Poesia – Julio Cortázar

 

Ti amo per le ciglia, per i capelli, ti dibatto nei corridoi
bianchissimi dove si giocano le fonti delle luci,
ti discuto a ogni nome, ti svelo con delicatezza di cicatrice, 
ti metto sui capelli ceneri di lampo 
e nastri che  nella pioggia dormivano.
Non voglio che tu abbia una forma, che tu sia
esattamente ciò che è dietro la tua mano,
perché l’acqua, considera l’acqua, e i leoni quando si dissolvono
 nello zucchero della favola,
e i gesti, questa architettura del nulla, 
che accendono le loro lampade a metà dell’incontro.
Ogni mattina è la lavagna dove ti invento e ti disegno, 
pronto a cancellarti, così non sei, neppure con questi capelli lisci, questo sorriso.
Cerco la tua somma, il bordo della coppa
dove il vino 
è anche la luna e lo specchio,
cerco questa linea che fa tremare un uomo in una galleria di museo.

Per di più ti amo, e fa tempo e freddo.

Julio Cortázar

(Traduzione di Gianni Toti)

da “Le ragioni della collera”, Edizioni Fahrenheit 451, 1995

∗∗∗

Poema

Te amo por ceja, por cabello, te debato en corredores
blanquísimos donde se juegan las fuentes de la luz,
te discuto a cada nombre, te arranco con delicadeza de cicatriz,
voy poniéndote en el pelo cenizas de relámpago y cintas
que dormían en la lluvia.

No quiero que tengas una forma, que seas precisamente
lo que viene detrás de tu mano,
porque el agua, considera el agua, y los leones cuando se disuelven en el azúcar de la fábula,
y los gestos, esa arquitectura de la nada,
encendiendo sus lámparas a mitad del encuentro.
Todo mañana es la pizarra donde te invento y te dibujo,
pronto a borrarte, así no eres, ni tampoco con ese pelo lacio, esa sonrisa.
Busco tu suma, el borde de la copa
donde el vino es también la luna y el espejo,
busco esa línea que hace temblar a un hombre en una galería de museo.

Además te quiero, y hace tiempo y frío.

Julio Cortázar

da “Salvo el crepúsculo”, Buenos Aires, Ed. Alfaguara, 1984

Fauna e flora del fiume – Julio Cortázar

 

Questo fiume nasce dal cielo e si dispone a durare,
tira le lenzuola fino al collo, e dorme
davanti a noi che andiamo e veniamo.
Il Río de la Plata è questo che di giorno
ci inzuppa di vento e gelatina, ed è
la rinuncia del levante, perché il mondo
finisce con i lampioni del lungomare.

Non discutere oltre, leggi queste cose
possibilmente al bar, cielo di monete,
rifugiato dal fuori, dall’altro giorno feriale,
circondato dai sogni, dalla bava del fiume.
Non rimane quasi nulla; sì, l’amore che si vergogna
ed entra nelle buche delle lettere per piangere, o che va

solo da un angolo all’altro (ma lo vedono lo stesso),
conservando i suoi oggetti dolci, le sue foto e catenelle
e fazzolettini,
conservandoli nella regione della vergogna,
la zona della tasca in cui una piccola notte mormora
fra peluzzi e monete.

Per alcuni è tutto uguale, ma io
non amo il Racing, non mi piace
l’aspirina, risento
del giro dei giorni, mi disfo in attese,
a volte impreco, e mi dicono
che ti succede amico mio,
è il vento del nord, cazzo.

Julio Cortázar

(Traduzione di Eleonora Mogavero)

da “Il giro del giorno in ottanta mondi”, Alet, 2006

∗∗∗

Fauna y flora del río

Este río sale del cielo y se acomoda para durar,
estira las sábanas hasta el pescuezo y duerme
delante de nosotros que vamos y venimos.
El río de la plata es esto que de día
nos empapa de viento gelatina, y es
la renuncia al levante, porque el mundo
acaba con los farolitos de la costanera.
 
