Innocenza – Patrick Kavanagh

W. Eugene Smith, Walk to Paradise Garden, 1946

 

Loro ridevano dell’unica cosa che amavo –
Quella collina a forma di triangolo appesa
Com’è al Big Forth. Dicevano

Che ero incatenato da siepi di biancospino
Siepi di fattoria e non conoscevo il mondo.
E invece sapevo che la porta d’accesso che l’amore dà sulla vita
È la stessa porta d’accesso, ovunque.

Imbarazzato da questo mio amore
Fuggii da lei e la chiamai cunetta
Sebbene lei mi guardasse con un sorriso di viole.

Ma ora sono tornato qui nell’abbraccio dei suoi tralci.
La rugiada mattutina di un’estate indiana riposa
Sugli steli imbiancati delle patate –
Che età ho?

Non so che età io abbia
Non ho un’età mortale;
Non so nulla di donne,
Nulla di città,
Ma non posso morire
Senza oltrepassare queste siepi di biancospino.

Patrick Kavanagh

(Traduzione di Saverio Simonelli)

da “Andremo a rubare in cielo”, Ancora, 2009

∗∗∗

Innocence

They laughed at one I loved –
The triangular hill that hung
Under the Big Forth. They said

That I was bounded by the whitethorn hedges
Of the little farm and did not know the world.
But I knew that love’s doorway to life
Is the same doorway everywhere.

Ashamed of what I loved
I flung her from me and called her a ditch
Although she was smiling at me with violets.

But now I am back in her briary arms;
The dew of an Indian Summer morning lies
On bleached potato-stalks –
What age am I?

I do not know what age I am,
I am no mortal age;
I know nothing of women,
Nothing of cities,
I cannot die
Unless I walk outside these whitethorn hedges.

Patrick Kavanagh

da “Collected Poems”, W. W. Norton & Company, 1964

Aspettando le vesti – Leanne O’Sullivan

Foto di Roberto De Mitri

 

Il giorno che i dottori e le infermiere
hanno i loro colloqui settimanali coi pazienti,
siedo aspettando il mio turno fuori dello studio,
schiena al muro, gambe raccolte sotto il mento,

giocando con il lembo della mia camicia bianca da ospedale.
Hanno preso ogni cosa che a loro giudizio
doveva esser presa – le mie vesti, i miei libri,
la mia musica, come se venir spogliata

facesse parte della cura, come rimuovere il fodero
da una lama che ha fatto strage.
Hanno detto: aspetta qualche giorno, e se fai la brava
potrai riavere le tue cose. Avevano preso

il mio diario, la mia parola fatta carne, e penso
a questi dottori che mi conoscono nuda,
mi tengono per la spina dorsale, due dita
sotto il collo, come si tiene un bimbo,

mi cavano l’anima dalle costole,
sfogliano le pagine dei miei pensieri,
come se mi leggessero la mano,
il mio nome sotto di loro come una confessione,

che sono padroni di questa ragazza, che rivendicano
questo mondo di oscurità, leggerezza, morte
e nascita. È nelle loro mani come una sagola di salvataggio,
e io mi sento in caduta libera o a pezzi.

Sentono la mia voce mentre leggono
e pensano: Chi è questa ragazza che parla?
Io conosco la fine, a loro lo dice lei.
È l’ultima riga, sia sorgente che termine.

È ciò per cui gli oceani cantano, come si muove il sole,
un luogo per i cartografi dove cominciare.
Dietro la porta, niente è detto.
Come sogni, le mie vesti escono dalle scatole.

Leanne O’Sullivan

(Traduzione di Alessandro Gentili)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXVI, Novembre 2013, N. 287, Crocetti Editore

∗∗∗

Waiting For My Clothes 

The day the doctors and nurses are having
their weekly patient interviews, I sit waiting
my turn outside the office, my back to the wall,
legs curled up under my chin, playing

with the hem of my white hospital gown.
They have taken everything they thought
should be taken – my clothes, my books
my music, as if being stripped of these

were part of the cure, like removing the sheath
from a blade that has slaughtered.
They said, Wait a few days, and if you’re good
you can have your things back. They’d taken

my journal, my word made flesh, and I think
of those doctors knowing me naked,
holding me by my spine, two fingers
under my neck, the way you would hold a baby,

taking my soul from between my ribs
and leafing through the pages of my thoughts,
as if they were reading my palms,
and my name beneath them like a confession,

owning this girl, claiming this world
of blackness and lightness and death
and birth. It lies in their hands like a life-line,
and I feel myself fall open or apart.

They hear my voice as they read
and think, Who is this girl that is speaking?
I know the end, she tells them.
It is the last line, both source and closing.

It is what oceans sing to, how the sun moves,
a place for the map-maker to begin.
Behind the door, nothing is said.
Like dreams, my clothes come out of their boxes.

