchen, coetanea.
“Meine Ruh ist hin, mein Herz ist schwer”.
La gran cacciatrice di talenti, la morte, subito
gli rivolge benevola attenzione.
Manda inviti, uno dietro l’altro.
Uno. Dietro. L’altro. Schubert chiede
comprensione, non vuole arrivare
a mani vuote. È sconveniente rifiutare.
Quattordici anni dopo ha luogo
il suo primo concerto da quell’altra parte.
Perché il chiarore uccide. Perché la forza acceca.
Mein Ruth ist hin, mein Herz ist schwer”.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Valeria Rosselli)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore

∗∗∗

Siedemnastoletni 

Franz Schubert, siedemnastoletni,
siedemnastoletni wyrostek, pisze
muzykę do skargi Gretchen, rówieśnicy.
„Meine Ruh ist hin, mein Herz ist schwer”.
Wielki łowca talentów, śmierć, natychmiast
zwraca na niego życzliwą uwagę.
Wysyła zaproszenia, jedno po drugim.
Jedno. Po. Drugim. Schubert prosi o
wyrozumiałość, nie chce przychodzić
z pustymi rękami. Nie wypada mu odmówić.
W czternaście lat później odbywa się
jego pierwszy koncert po tamtej stronie.
Dlaczego jasność zabija. Czemu siła oślepia.
„Meine Ruh ist hin, mein Herz ist schwer”.

Adam Zagajewski, 

da “Jechać do Lwowa”, London: Aneks, 1985

Andare a Leopoli – Adam Zagajewski

Adam Zagajewski, foto di
Krzysztof Dubiel

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Andare a Leopoli. Da quale stazione andare
a Leopoli, se non in sogno, all’alba,
quando la rugiada ricopre le valigie e proprio allora
nascono i rapidi e gli espressi. D’un tratto partire
per Leopoli, nel cuore della notte, di giorno, a settembre
oppure a marzo. Se Leopoli esiste sotto
la fodera delle frontiere e non solo nel mio
nuovo passaporto, se gli stendardi degli alberi,
pioppi e ontani, respirano ancora rumorosi
come gli Indiani e i ruscelli balbettano nel loro
oscuro esperanto e le bisce spariscono
nell’erba come altrettanti segni molli dell’alfabeto
russo. Fare i bagagli e partire, senza neppure
salutare, a mezzogiorno, svanire così come
venivano meno le fanciulle. E le bardane, la verde
armata delle bardane, là sotto, sotto gli ombrelloni
di un caffè veneziano, le lumache conversano
dell’eternità. Ma svetta la cattedrale,
ricordi, così verticale, così verticale
come la domenica e i tovaglioli bianchi e il secchio
pieno di lamponi sul pavimento e il mio
desiderio, che ancora non esisteva,
solo i giardini e le erbacce e l’ambra
delle ciliegie e il disdicevole Fredro.
C’era sempre troppa Leopoli, nessuno sapeva
capirne i quartieri, sentire
il sussurro di ogni pietra bruciata
dal sole, la chiesa uniate di notte taceva in modo
del tutto diverso dalla cattedrale, i gesuiti battezzavano
le piante, foglia dopo foglia, ma quelle crescevano,
crescevano immemori, e la gioia si celava ovunque,
nei corridoi e nei macinini da caffè
che giravano da soli, nei bricchi celesti
e nell’amido, che era il primo formalista,
nelle gocce di pioggia e nelle spine delle rose.
Sotto la finestra ingiallivano le forsizie velate di brina.
Le campane suonavano e l’aria tremava, le cuffie
delle monache veleggiavano come golette
davanti al teatro, c’era così tanto del mondo
da concedere infinite repliche,
il pubblico impazziva e non voleva
lasciare la sala. Le mie zie non sapevano
ancora che un giorno le avrei resuscitate,
e vivevano così fiduciose, nella loro unicità,
le cameriere linde, con le vesti stirate,
correvano per la panna fresca, dentro le case c’erano
un po’ di collera e molta speranza. Brzozowski
era venuto a fare conferenze, uno dei miei
zii scriveva un poema intitolato Perché?
dedicato all’Onnipotente e c’era troppa
Leopoli, traboccava dal vaso,
crepava il vetro dei bicchieri, straripava
dagli stagni, dai laghi, fumava dai comignoli,
si mutava in fuoco e in tempesta,
rideva con i fulmini, diventava umile,
tornava a casa, leggeva il Nuovo Testamento,
dormiva sul divano sotto il kilim carpatico,
c’era troppa Leopoli e ora non ce n’è
affatto, cresceva irrefrenabile e le forbici
tagliavano, i freddi giardinieri come sempre
a maggio, senza pietà né amore,
ah aspettate che giunga il caldo
giugno con le morbide felci, il campo
sconfinato dell’estate, ossia la realtà.
Ma le forbici tagliavano lungo la linea e attraverso
l’ordito, sarti, giardinieri e censori
tagliavano il corpo e le ghirlande, le cesoie indefesse
lavoravano, come in un gioco da bambini
dove ritagli il profilo di un cigno o di un cerbiatto.
Forbici, coltellini e lamette grattavano,
tagliavano e accorciavano le vesti ariose
dei prelati e le piazze e i palazzi, gli alberi
cadevano senza rumore, come in una giungla,
e la cattedrale tremava e ci si congedava all’alba
senza lacrime, senza fazzoletti, così asciutte
le labbra, non ti vedrò mai più, tanta è la morte
che ti attende, perché ogni città
deve farsi Gerusalemme e ogni
uomo un ebreo? e ora, ma in fretta,
fare i bagagli, sempre, ogni giorno,
e andare senza fiato, andare a Léopoli,
eppure esiste, quieta e pura come
una pesca. Leopoli è ovunque.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Krystyna Jaworska)