Más acá no discutas, lee estas cosas
preferentemente en el café, cielito de barajas,
refugiado del fuera, del otro día hábil,
rondado por los sueños, por la baba del río.
Casi no queda nada; sí, el amor vergonzoso
entrando en los buzones para llorar, o andando
solo por las esquinas (pero lo ven igual),
guardando sus objetos dulces, sus fotos y leontinas
y pañuelitos
guardándolos en la región de la vergüenza,
la zona de bolsillo donde una pequeña noche murmura
entre pelusas y monedas. 
 
Para algunos todo es igual, mas yo
no quiero a Racing, no me gusta
la aspirina, resiento
la vuelta de los días, me deshago en esperas,
puteo algunas veces, y me dicen
qué le pasa, amigo,
viento norte, carajo.

Julio Cortázar

da “La vuelta al día en ochenta mundos”, Siglo Veintiuno, 2005

After such pleasures – Julio Cortázar

Ulf Andersen, Julio Cortazar

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa notte, cercando la tua bocca in un’altra bocca,
quasi credendoci, perché così da cieco è questo fiume
che mi tira alle donne e mi sommerge fra le sue palpebre,
che tristezza nuotare infine verso la sponda del sopore
sapendo che il sopore è questo ignobile schiavo
che accetta le false monete, e le fa circolare sorridendo.

Dimenticata purezza, come vorrei riscattare
questo dolore di Buenos Aires, questa
attesa senza pause né speranza.
Solo nella mia casa aperta sopra il porto
un’altra volta ancora cominciare ad amarti,
un’altra volta ancora trovarti al caffè della mattina
senza che tante cose irrinunciabili
siano state.
E non dovermi accontentare di questa dimenticanza
che sale per niente, per cancellare dalla lavagna i tuoi pupazzetti
e non lasciarmi che una finestra destellata.

Julio Cortázar

(Traduzione di Gianni Toti)

da “Le ragioni della collera”, Edizioni Fahrenheit 451, 1995

∗∗∗

After such pleasures

Esta noche, buscando tu boca en otra boca,
casi creyéndolo, porque así de ciego es este río
que me tira en mujer y me sumerge entre sus párpados,
qué tristeza nadar al fin hacia la orilla del sopor
sabiendo que el placer es ese esclavo innoble
que acepta las monedas falsas, las circula sonriendo.

Olvidada pureza, cómo quisiera rescatar
ese dolor de Buenos Aires, esa espera sin pausas ni esperanza.
Solo en mi casa abierta sobre el puerto
otra vez empezar a quererte,
otra vez encontrarte en el café de la mañana
sin que tanta cosa irrenunciable
hubiera sucedido.
Y no tener que acordarme de este olvido que sube
para nada, para borrar del pizarrón tus muñequitos
y no dejarme más que una ventana sin estrellas.

Julio Cortázar

da “Salvo el crepúsculo”, Buenos Aires, Ed. Alfaguara, 1984

La patria – Julio Cortázar

Ulf Andersen, Julio Cortazar

 

Questa terra sugli occhi,
questo panno appiccicoso, nero di stelle impassibili,
questa notte continua, questa distanza.
Ti amo, paese buttato a mare, pesce a pancia in su,
povera ombra di paese, pieno di venti,
di monumenti e gigionate,
di orgoglio senza oggetto, soggetto ad assalti,
preso a sputi ubriaco inoffensivo che impreca e sventola bandierine,
distribuisce coccarde sotto la pioggia, e schizza
di bava e stupore campi di calcio e ring.

Poveri negri.