Leanne O’Sullivan

da “Waiting For My Clothes”, Bloodaxe Books Ltd, Tyne and Wear, 2004

Alfabeti – Seamus Heaney

Foto di Robert Doisneau

I

Un’ombra che suo padre fa a mani giunte
E con pollici e dita rosicchia sulla parete
Come una testa di coniglio. Lui capisce
Che capirà di più quando andrà a scuola.

Là disegna fumo col gesso la prima settimana,
Poi disegna il bastoncino a forca che chiamano Y.
Questo è scrivere. Collo e dorso di un cigno
Fanno un 2 che ora lui sa vedere e anche dire.

Due travi e una traversina sulla lavagna
Sono la lettera che uno chiama a, e un altro ei.
Ci sono cartelloni, ci sono parole guida, un modo
Giusto di tenere la penna e un modo sbagliato.

Prima c’è da «ricopiare», e poi c’è l’«inglese»
Segnato giusto con una piccola zappa storta.
Odore d’inchiostro sale nel silenzio della classe.
Il globo alla finestra pende come un’O colorata.

II

Declinazioni cantate in aria come un hosanna
Mentre, stratificate, colonne dopo colonne,
Libro Primo degli Elementa latina,
In lui si elevano marmoree e minacciose.

Perché è stato allevato poi a una più severa scuola
Intitolata al santo patrono del bosco di querce
Dove al cambio di lezione squillava una campana
E lui lasciò il foro latino per l’ombra

Di una nuova calligrafia dove si sentiva a casa.
Erano alberi le lettere di quell’alfabeto.
Le maiuscole erano frutteti in pieno fiore,
Le righe di scrittura come rotoli di rovi nei fossi.

Qui nella sua veste ornata di nastri e a piedi nudi,
Tutta boccoli di assonanze e note boscherecce
Sogno di poeta lo passava furtiva come raggio di sole
E poi si introduceva nei tenebrosi intrichi.

E lui impara quest’altra scrittura. È lo scriba
Che nel suo campo bianco guidò un giogo di penne.
Alla porta della sua cella saettano e sfiorano i merli.
Poi l’automortificazione, il digiuno, il puro freddo.

Con regola più dura più lontano si spingeva a nord
Si piega sopra lo scrittoio e ricomincia.
La falce di Cristo è passata nella sterpaglia.
La scrittura diventa nuda e merovingia.

III

Ruotato il globo. È ritto in una O di legno.
Lui allude a Shakespeare. Lui allude a Graves.
Il tempo ha cacciato la scuola e la finestra di scuola.
Macchine sfornano balle come stampe dove covoni puntellati

Disegnavano lambda sulle stoppie al tempo del raccolto
E la faccia a delta di tutte le buche delle patate
Era spianata e coperta di terriccio contro il gelo.
Tutto è andato, con l’omega che faceva la guardia
Sopra ogni porta, il ferro di cavallo della fortuna.
Eppure, linguaggio in forma di note, assoluto nell’aria
Come le lettere di Costantino in cielo IN HOC SIGNO
Ancora ha signoria su di lui; oppure il negromante

Che appendeva alla volta del soffitto di casa sua
Una figura del mondo con i colori dentro
Così che la figura dell’universo
E «non solo singole cose» incontrassero il suo sguardo

Quando usciva all’aperto. Come dalla finestrella
L’astronauta vede tutto quello donde è scattato,
Quella sospesa, acquea, singolare, O lucente
Come un ovulo ingrandito e galleggiante –

O come i miei occhi pre-consapevolmente sgranati
Ansiosamente fissi sull’intonacatore sulla scala
Mentre pareggiava il timpano e scriveva il nostro nome
Con la punta della cazzuola, lettera dopo lettera strana.

Seamus Heaney

(Traduzione di Francesca Romana Paci)

da “La lanterna di biancospino”, Guanda, Parma, 1999

∗∗∗

Alphabets

I

A shadow his father makes with joined hands
And thumbs and fingers nibbles on the wall
Like a rabbit’s head. He understands
He will understand more when he goes to school.

There he draws smoke with chalk the whole first week,
Then draws the forked stick that they call a Y.
This is writing. A swan’s neck and swan’s back
Make the 2 he can see now as well as say.

Two rafters and a cross-tie on the slate
Are the letter some call ah, some call ay.
There are charts, there are headlines, there is a right
Way to hold the pen and a wrong way.

First it is ‘copying out’, and then ‘English’
Marked correct with a little leaning hoe.
Smells of inkwells rise in the classroom hush.
A globe in the window tilts like a coloured O.

II

Declensions sang on air like a hosanna
As, column after stratified column,
Book One of Elementa Latina,
Marbled and minatory, rose up in him.

For he was fostered next in a stricter school
Named for the patron saint of the oak wood
Where classes switched to the pealing of a bell
And he left the Latin forum for the shade

Of new calligraphy that felt like home.
The letters of this alphabet were trees.
The capitals were orchards in full bloom,
The lines of script like briars coiled in ditches.

Here in her snooded garment and bare feet,
All ringleted in assonance and woodnotes,
The poet’s dream stole over him like sunlight
And passed into the tenebrous thickets.