da “ Andare a Leopoli e altre poesie, 1985”, in “Dalla vita degli oggetti”, Poesie 1983-2005, Adelphi, 2012

∗∗∗

Jechać do Lwowa

Jechać do Lwowa. Z którego dworca jechać
do Lwowa, jeżeli nie we śnie, o świcie,
gdy rosa na walizkach i właśnie rodzą się
ekspresy i torpedy. Nagle wyjechać do
Lwowa, w środku nocy, w dzień, we wrześniu
lub w marcu. Jeżeli Lwów istnieje, pod
pokrowcami granic i nie tylko w moim
nowym paszporcie, jeżeli proporce drzew
jesiony i topole wciąż oddychają głośno
jak Indianie a strumienie bełkocą w swoim
ciemnym esperanto a zaskrońce jak miękki
znak w języku rosyjskim znikają wśród
traw. Spakować się i wyjechać, zupełnie
bez pożegnania, w południe, zniknąć
tak jak mdlały panny. I łopiany, zielona
armia łopianów, a pod nimi, pod parasolami
weneckiej kawiarni, ślimaki rozmawiają
o wieczności. Lecz katedra wznosi się,
pamiętasz, tak pionowo, tak pionowo
jak niedziela i serwetki białe i wiadro
pełne malin stojące na podłodze i moje
pragnienie, którego jeszcze nie było,
tylko ogrody i chwasty i bursztyn
czereśni i Fredro nieprzyzwoity.
Zawsze było za dużo Lwowa, nikt nie umiał
zrozumieć wszystkich dzielnic, usłyszeć
szeptu każdego kamienia, spalonego przez
słońce, cerkiew w nocy milczała zupełnie
inaczej niż katedra, Jezuici chrzcili
rośliny, liść po liściu, lecz one rosły,
rosły bez pamięci, a radość kryła się
wszędzie, w korytarzach i w młynkach do
kawy, które obracały się same, w niebieskich
imbrykach i w krochmalu, który był pierwszym
formalistą, w kroplach deszczu i w kolcach
róż. Pod oknem żółkły zmarznięte forsycje.
Dzwony biły i drżało powietrze, kornety
zakonnic jak szkunery płynęły pod
teatrem, świata było tak wiele, że musiał
bisować nieskończoną ilość razy,
publiczność szalała i nie chciała
opuszczać sali. Moje ciotki jeszcze
nie wiedziały, że je kiedyś wskrzeszę
i żyły tak ufnie i tak pojedynczo,
służące biegły po świeżą śmietanę,
czyste i wyprasowane, w domach trochę
złości i wielka nadzieja. Brzozowski
przyjechał na wykłady, jeden z moich
wujów pisał poemat pod tytułem Czemu,
ofiarowany wszechmogącemu i było za dużo
Lwowa, nie mieścił się w naczyniu,
rozsadzał szklanki, wylewał się ze
stawów, jezior, dymił ze wszystkich
kominów, zamieniał się w ogień i w burzę,
śmiał się błyskawicami, pokorniał,
wracał do domu, czytał Nowy Testament,
spał na tapczanie pod huculskim kilimem,
było za dużo Lwowa a teraz nie ma
go wcale, rósł niepowstrzymanie a nożyce
cięły, zimni ogrodnicy jak zawsze
w maju bez litości bez miłości
ach poczekajcie niech przyjdzie ciepły
czerwiec i miękkie paprocie, bezkresne
pole lata czyli rzeczywistości.
Lecz nożyce cięły, wzdłuż linii i poprzez
włókna, krawcy, ogrodnicy i cenzorzy
cięli ciało i wieńce, sekatory niezmordowanie
pracowały, jak w dziecinnej wycinance
gdzie trzeba wystrzyc łabędzia lub sarnę.
Nożyczki, scyzoryki i żyletki drapały
cięły i skracały pulchne sukienki
prałatów i placów i kamienic, drzewa
padały bezgłośnie jak w dżungli
i katedra drżała i żegnano się o poranku
bez chustek i bez łez, takie suche
wargi, nigdy cię nie zobaczę, tyle śmierci
czeka na ciebie, dlaczego każde miasto
musi stać się Jerozolimą i każdy
człowiek Żydem i teraz tylko w pośpiechu
pakować się, zawsze, codziennie
i jechać bez tchu, jechać do Lwowa, przecież
istnieje, spokojny i czysty jak
brzoskwinia. Lwów jest wszędzie.