Stai bruciando a fuoco lento, e dov’è il fuoco,
dov’è chi si mangia la carne e ti tira gli ossi?
Delinquenti, gagà, signori e papponi,
deputati, oche dal doppio cognome,
grassone che lavorano a maglia nell’atrio, maestre, parroci, notai.
centravanti, pesi leggeri. Fangio da solo, primi tenenti,
colonnelli. generali, marinai, sanità, carnevali, vescovi,
bagualas, chamamés, malambos, mambi, tanghi,
segreterie, sottosegreterie, capi. controcapi, partite a truco con rilanci. E che cazzo,
se la casetta era il suo sogno, se lo hanno ucciso in una rissa,
se prendi, intaschi e porti via

Liquidazione forzata, svendita totale.

Ti amo, paese gettato sul marciapiede, scatola di fiammiferi vuota,
ti amo, secchio della spazzatura che si portano via su un affusto di cannone
avvolto nella bandiera che ci ha lasciato Belgrano,
mentre le vecchie piangono alla veglia, e il mate scorre
con il suo verde conforto, lotteria del povero,
e in ogni appartamento c’è qualcuno che è nato facendo discorsi
per qualcun altro che è nato per  ascoltarli e spellarsi le mani.
Poveri negri che accumulano voglia di essere bianchì,
poveri bianchi che vivono un carnevale da negri,
che totocalcio, fratello mio, a Boedo, alla Boca,
a Palermo e a Barracas, sui ponti, fuori,
nei ranchos che arrestano il sudiciume della pampa,
nelle case imbiancate dal silenzio del nord,
nelle lamiere zincate dove il freddo si struscia,
nella Plaza de Mayo dove è di ronda la morte vestita da Menzogna.
Ti amo, paese nudo che sogna uno smoking,
vicecampione del mondo in ogni cosa, in tutto ciò che si presenta,
terza posizione, energia nucleare, giustizialismo, vacche,
tango, coraggio, pugni, arguzia ed eleganza.
Così triste nel più profondo del grido, così malridotto
nel meglio della baldoria, così baldanzoso al momento dell’autopsia.
Ma ti amo, paese di fango, e anche altri ti amano, e qualcosa
nascerà da questo sentimento. Oggi è distanza, fuga,
non ti immischiare, che ci vuoi fare, dai che ce la fai, pazienza.
La terra fra le dita, l’immondizia negli occhi,
essere argentini è essere tristi,
essere argentini è essere lontani.
E non dire: domani,
perché basta essere debole adesso.
Mentre nascondo la faccia
(il poncho te lo lascio, folclorista imbecille)
ricordo una stella in piena campagna,
ricordo un’alba sull’altopiano,
Tilcara un pomeriggio, Paraná fragrante,
Tupungata aspra, un volo di fenicotteri
che bruciavano un orizzonte di paludi.
Ti amo, paese, fazzoletto sporco, con le tue vie
piene di manifesti peronisti, ti amo
senza speranza e senza rimedio, senza ritorno e senza diritto,
solo da lontano e amareggiato e di notte.

Julio Cortázar

(Traduzione di Eleonora Mogavero)

da “Il giro del giorno in ottanta mondi”, Alet, 2006

∗∗∗

La patria

Esta tierra sobre los ojos,
este paño pegajoso, negro de estrellas impasibles,
esta noche continua, esta distancia.
Te quiero, país tirado más abajo del mar, pez panza arriba,
pobre sombra de país, lleno de vientos,
de monumentos y espamentos,
de orgullo sin objeto, sujeto para asaltos,
escupido curdela inofensivo puteando y sacudiendo banderitas,
repartiendo escarapelas en la lluvia, salpicando
de babas y estupor canchas de fútbol y ringsides.

Pobres negros.

Te estás quemando a fuego lento, y dónde el fuego,
dónde el que come los asados y te tira los huesos.
Malandras, cajetillas, señores y cafishos,
diputados, tilingas de apellido compuesto,
gordas tejiendo en los zaguanes, maestras normales, curas, escribanos,
centroforwards, livianos, Fangio solo, tenientes primeros,
coroneles, generales, marinos, sanidad, carnavales, obispos,
bagualas, chamamés, malambos, mambos, tangos,
secretarías, subsecretarías, jefes, contrajefes, truco,
contraflor al resto. Y qué carajo,
si la casita era su sueño, si lo mataron en
pelea, si usted lo ve, lo prueba y se lo lleva.