He learns this other writing. He is the scribe
Who drove a team of quills on his white field.
Round his cell door the blackbirds dart and dab.
Then self-denial, fasting, the pure cold.

By rules that hardened the farther they reached north
He bends to his desk and begins again.
Christ’s sickle has been in the undergrowth.
The script grows bare and Merovingian.

III

The globe has spun. He stands in a wooden O.
He alludes to Shakespeare. He alludes to Graves.
Time has bulldozed the school and school window.
Balers drop bales like printouts where stooked sheaves

Made lambdas on the stubble once at harvest
And the delta face of each potato pit
Was patted straight and moulded against frost.
All gone, with the omega that kept

Watch above each door, the good luck horse-shoe.
Yet shape-note language, absolute on air
As Constantine’s sky-lettered IN HOC SIGNO
Can still command him; or the necromancer

Who would hang from the domed ceiling of his house
A figure of the world with colours in it
So that the figure of the universe
And ‘not just single things’ would meet his sight

When he walked abroad. As from his small window
The astronaut sees all he has sprung from,
The risen, aqueous, singular, lucent O
Like a magnified and buoyant ovum –

Or like my own wide pre-reflective stare
All agog at the plasterer on his ladder
Skimming our gable and writing our name there
With his trowel point, letter by strange letter.

Seamus Heaney

da “The Haw Lantern”, Faber and Faber Limited, London, 1987

da «Scuola di canto» – Seamus Heaney

Jack McManus, Seamus Heaney in the 1970s

Il mio animo ebbe bel tempo di semina, crebbi
nutrito di bellezza e paura,
favorito non poco dal mio luogo di nascita e non meno
da quella amata valle dove più avanti
fui trapiantato…
                          William Wordsworth, Preludio
Egli [lo stalliere] aveva un libro di versi orangisti e i giorni in cui li leggevamo insieme nel fienile mi diedero per la prima volta il piacere della rima. In seguito ricordo che sentii raccontare, quando ci fu il sentore di una rivolta feniana, che agli orangisti erano stati distribuiti dei fucili, e così, quando cominciai a sognare la mia vita futura, pensai che avrei voluto morire combattendo con i feniani.
                                                   W. B. Yeats, Autobiografie
1. IL MINISTERO DELLA PAURA
a Seamus Deane

Bene, come ha detto Kavanagh, siamo vissuti
in luoghi importanti. La cresta solitaria
del St Columb’s College, dove fui acquartierato
sei anni, dominava il tuo Bogside.
Fissavo nuovi mondi, la gola infiammata
di Brandywell, la sua pista per cani illuminata,
l’accelerata della lepre. La prima settimana
soffrii tanto di nostalgia da non riuscire a mangiare
nemmeno i biscotti dati per addolcirmi l’esilio.
Li gettai oltre la staccionata una notte
nel settembre 1951
quando le luci delle case in Lecky Road
erano ambra nella nebbia. Fu un gesto
furtivo.
              Poi Belfast, e poi Berkeley.
«Eccoci qui, due raffinati», che si dilettavano
di versi finché son diventati
una vita: da buste voluminose che arrivano
in tempo di vacanza fino ai volumi sottili
spediti «con i saluti dell’autore».
Quelle poesie scritte a mano, strappate dalla spirale
del tuo quaderno, mi confondevano…
Vocali e idee libere
come gusci di semi volanti via da sicomori.
Cercai di scrivere sui sicomori
innovando una rima di South Derry
con hushed e lulled in eco a pushed e pulled.
Quegli stivali chiodati da oltre la montagna
camminavano, per Dio, per tutti i rifiniti
prati all’inglese dell’elocuzione.
                                                   Sono cambiati i nostri accenti?
«I cattolici, in genere, non parlano
bene come gli studenti delle scuole protestanti.»
Ricordi quella roba? Complessi
d’inferiorità della stessa sostanza dei sogni.
«Come ti chiami, Heaney?»
                                                  «Heaney, padre.»
                                                                                   «E va bene.»
Il mio primo giorno, la cinghia di cuoio
divenne epilettica in Direzione,
con l’eco sciabordante sulle nostre teste chine,
ma io scrivevo lo stesso a casa che la vita del convittore
non era così male, come sempre schivando.

Nelle lunghe vacanze, poi, venni alla vita
sul sedile dei baci di una Austin 16,
parcheggiata di fianco a una casa a motore acceso,
le mie dita strette come edera sulle sue spalle,
una luce lasciata accesa per lei in cucina.
E tornando a casa, la libertà estiva
che si esauriva notte su notte, l’aria
tutta di luna piena e profumo di fieno, i poliziotti
agitavano le loro pile rosse, affollandosi attorno
alla macchina come una nera mandria, fiutando
e puntandomi nell’occhio la canna di uno sten:
«Il tuo nome, autista?»
                                          «Seamus…»
                                                                 Seamus?

Una volta lessero le mie lettere a un posto di blocco
puntando le loro torce sui tuoi geroglifici,
«Frasi eleganti» in uno stile molto fiorito.

