
Resta la carta mentre mi dileguo
specchio di me ma che non è me stesso
rimedio oppure tedio quando intesso
trame di me scrivendomi e m’inseguo
Pierluigi Cappello
da “Un prato in pendio”, Rizzoli, 2018

Resta la carta mentre mi dileguo
specchio di me ma che non è me stesso
rimedio oppure tedio quando intesso
trame di me scrivendomi e m’inseguo
Pierluigi Cappello
da “Un prato in pendio”, Rizzoli, 2018

Foto di Danilo De Marco
Gli occhi si sono fatti di sale nel voltarmi
i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;
ho raccolto le briciole del dopopranzo
e le ho scosse nell’aria vitrea del giardino
dove è appena spiovuto e irrompe il sole.
Qui, anche il piú lieve soprassalto del merlo oltre la siepe
sta fermo e stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.
La vostra lingua è la mia, ma la mia non è la vostra
mi sono sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra
il televisore e una musica epica diffonde l’eleganza di una berlina.
Tengo per me cos’è curare il fuoco
l’odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita
lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un’altra luce
rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti
pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;
un po’ qua un po’ là
si sta soli cosí, oggi, un giorno cosí, un giorno piú soli.
Pierluigi Cappello
da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010

Foto di Danilo De Marco
Tu sei di qui, di questo mondo
l’ombra delle tue dita si stampa
sul candido del foglio, la punta della penna;
stai dentro le parole, stai ogni giorno dentro le parole
nella forma delle cose mentre le si osserva
e ogni forma diventa una forma di tristezza
il tuo lungo ingresso alla cenere.
Rimetta a noi i nostri cieli la parola aggiustata,
un segnale nutrito dal lampo nel poco di nessun conto
nel conto dei giorni vissuti senza cura
e abbracci, ma senza abbagliare,
ogni minuto preso dal vento
e il presente di queste mani
come se fosse eterno.
Pierluigi Cappello
da “Mandate a dire all’imperatore”, Crocetti Editore, 2010

Foto di Danilo De Marco
Con lui venivano una determinazione feroce
dalla camera alla palestra
i cento metri percorsi in cinque minuti,
con una tensione di motore imballato
tutta la forza del suo corpo spastico
ribellata alla forza di gravità.
Sant’Agostino diceva che perfezione
è la carne che si fa spirito, lo spirito che si fa carne
ma non è vero: ogni mattina i puntali delle stampelle
scivolano metro a metro per guadagnarne cento
ogni mattina lo spirito è tagliato via da quel corpo,
dalle suole strascicanti e dalle nocche strette,
bianche sulle impugnature,
ogni mattina dal dorso di lottatore
si stacca un collo di tendini tesi e redini allentate
un urlo chiuso nella sua profondità,
perfetto nella sua separazione.
E io vi vedo una bellezza di cimieri abbattuti
e dentro la parola andare la parola compimento
e sono sicuro che lui sogna baci pieni di vento
mentre la volontà conquista le giornate a morsi,
schiaffo dopo schiaffo perché venga la sera
schiaffo dopo schiaffo, chiglia in piena bufera.
Ci vuole un’estate piena e un padre calmo,
un dio non assiso in mezzo agli sconfitti
ma cosí in tutta bellezza lo posso immaginare
come un bambino alle prime pedalate,
reggilo, eccolo, tienilo cosí – adesso tiene
uniti la terra e il cielo dell’estate
non sbanda piú, vince, è in equilibrio,
vola via.
Pierluigi Cappello
da “Dittico (1999–2003)”, in “Assetto di volo”, Crocetti Editore, 2006

Ma io, che fino adesso sono stato baciato
soltanto dalla tempesta, amore mio,
che fino adesso sono rimasto solo e secco,
un nocciolo secco senza il suo pomo intorno,
che la solitudine di te, la tua alla mia
meno leggera, mi è arrivata addosso,
dove trovarla adesso la forza,
e quale e come il fuoco di guardarti
o di guardare dove non ci sia amore?
Pierluigi Cappello
da “Assetto di volo. Poesie 1992-2005”, Crocetti Editore, 2006
***
Ma jo che fin cumò soi stât bussât
nome de tampieste amôr gno
che fin cumò soi stât bessôl e sec
’ne sepe secje e cence pome intor
che soledât di te, la tô a la mê
mancul lizere, e mi è vignude intor
dulà cjatâle la fuarce cumò
e cuâl e cemût il fûc di cjalâti
o di cjalâ dulà che amôr nol sedi?