Liquidación forzosa, se remata hasta lo último.

Te quiero, país tirado a la vereda, caja de fósforos vacía,
te quiero, tacho de basura que se llevan sobre una cureña
envuelto en la bandera que nos legó Belgrano,
mientras las viejas lloran en el velorio, y anda el mate
con su verde consuelo, lotería del pobre,
y en cada piso hay alguien que nació haciendo discursos
para algún otro que nació para escucharlos y pelarse las manos.
Pobres negros que juntan las ganas de ser blancos,
pobres blancos que viven un carnaval de negros,
qué quiniela, hermanito, en Boedo, en la Boca,
en Palermo y Barracas, en los puentes, afuera,
en los ranchos que paran la mugre de la pampa,
en las casas blanqueadas del silencio del norte,
en las chapas de zinc donde el frío se frota,
en la Plaza de Mayo donde ronda la muerte trajeada de Mentira.
Te quiero, país desnudo que sueña con un smoking,
vicecampeón del mundo en cualquier cosa, en lo que salga,
tercera posición, energía nuclear, justicialismo, vacas,
tango, coraje, puños, viveza y elegancia.
Tan triste en lo más hondo del grito, tan golpeado
en lo mejor de la garufa, tan garifo a la hora de la autopsia.
Pero te quiero, país de barro, y otros te quieren, y algo
saldrá de este sentir. Hoy es distancia, fuga,
no te metás, qué vachaché, dale que va, paciencia.
La tierra entre los dedos, la basura en los ojos,
ser argentino es estar triste,
ser argentino es estar lejos.
Y no decir: mañana,
porque ya basta con ser flojo ahora.
Tapándome la cara
(el poncho te lo dejo, folklorista infeliz)
me acuerdo de una estrella en pleno campo,
me acuerdo de un amanecer de puna,
de Tilcara de tarde, de Paraná fragante,
de Tupungato arisca, de un vuelo de flamencos
quemando un horizonte de bañados.
Te quiero, país, pañuelo sucio, con tus calles
cubiertas de carteles peronistas, te quiero
sin esperanza y sin perdón, sin vuelta y sin derecho,
nada más que de lejos y amargado y de noche.

Julio Cortázar

da “La vuelta al día en ochenta mundos”, Siglo Veintiuno, 2005

Milonga – Julio Cortázar

Ulf Andersen, Julio Cortazar

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rimpiango la Croce del Sud
quando la sete mi fa alzare la testa
per bere il tuo vino nero mezzanotte.
E rimpiango gli angoli con i magazzini sonnolenti
dove il profumo dell’erba trema nella pelle dell’aria.

Capire che tutto questo è sempre lì
come una tasca dove di continuo
la mano cerca una moneta il temperino il pettine
la mano instancabile di una oscura memoria
che riconta i suoi morti.

La Croce del Sud il mate amaro.
E le voci di amici
che parlano con altri.

Julio Cortázar

(Traduzione di Eleonora Mogavero)

da “Il giro del giorno in ottanta mondi”, Alet, 2006

∗∗∗

Milonga

El Tata Cedrón cantó esta milonga
con música de Edgardo Cantón.

Extraño la Cruz del Sur
cuando la sed me hace alzar la cabeza
para beber tu vino negro medianoche.
Y extraño las esquinas con almacenes dormilones
donde el perfume de la yerba tiembla en la piel del aire.

Comprender que eso está siempre allá
como un bolsillo donde a cada rato
la mano busca una moneda el cortapluma el peine
la mano infatigable de una oscura memoria
que recuenta sus muertos.

La Cruz del Sur el mate amargo.
Y las voces de amigos
usándose con otros.

Julio Cortázar

da “La vuelta al día en ochenta mundos”, Siglo Veintiuno, 2005