L’Ulster era britannico, ma senza alcun diritto
sulla lirica inglese: ovunque attorno a noi,
l’avevamo lasciato senza nome, il ministero della paura.

 2. UN AGENTE FA VISITA

La sua bicicletta era appoggiata al davanzale,
il paraschizzi di gomma del frangifango
seguiva la ruota anteriore,
le manopole grosse e nere

si scaldavano al sole, la patata
della dinamo lucida era alzata,
i pedali ciondolavano affrancati
dallo stivale della legge.

Il berretto era rovesciato
sul pavimento, vicino alla sedia.
La linea della sua pressione scanalava
i capelli un po’ sudati.

Aveva slegato
il pesante registro, e mio padre
dava conto della resa del terreno
in acri e pertiche.

Aritmetica e paura.
Io seduto fissavo la fondina lucida
con il risvolto abbottonato, l’anello di cordone intrecciato
assicurato al calcio della pistola.

«Altre radici commestibili?
Barbabietole o cavoli da foraggio? Niente del genere?»
«No.» Ma non c’era una fila
di rape dove finiva il seminato

del campo di patate? Ipotizzai
piccole colpe e immaginai
la cella di punizione della caserma.
Si alzò, spostando la guaina del manganello

più in là sulla cintura,
chiuse il gran libro del rendiconto,
si calcò il berretto con due mani,
e mi guardò mentre salutava.

Un’ombra sobbalzò alla finestra:
stava chiudendo la molla del portapacchi
sul registro. Lo stivale diede la spinta
e la bicicletta si mosse, tic tic tic.

4. ESTATE 1969

Mentre la polizia copriva la marmaglia
che sparava nella Falls, io soffrivo
soltanto il sole prepotente di Madrid.
Ogni pomeriggio, nel  caldo da casseruola
dell’appartamento, mentre sudavo
sulla vita di Joyce, il tanfo del mercato del pesce
saliva come fetore di lino macerato.
Di notte, sul balcone, il rosso del vino,
una sensazione di bambini nei loro angoli bui
e vecchie in scialli neri accanto a finestre aperte,
l’aria un canyon scorrente in spagnolo.
Fummo a casa, a parole, su pianure stellate,
dove il cuoio verniciato dei berretti della Guardia Civil
luccicava come pance di pesci in acque avvelenate dal lino.

«Torna» uno disse, «prova a stare tra la gente.»
Un altro evocò Lorca dalla sua collina.
Restammo là seduti tra conte dei morti e resoconti di corride
alla televisione, le celebrità arrivavano
da dove accadevano ancora cose importanti.

Mi ritirai nel fresco del Prado.
Le fucilazioni del tre maggio di Goya
copriva una parete, le braccia alzate,
lo spasmo del ribelle, i militari
con elmetto e zaino, l’efficiente
sventagliata dell’esecuzione. Nella sala accanto
i suoi incubi, innestati nel muro del palazzo,
cicloni scuri, adunati, dispersi; Saturno
ingemmato del sangue dei suoi figli,
e il Caos gigantesco che volge i fianchi brutali
sopra il mondo. E anche quel duello all’ultimo sangue
dove due forsennati si bastonano a morte per onore,
nella palude fino al ginocchio, affondando.

Lui dipingeva di polso e gomito, sventolava
la muleta macchiata del suo cuore mentre la storia caricava.

5. AFFIDAMENTO
a Michael McLaverty

«Descrizione è rivelazione!» Royal
Avenue, Belfast, 1962,
un sabato pomeriggio, lieto di incontrare
me, neonato nella lingua, mi afferrò
per il gomito. «Ascolta. Va’ per la tua strada.
Fa’ il tuo lavoro. Ricorda
Katherine Mansfield – Io dirò
come scricchiolava la cesta del bucato… quella nota di esilio.»
Ma guai a strafare:
«Non far pulsare le tue vene nella biro.»
E poi, «Povero Hopkins!». Ho i Diari
che mi diede, sottolineati, il suo io piegato
inchinato al loro dolore. Riconosceva
i lineamenti della pazienza, ovunque,
e mi allevò e mi lasciò andare, con parole
che si imposero sulla mia lingua come oboli.

6. ESPOSIZIONE

È dicembre a Wicklow:
ontani gocciolanti, betulle
ereditanti l’ultima luce,
il frassino, freddo da guardare.

Una cometa che si era persa
dovrebbe essere visibile al tramonto,
quei milioni di tonnellate di luce
bagliore di bacche e rosa canina.

E io a volte vedo una stella cadente.
Potessi imbattermi in un meteorite!
Invece cammino su foglie umide,
gusci, i resti consumati dell’autunno,

immaginando un eroe
in un recinto fangoso,
il suo dono come una pietra fiondata
a difesa dei disperati.

Come sono finito così?
Spesso penso ai bei consigli
prismatici degli amici,
e al cervello a incudine di chi mi odia

mentre siedo pesando e soppesando
i miei responsabili tristia.
Per che cosa? Per l’orecchio? Per la gente?
Per ciò che si dice alle spalle?