Adam Zagajewski

da “Jechać do Lwowa”, London: Aneks, 1985

 

Treni sotterranei – Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono quadri che mostrano la sofferenza
e la fiammella di una candela; ci sono uomini infelici,
che cercano invano consolazione
come un postino arrancante nella tormenta,

c’è la musica che cresce nella giungla del silenzio,
ci sono i carnefici, ci sono strade tenebrose,
finestre cieche,
giorni che sembrano la festa della crudeltà.

Ci sono coloro che piangono senza speranza
in una soffocante sala d’attesa,
ci sono treni sotterranei, pesanti accuse,
c’è anche l’ordinaria noia delle conversazioni
sullo sport,

e il terrore delle lunghe sere, e gli urli degli ubriachi –
e capitano gli attimi di rivelazione,
quando fieramente sfavillano i fiori dei castani

e con insicurezza procedono fra le erbe
tordi giovinetti frastornati
dal fuoco eracliteo del giardino di maggio.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Marco Bruno)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXX, Novembre 2017, N. 331, Crocetti Editore

∗∗∗

Podziemne pociągi

Są obrazy, które pokazują cierpienie
i płomyk świecy; są ludzie nieszczęśliwi,
na próżno szukający pocieszenia
jak listonosz brnący w śnieżnej zawiei,

jest muzyka rosnąca w dżungli milczenia,
są oprawcy, są mroczne ulice, ślepe okna,
dni, które wydają się świętem okrucieństwa.

Są ci co płaczą bez nadziei w ciasnej poczekalni,
są podziemne pociągi, ciężkie oskarżenia,
jest także zwyczajna nuda rozmów o sporcie,

i terror długich wieczorów, i krzyki pijaków –
i zdarzają się chwile objawienia,
kiedy dumnie błyszczą kwiaty kasztanów

i niepewnie idą wśród traw
młodziutkie drozdy oszołomione
heraklitejskim ogniem majowego ogrodu.