La pioggia cade tra gli ontani,
le sue basse voci concilianti
mormorano di erosioni e delusioni
ma non c’è goccia che non risvegli

gli adamantini assoluti.
Non sono né una spia né un internato,
sono un émigré interno, capelli lunghi,
e pensoso, un ribelle sbandato

sfuggito al massacro,
che si mimetizza
col tronco e la corteccia, e sente
il soffio di ogni vento,

che, mentre soffia su queste scintille
per il loro povero calore, ha perduto
il portento di una volta nella vita,
la rosa pulsante della cometa.

Seamus Heaney

(Traduzione di Roberto Mussapi)

da “Nord”, in “Seamus Heaney, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 2016

1. Il ministero della paura (The Ministry of Fear): tetrametri e pentametri giambici non rimati; 2. Un agente fa visita (A Constable Calls): quartine di trimetri e tetrametri giambici con rime occasionali. 4. Estate 1969 (Summer 1969): tetrametri giambici non rimati; 5. Affidamento (Fosterage): tetrametri giambici non rimati; 6. Esposizione (Exposure): quartine di trimetri giambici non rimati.
The Wearing of the Black: An Anthology of Contemporary Ulster Poetry, ed. by Padraic Fiacc, Blackstaff Press, Belfast 1974, pp. 42-3 (from Singing School).
Prendendo spunto dalla sesta sezione, si può definire quest’ultima parte di North come “quadri di un’esposizione” autobiografica (seguendo l’antologia New Selected Poems 1966-1987, si omette qui la terza delle sei parti che compongono questa sequenza poetica, parte peraltro che era stata composta diversi anni prima delle altre cinque). Il titolo, preso dalla poesia Sailing to Byzantium di Yeats («né c’è scuola di canto che lo studio / dei monumenti della sua magnificenza», trad. it. di Ariodante Marianni, in W.B. Yeats, L’opera poetica, Mondadori, Milano 2005, p. 587, vv. 13-4), è seguito da una doppia epigrafe: riflessioni autobiografiche che fanno da preludio a quelle di Heaney, che saranno incentrate sui propri “monumenti”. Lo scarto tra le parole di Wordsworth e quelle di Yeats sta nell’importanza e nell’impatto che le circostanze politiche e il condizionamento culturale a esse legato hanno sulla formazione di un individuo. Nei movimenti che scandiscono la sua «scuola di canto», ciascuno un tour de force psicologico e testuale, Heaney esplora le sfumature e i significati di questo scarto. Nel primo – legato al ricordo di Seamus Deane, dedicatario della sequenza, suo compagno di scuola al St Columb’s College e poi di università e affermatosi anch’egli come scrittore e critico –descrive l’atmosfera in Irlanda del Nord dagli anni Quaranta agli anni Cinquanta. Sono anni di studio e di vacanza, di impegno e di libertà, delle prime esperienze poetiche, di conoscenza di sé e degli altri: esperienze su cui però aleggia il «ministero della paura» (titolo ripreso da un romanzo di Graham Greene) di cui i posti di blocco e i controlli attuati dalla polizia nordirlandese sono il correlativo oggettivo più visibile e invadente.
Nella seconda sezione, Heaney ricorda l’ispezione di un agente alla fattoria paterna per verificare che tutto fosse in regola con il rendiconto dei guadagni e il pagamento delle tasse. Il giovane Seamus è già abbastanza maturo da comprendere le conseguenze per chi non dice la verità. Sospeso tra le ragioni del padre e quelle dell’agente, tra «aritmetica e paura», Heaney segue ogni movimento dell’agente, cercando di intuire il successivo, fino al «tic tic tic» della bicicletta che si allontana (in questo ticchettio come di bomba innescata alcuni critici hanno colto un’allusione ai Troubles).
Nel quarto movimento il poeta si trova all’estero, in Spagna, ma la gravità delle tensioni tra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord è al centro dei suoi pensieri. È profondamente scosso dalle notizie che provengono da Belfast – e forse lo è ancora di più proprio per il senso di colpa di essere lontano, impegnato con attività di poco conto se messe a confronto con quanto stava succedendo nelle strade proletarie nella zona occidentale di Belfast. Quattro quadri di Goya (Le fucilazioni del tre maggio, Saturno che divora i suoi figli, Il colosso e Duello rusticano) permettono al poeta di essere “presente in absentia” al dramma dei Troubles.
Il quinto movimento – che si apre con un verso programmatico, «Descrizione è rivelazione!», preso da Wallace Stevens (Description without Place) – è la descrizione dell’incontro con Michael McLaverty, preside della scuola dove Heaney svolge il suo tirocinio di insegnante. Si tratta di un incontro “rivelatore” e “premonitore”. Da McLaverty – scrittore cattolico di grande intensità emotiva e tensione etica (nelle cui parole echeggiano quelle di Gerard Manley Hopkins), pronto a riconoscere e seguire un alto esempio morale e letterario – il giovane aspirante poeta riceve un insegnamento e un invito a trovare la propria voce e i propri temi poetici. L’intenzione di affidarsi a dei modelli è riflessa nel titolo della sezione: la parola inglese fosterage descrive infatti la tradizione, caratteristica dell’antica società irlandese, di affidare un minore alla cura di un membro del clan familiare (sull’“affidamento”, da intendersi nel senso di “apprendimento” e “discepolato”, il poeta ritorna nei versi di Station Island e di Fosterling, in Seeing Things).
Heaney decide di lasciare l’Irlanda del Nord per dedicarsi alla scrittura nella pace della campagna dublinese, dove è ambientato il sesto movimento. La scelta che per lui è chiara («Non sono né una spia né un internato, / sono un émigré interno») è percepita da altri («cervello a incudine di chi mi odia») come un errore, un abbandono, addirittura un tradimento, e le critiche non tardano a venire, sia da parte cattolica sia da parte protestante. Facendo proprio come esempio di integrità morale e artistica un altro scrittore perseguitato, Osip Mandel’štam, da lui definito «il Lazzaro della poesia russa moderna» (Envies and Identifications: Dante and the Modern Poet, «Irish University Review», XV, 1, Spring 1985), Heaney s’interroga sulle proprie responsabilità e sulle conseguenze che lo aspettano sia sul piano artistico che umano. La poesia e il libro si chiudono su una nota di incertezza e perplessità che va oltre la caratteristica umiltà del poeta. Intervistato da Henri Cole (Seamus Heaney: The Art of Poetry, No. 75, «Paris Review», 144, Fall 1997) Heaney spiega che l’ansia che avvolge i versi finali di Exposure è generata da un dubbio: se «ciò che scaturisce da questo spostamento [da Belfast a Dublino] sarà in qualche modo adeguato. La poesia si domanda: c’è abbastanza qui per far fronte alle atrocità che stanno avvenendo lassù? E il poeta dice: che cosa sto facendo se non attizzare qualche piccola scintilla quando l’occasione necessita di una cometa?».
1, vv. 1-2. come ha detto Kavanagh, siamo vissuti / in luoghi importanti: allusione ai primi versi della poesia Epic di Patrick Kavanagh nella quale i «luoghi importanti» e i «grandi eventi» sono in realtà, ironicamente, luoghi e beghe contadine. Era stato McLaverty a introdurre Heaney alla poesia di Kavanagh facendogli leggere A Soul for Sale, opera che, soprattutto con la lunga poesia The Great Hunger, fu fondamentale nell’evoluzione poetica di Heaney.
1, v. 4. Bogside è un quartiere cattolico di Derry dove è nato Seamus Deane. Brandywell (v. 6) è lo stadio di Derry, usato sia per le partite di calcio sia per le corse dei cani.
1, vv. 13-4. Fu un gesto / furtivo:  citazione da The Prelude di W. Wordsworth (I 361).
1, v. 15. Eccoci qui, due raffinati: citazione leggermente modificata da King Lear III IV 100.
1, v. 51. «Il tuo nome, autista?» / «Seamus…» / Seamus?: in Irlanda del Nord i nomi che hanno forma irlandese, come appunto Seamus (Giacomo), tendono a essere usati dai cattolici (si veda qui in North anche Whatever You Say Say Nothing III 17-8).
2, v. 30. il gran libro del rendiconto: l’espressione inglese domesday book, letteralmente “libro del Giorno del giudizio”, allude all’omonimo registro che racchiude il rilevamento generale di tutte le terre e le proprietà dell’Inghilterra, ordinato da Guglielmo il Conquistatore nel 1086.
4, vv. 1-2. la marmaglia / che sparava nella Falls: la Falls Road di Belfast è nel cuore della zona repubblicana.
5, vv. 7-8. Io dirò / come scricchiolava la cesta del bucato: citazione da un passo di Katherine Mansfield (1888-1923), in cui la scrittrice si propone di attingere ai propri ricordi neozelandesi per «far balzare il nostro Paese ancora da scoprire agli occhi del Vecchio Mondo […]. Racconterò tutto, persino di come scricchiolava la cesta del bucato» (The Katherine Mansfield Notebooks, ed. by Margaret Scott, Lincoln University Press, Lincoln [PA] 1997, vol.II, p. 32). (Marco Sonzogni)

∗∗∗

Singing School

Fair seedtime had my soul, and I grew up
Fostered alike by beauty and by fear;
Much favoured in my birthplace, and no less
In that beloved Vale to which, erelong,
I was transplanted …
         William Wordsworth, The Prelude
He [the stable-boy] had a book of  Orange rhymes, and the days when we read them together in the hay-loft gave me the pleasure of rhyme for the first time. Later on I can remember being told, when there was a rumour of a Fenian rising, that rifles were being handed out to the Orangemen; and presently, when I began to dream of my future life, I thought I would like to die fighting the Fenians.
                   W. B. Yeats, Autobiographies
1. THE MINISTRY OF FEAR
for Seamus Deane 