Adam Zagajewski

da “Asymetria”, A5 K. Krynicka, 2014

Fuoco, fuoco – Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fuoco di Cartesio, il fuoco di Pascal,
la cenere, la scintilla.
Di notte brucia un falò invisibile,
il fuoco, che ardendo non distrugge
ma crea, come se in un attimo
volesse restituire ciò che le fiamme
hanno rubato in molti continenti,
la biblioteca di Alessandria, la fede
dei Romani ed il terrore di una bimba
in Nuova Zelanda.
Il fuoco come gli eserciti
dei Mongoli devasta e brucia le città
di legno e di pietra, e poi eleva
case leggere e palazzi invisibili,
impone a Cartesio
distruggi la filosofia e costruiscine una nuova,
si tramuta nel roveto ardente,
sveglia Pascal, percuote le campane
e le fonde per eccesso di zelo.
Avete visto come legge i libri?
Pagina per pagina, lentamente,
come chi ha appena imparato
a sillabare.
                     Fuoco, fuoco, il fuoco
eterno di Eraclito, l’avido messaggero,
il ragazzo dalle labbra nere come bacche.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Valeria Rossella)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N.200, Crocetti Editore

∗∗∗

Il fuoco, il fuoco

Il fuoco di Cartesio, il fuoco di Pascal,
cenere, scintilla.
Di notte arde un falò invisibile,
il fuoco, che consumandosi non distrugge
ma crea, come se in un attimo
volesse restituire ciò che le fiamme
hanno sottratto in vari continenti,
la biblioteca di Alessandria, la fede
dei Romani e la paura di una bimba
nella Nuova Zelanda.
     Il fuoco, come le armate
dei Mongoli devasta e brucia le città
di legno e di pietra, e poi innalza
case lievi e palazzi invisibili,
ordina a Cartesio
di demolire la filosofia e di erigerne un’altra,
si trasforma nel roveto ardente,
sveglia Pascal, suona le campane
e le fonde per eccesso di zelo.
Avete visto come legge
i libri? Pagina dopo pagina, lentamente,
come chi ha appena imparato
a sillabare.
       Il fuoco, il fuoco, il fuoco eterno,
il fuoco di Eraclito, l’avido messaggero,
un ragazzo dalle labbra nere di bacche.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Krystyna Jaworska)

da “Dalla vita degli oggetti”, Poesie 1983-2005, Adelphi, 2012

∗∗∗

Fuoco, fuoco

Fuoco di Cartesio, fuoco di Pascal,
cenere, barlume, favilla.
A notte arde un invisibile falò,
un fuoco che comburendo non distrugge
bensì crea, come se volesse rendere
in un istante ciò che avevano sottratto
le fiamme in vari continenti,
la biblioteca di Alessandria, la fede
dei Romani e l’angoscia di una bambina
piccola della Nuova Zelanda.
                        Il fuoco come le armate
dei Mongoli devasta e brucia le città
lignee e petrose, e poi erige
lievi case e impercettibili palazzi,
impone a Cartesio
di abbattere la filosofia e costruirne una nuova,
si trasforma in un frutice ardente,
desta Pascal, percuote le campane
e le liquefa per eccesso di zelo.
Avete visto come legge
i libri, lui? Foglio a foglio, lentamente,
come qualcuno che abbia appena imparato
a sillabare.
                    Fuoco, fuoco, eterno
fuoco di Eraclito, cupido messaggero,
fanciullo dalla bocca annerita dalle bacche.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Marco Bruno)

da “ Andare a Leopoli e altre poesie, 1985, in “Guarire dal silenzio, Nuovi versi e poesie scelte”, “Lo Specchio” Mondadori, 2020

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Ogień, ogień

Ogień Kartezjusza, ogień Pascala,
popiół, iskra.
W nocy płonie niewidzialne ognisko,
ogień, który paląc się nie niszczy
tylko tworzy, jakby chciał oddać
w jednej chwili to, co zabrały
płomienie na różnych kontynentach,
bibliotekę w Aleksandrii, wiarę
Rzymian i lęk małej dziewczynki
z Nowej Zelandii.
                                    Ogień jak armie
Mongołów pustoszy i pali drewniane
i kamienne miasta, a potem wznosi
lekkie domy i niewidoczne pałace,
nakazuje Kartezjuszowi
obalić filozofię i zbudować nową,
przemienia się w krzew gorejący,
budzi Pascala, uderza w dzwony
i topi je z nadmiaru gorliwości.
Czy widzieliście, jak on czyta
książki? Kartkę po kartce, powoli,
jak ktoś, kto dopiero nauczył się
sylabizować.
                                            Ogień, ogień, wieczny
ogień Heraklita, chciwy posłaniec,
chłopiec o czarnych od jagód ustach.

Adam Zagajewski

da “Jechać do Lwowa”, London: Aneks, 1985