Well, as Kavanagh said, we have lived
In important places. The lonely scarp
Of St Columb’s College, where I billeted
For six years, overlooked your Bogside.
I gazed into new worlds: the inflamed throat
Of Brandywell, its floodlit dogtrack,
The throttle of the hare. In the first week
I was so homesick I couldn’t even eat
The biscuits left to sweeten my exile.
I threw them over the fence one night
In September 1951
When the lights of houses in the Lecky Road
Were amber in the fog. It was an act
Of stealth.
                  Then Belfast, and then Berkeley.
Here’s two on’s are sophisticated,
Dabbling in verses till they have become
A life: from bulky envelopes arriving
In vacation time to slim volumes
Despatched ‘with the author’s compliments’.
Those poems in longhand, ripped from the wire spine
Of your exercise book, bewildered me –
Vowels and ideas bandied free
As the seed-pods blowing off our sycamores.
I tried to write about the sycamores
And innovated a South Derry rhyme
With hushed and lulled full chimes for pushed and pulled.
Those hobnailed boots from beyond the mountain
Were walking, by God, all over the fine
Lawns of elocution.
                               Have our accents
Changed? ‘Catholics, in general, don’t speak
As well as students from the Protestant schools.’
Remember that stuff? Inferiority
Complexes, stuff that dreams were made on.
‘What’s your name, Heaney?’
                                             ‘Heaney, Father.’
                                                                      ‘Fair
Enough.’
                On my first day, the leather strap
Went epileptic in the Big Study,
Its echoes plashing over our bowed heads,
But I still wrote home that a boarder’s life
Was not so bad, shying as usual.

On long vacations, then, I came to life
In the kissing seat of an Austin 16
Parked at a gable, the engine running,
My fingers tight as ivy on her shoulders,
A light left burning for her in the kitchen.
And heading back for home, the summer’s
Freedom dwindling night by night, the air
All moonlight and a scent of hay, policemen
Swung their crimson flashlamps, crowding round
The car like black cattle, snuffing and pointing
The muzzle of a Sten gun in my eye:
‘What’s your name, driver?’
                                          ‘Seamus …’
                                                            Seamus?

They once read my letters at a roadblock
And shone their torches on your hieroglyphics,
‘Svelte dictions’ in a very florid hand.

Ulster was British, but with no rights on
The English lyric: all around us, though
We hadn’t named it, the ministry of fear.

2. A CONSTABLE CALLS

His bicycle stood at the window-sill,
The rubber cowl of a mud-splasher
Skirting the front mudguard,
Its fat black handlegrips

Heating in sunlight, the ‘spud’
Of the dynamo gleaming and cocked back,
The pedal treads hanging relieved
Of the boot of the law.

His cap was upside down
On the floor, next his chair.
The line of its pressure ran like a bevel
In his slightly sweating hair.

He had unstrapped
The heavy ledger, and my father
Was making tillage returns
In acres, roods, and perches.

Arithmetic and fear.
I sat staring at the polished holster
With its buttoned flap, the braid cord
Looped into the revolver butt.

‘Any other root crops?
Mangolds? Marrowstems? Anything like that?’
‘No.’ But was there not a line
Of turnips where the seed ran out

In the potato field? I assumed
Small guilts and sat
Imagining the black hole in the barracks.
He stood up, shifted the baton-case

Further round on his belt,
Closed the domesday book,
Fitted his cap back with two hands,
And looked at me as he said goodbye.

A shadow bobbed in the window.
He was snapping the carrier spring
Over the ledger. His boot pushed off
And the bicycle ticked, ticked, ticked.

4. SUMMER 1969

While the Constabulary covered the mob
Firing into the Falls, I was suffering
Only the bullying sun of Madrid.
Each afternoon, in the casserole heat
Of the flat, as I sweated my way through
The life of Joyce, stinks from the fishmarket
Rose like the reek off a flax-dam.
At night on the balcony, gules of wine,
A sense of children in their dark corners,
Old women in black shawls near open windows,
The air a canyon rivering in Spanish.
We talked our way home over starlit plains
Where patent leather of the Guardia Civil
Gleamed like fish-bellies in flax-poisoned waters.

‘Go back,’ one said, ‘try to touch the people.’
Another conjured Lorca from his hill.
We sat through death-counts and bullfight reports
On the television, celebrities
Arrived from where the real thing still happened.

I retreated to the cool of the Prado.
Goya’s ‘Shootings of the Third of May’
Covered a wall – the thrown-up arms
And spasm of the rebel, the helmeted
And knapsacked military, the efficient
Rake of the fusillade. In the next room,
His nightmares, grafted to the palace wall –
Dark cyclones, hosting, breaking; Saturn
Jewelled in the blood of his own children,
Gigantic Chaos turning his brute hips
Over the world. Also, that holmgang
Where two berserks club each other to death
For honour’s sake, greaved in a bog, and sinking.

He painted with his fists and elbows, flourished
The stained cape of his heart as history charged.

5. FOSTERAGE
for Michael McLaverty

‘Description is revelation!’ Royal
Avenue, Belfast, 1962,
A Saturday afternoon, glad to meet
Me, newly cubbed in language, he gripped
My elbow. ‘Listen. Go your own way.
Do your own work. Remember
Katherine Mansfield – I will tell
How the laundry basket squeaked … that note of exile.’
But to hell with overstating it:
‘Don’t have the veins bulging in your Biro.’
And then, ‘Poor Hopkins!’ I have the Journals
He gave me, underlined, his buckled self
Obeisant to their pain. He discerned
The lineaments of patience everywhere
And fostered me and sent me out, with words
Imposing on my tongue like obols.

6. EXPOSURE

It is December in Wicklow:
Alders dripping, birches
Inheriting the last light,
The ash tree cold to look at.

A comet that was lost
Should be visible at sunset,
Those million tons of light
Like a glimmer of haws and rose-hips,

And I sometimes see a falling star.
If I could come on meteorite!
Instead I walk through damp leaves,
Husks, the spent flukes of autumn,

Imagining a hero
On some muddy compound,
His gift like a slingstone
Whirled for the desperate.

How did I end up like this?
I often think of my friends’
Beautiful prismatic counselling
And the anvil brains of some who hate me

As I sit weighing and weighing
My responsible tristia.
For what? For the ear? For the people?
For what is said behind-backs?

Rain comes down through the alders,
Its low conducive voices
Mutter about let-downs and erosions
And yet each drop recalls

The diamond absolutes.
I am neither internee nor informer;
An inner émigré, grown long-haired
And thoughtful; a wood-kerne

Escaped from the massacre,
Taking protective colouring
From bole and bark, feeling
Every wind that blows;

Who, blowing up these sparks
For their meagre heat, have missed
The once-in-a-lifetime portent,
The comet’s pulsing rose.

Seamus Heaney

da “North”, Faber & Faber, London, 1975

Campanule d’amore – Patrick Kavanagh

 

Ci saranno campanule che crescono sotto i grandi alberi
E tu sarai lì ed io sarò lì in maggio;
Per qualche altro motivo dovremo ambedue far tardi
La sera a Dunshaughlin – per accontentare
Qualche immaginaria relazione,
Così tutti e due avremo da camminare in quel boschetto.

Ci interesserà l’erba
E il cerchio di un vecchio secchio e l’edera che intesse
Verdi incongruenza tra le foglie morte,
Fingeremo di sorprenderci al passare dei carri –

Guardando di lato solo di tanto in tanto le campanule nel boschetto,
Senza spaventarle mai con esclamazioni troppo concitate.

Saremo cauti e non gli faremo capire
Che le stiamo guardando, altrimenti assumeranno
Una posa di mera apparenza come ragazzi
Colti alla sprovvista in una castità naturale.
Non esigeremo dalle campanule del boschetto
Un’adulazione eccessiva dei nostri desideri.

Avremo altri amori – o così penseranno;
Le primule oppure le felci o le rose canine,
O anche i reticolati arrugginiti,
O le viole all’ombra dei terrapieni di acetosella.
Le campanule del boschetto varranno solo
Come digressione nel nostro segreto contemplare.

Conosceremo l’amore poco a poco, sguardo dopo sguardo.
Ah, la terra sotto queste radici è così bruna!
Andremo a rubare in cielo mentre Dio è in città –
Per puro caso ho scoperto un angelo sorridente
Che sbirciava tra i tronchi del boschetto
Mentre tu ed io camminavamo verso la stazione.

Patrick Kavanagh

(Traduzione di Saverio Simonelli)

da “Andremo a rubare in cielo”, Ancora, 2009

***

Bluebells for love

There will be bluebells growing under the big trees
And you will be there and I will be there in May;
For some other reason we both will have to delay
The evening in Dunshaughlin – to please
Some imagined relation,
So both of us came to walk through that plantation.

We will be interested in the grass,
In an old bucket-hoop, in the ivy that weaves
Green incongruity among dead leaves,
We will put on surprise at carts that pass –

Only sometimes looking sideways at the bluebells in the plantation
And never frighten them with too wild an exclamation.

We will be wise, we will not let them guess
That we are watching them or they will pose
A mere facade like boys
Caught out in virtue’s naturalness.
We will not impose on the bluebells in that plantation
Too much of our desire’s adulation.

We will have other loves or so they’ll think;
The primroses or the ferns or the briars,
Or even the rusty paling wires,
Or the violets on the sunless sorrel bank,
Only as an aside the bluebells in the plantation
Will mean a thing to our dark contemplation.

We’ll know love little by little, glance by glance.
Ah, the clay under these roots is so brown!
We’ll steal from Heaven while God is in the town –
I caught an angel smiling in a chance
Look through the tree-trunks of the plantation
As you and I walked slowly to the station.

Patrick Kavanagh

da “Collected Poems”, W. W. Norton & Company, 1964